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Sembrano ormai maturi i tempi, a cinquantacinque anni dalla famosa intervista con lo Spiegel il 23 settembre 1966, per iniziare a capire una – tra le tante – sibilline affermazioni di un filosofo tra i più controversi di sempre, Martin Heidegger, rilasciata all'inviato del settimanale tedesco: «È per me oggi un problema decisivo come si possa attribuire un sistema politico - e quale - all'età della tecnica. Non sono convinto che sia la democrazia» sollevando così la questione circa l'effettiva “corrispondenza“ tra questa antica e gloriosa forma di organizzazione della vita sociale e l'incipiente compiersi del pensiero e dell'età moderna nel “mondo nuovo“, riordinato e rivestito per intero dalla “tecnica“. Tecnica nominerebbe infatti per il filosofo non uno strumento ma qualcosa che l'uomo sarebbe mai in grado di dominare. «Ma perché», lo incalzava allora l'inviato dello Spiegel, «dovremmo essere sopraffatti dalla tecnica?». Heidegger aveva risposto: «Io non dico “sopraffatti”. Dico che non abbiamo ancora nessuna strada che corrisponda all'essenza della tecnica».

Ebbene il caso italiano, dove un decennale susseguirsi di governi cosiddetti “tecnici“ ha visto immancabilmente applicata un'agenda dal contenuto anti-nazionale e anti-italiano, dovrebbe averci ormai aperto gli occhi sulla totale inutilità e obsolescenza, dal punto di vista del potere, di ogni “particolarità“ (salvo rarissime) culturale, etnica e nazionale. Nel 1969, durante uno dei suoi famosi seminari, il filosofo della selva nera profeticamente ammoniva: «si dovrebbe meditare sulla comparsa di una nuova forma di nazionalismo fondata sulla potenza tecnica e non più (per fare un esempio) sui peculiari caratteri etnici» – nuova forma di “nazionalismo“ che, per l'ovvia trans-nazionalità della “tecnica“ (propria dell'uomo in generale più che di questo o quel popolo in particolare) ha contorni necessariamente più indifferenziati e globali restando “nazione“ quanto all'esercizio della sovranità (del potere) ma sradicandosi quanto “all'essenziale punto di vista della terra“ che originariamente la connota (natio, da nasci, nascere, significa nascita, cioè una comunità di “nati” in un medesimo luogo), e venendo a indicare piuttosto un'eterogenea casta di eletti, sorta di nuovo (?) popolo “senza terra“.


Questo progressivo slittamento del potere decisionale dal demos ai “tecnici” (un'aristocrazia finanziaria globale) segna il trionfo del platonismo, ossia la realizzazione di quello stato ideale ferocemente paternalistico e autoritario descritto nel IV sec a.C. dal filosofo ateniese (la Πολιτεία), la cui concezione politica e morale sottostante – per il suo anti-umanismo – Karl Popper non potè che definire «moralmente repellente e addirittura spaventosa», e genitrice dei nuovi sistemi chiusi (tautologici, non falsificabili, illiberali) sedicenti universali ed egalitari ma realmente anti-egalitari, anti-individualisti e collettivisti, teorizzati da Hegel e Marx, e base teorica tanto delle dittature socialiste che dei romanzi distopici del XX secolo. Se infatti l'odio per l'uomo non ne fosse la base, non troveremmo in queste concezioni il bisogno dittattoriale di ri-farlo ex novo, oggi anche biologicamente con l'“uso“ della “tecnica”, senza un padre e una madre naturali, declassati alle “cause seconde” di genitore 1 e genitore 2 (“causa prima“ è adesso lo Stato a cui appartiene), né, ovviamente, alcun patrimonio o eredità (“credito sociale“ e moneta elettronica realizzerano quel re-set che nella Πολιτεία era stato definito da alcuni “comunismo platonico”).


