
Intellettuali, tecnica ed epoca terapeutica. Recensione a Frank Furedi, Che fine hanno fatto gli intellettuali? I filistei del XXI secolo (Raffaello Cortina, Milano 2007)
– di Roberto Bigini
Esce solo quest'anno in Italia il nuovo lavoro di Frank Furedi Che fine hanno fatto gli intellettuali? I filistei del XXI secolo (Where have all the intellectuals gone?, 2004). Come il precedente Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana (Therapeutic culture. Cultivating vulnerability in an uncertain age, 2003), questo nuovo lavoro mantiene un'identico portato di novità e urgenza, pur godendo al confronto d'una maggiore agilità e sintesi stilistica. Furedi torna a parlare del “nuovo conformismo” terapeutico, impostosi e ormai dilagante, almeno nei paesi anglosassoni, a tutti i livelli: dalla didattica scolastica all'educazione familiare, dal rapporto con l'arte a quello con la cultura in genere. Ma in cosa consiste esattamente questa nuovo conformismo? Detto in breve, nell'impronta e nel tratto con cui formati e formandi, governati e governanti, intellighenzia e massa si incontrano nell'ambigua terra di mezzo della «lusinga» (cap. 5 La cultura della lusinga). È questa l'intonazione fondamentale dell'approccio terapeutico, ed è un'intonazione che sin d'ora non esiteremo a definire “cibernetica” – come suggerisce già il sottotitolo del precedente Cultivating vulnerability in an uncertain age – vale a dire di puro, paternalistico, “pilotaggio in grande stile“. Vediamo in che senso. L'impegno, lo sforzo richiesto per sua stessa natura dalla “relazione” e dal confronto, qualunque ne sia l'ambito di riferimento (familiare, scolastico o più genericamente culturale) cede il passo in questi ultimi vent'anni a una paternalistica «accondiscendenza», a un'ammiccante «politica della gratifcazione». Ponendo a pretesto l’intento di una più ampia «democratizzazione» e «inclusività» del sapere si stabilisce che «gli enti pubblici, compresi quelli culturali e formativi, dovrebbero fare tutto il possibile per evitare di intraprendere iniziative che possano far sentire le persone a disagio o non abbastanza a proprio agio. Di conseguenza le scuole dovrebbero fare in modo che i loro alunni non sperimentino mai un fallimento o un insuccesso, e che possiedano un elevato livello di autostima. I docenti universitari sono spinti a mettere voti positivi e fornire un clima di sostegno in cui nessuno studente possa sentirsi intimidito od offeso» (pp. 154-155). Invalsa così l'idea che alla base dei malanni sociali vi sia un'incapacità di gestire le emozioni, quel preteso “analfabetismo emotivo” che ha fatto la fortuna della cosiddetta “Emotional Intelligence” (Goleman, 1994), vediamo ora avanzare anche nelle scuole l'esigenza di soddisfare i bisogni emotivi, prim'ancora che intellettuali, dei discenti, col risultato che «la scuola si sta gradualmente trasformando in una clinica» (p. 157). L'invito alla crescita implicito, ad esempio, nell'esperienza di una visita museale è pensato già oggi nell'ottica della medicalizzazione, e cioè come una possibile minaccia per l'identità “emotiva” del visitatore. Perciò, prevede sarcastico Furedi, in questa sorta di “guerra preventiva” permanente contro una malintesa debolezza del soggetto, non è affatto lontano il tempo in cui consulenze d'appoggio psicologico verranno offerte a chi si esporrà ai pericoli di un Metropolitan Museum. Oppure direttamente, poiché il sapere terapeutico esenta in anticipo il visitatore dal pericolo di un confronto, poniamo, con il trittico di Francis Bacon, sarà lo stesso Metropolitan Museum a soccorrerlo “tarando” al ribasso i propri allestimenti. Opere del pensiero e dell'arte figurativa vengono allora, se non omesse e censurate, banalizzate e piegate a infantili stratagemmi d'entertainment. Nei paesi anglosassoni è già realtà quel processo di «disneyficazione» dei musei: «“Una volta erano chiamati musei”, nota una rassegna sull'interattività dei musei di San Francisco, “ora somigliano più a parchi divertimento” (Winn, 2003)». Progettualità e contenuti di pensiero, se non d'ostacolo, sono del tutto «indifferenti a questa nuova schiera di direttori d'università, musei, gallerie e imprenditori della conoscenza». Si cerca allora di aumentare gli ingressi in qualsiasi altro modo (caffè, internet point, macchine interattive) al punto che l'incredibile slogan pubblicitario per il Victoria and Albert Museum di Londra era: “Una strepitosa caffetteria con un bel museo intorno”. «Oggi non si capisce mai», lamenta Furedi, «se i musei si stiano mascherando da centri di assistenza sociale o se i centri di quartiere si stiano atteggiando a musei» (pp. 145-146). Il piccolo intellettuale che una volta era il visitatore nel museo si aggira