Ora secondo Heidegger proprio il marxismo è «il pensiero di oggi» perché «il marxismo pensa a partire dalla produzione» e oggi «regnano semplicemente l'auto-produzione dell'uomo e della società», rimodellabili “tecnicamente“ (ossia contro il diritto naturale) a partire da un'idea (platonismo): «Con Marx si è raggiunta la posizione del nichilismo estremo», quella in cui «l'uomo è l'essere supremo per l'uomo», e per converso «dell'essere stesso è niente». L'uomo infatti «non è un ente che crea se stesso», ma un ente «gettato» e «lasciato essere» dall'“essere“ (Heidegger tuttavia non chiarirà mai l'esatta natura e identità di un tale essere, se non rimarcando la sua differenza ontologica assoluta tanto da quello cristiano, Dio, che appunto da quello moderno, l'uomo). Ma l'autoproduzione dell'uomo «dà origine», dice Heidegger, «al problema della sua autodistruzione». Il passaggio al trans-umano (l'auto-produzione dell'uomo, la sua selezione ed “allevamento“ non diversamente da un capo di bestiame) costituisce dunque per Heidegger un problema.


E qui si dà, nel pensiero del grande filosofo tedesco, il vero punto di svolta del discorso – che resterà tuttavia per lui un “sentiero interrotto“. Ritenendo infatti Heidegger il creazionismo cristiano, da ex-cattolico, una cosa sola con la tecnica moderna, dunque parte del problema, non potrà sviluppare la sua stessa intuizione sull'essenza della tecnica con la teologia del visibilium omnium et invisibilium del credo cristiano, fermandosi così sulla soglia.


Qual è questa intuizione? Partendo dalla speculazione greca in cui techne è concetto non del fare ma del sapere, Heidegger arriva a individuare nella tecnica «un modo del dis-velamento» (della “verità“) e più esattamente, come apprendiamo da un carteggio privato, spirito: «la tecnica non è nulla di “tecnico“ ma è “spirito”», e cioè «un modo in cui l'essente diventa visibile nel suo complesso e come cosa visibile agisce». C'è dunque uno spirito in questo “portare le cose alla presenza” tipico del fare tecnico, e più esattamente una volontà che è pro-vocazione e im-posizione al mondo dell'impossibile (Gestell). Armato di questa volontà l'uomo, «con la tecnica, si organizza in ogni direzione» imponendo a se stesso, al mondo e a ogni altra creatura, di andare oltre il cerchio delle proprie possibilità, «verso ciò che non è più il suo possibile, e quindi è l'impossibile». Così la volontà che parassita la (spiritualità) tecnica «ha imposto al possibile l'impossibile come scopo».


Ed ecco il punto di svolta. Se la tecnica corrisponde a uno “spirito“ la cui volontà è chiaramente mimetica del Dio creatore ma in senso opposto, e cioè di un ri-fare uomo e mondo a immagine e somiglianza della propria mancanza di misura, impossibilità, tracotanza – non sarà che in questo pressante appello della “tecnica“ all'uomo parla quella «tendenza verso l'estremo» che René Girard giunse a identificare come «satana»? Con Girard crediamo anche che la scelta finale di Heidegger del pagano contro il cristiano (in termini nietzscheani, la scelta di «Dioniso contro il Crocifisso», quell'«ormai solo un dio ci può salvare») gli abbia precluso una speculazione più profonda, mandando a vuoto altre grandi intuizioni su giornalismo e informazione (una «forma di dominio dello spirito» e un'«insufficienza dello sguardo per la forma») e sulla dittatura della pubblica opinioneuna funzione della tecnica»).


Del resto è fatale che questo fare a meno di Dio, nell'esercizio del pensiero, gli abbia procurato più problemi che soluzioni perché la verità, come dice sempre Girard, è che «nessuno comincia qualcosa se non per grazia. Il peccato», nella “tecnica”, nel vivere e nel pensare, «consiste [sempre] nel credere che si possa cominciare qualcosa da se stessi».


Ma di tutto questo in un prossima pubblicazione.

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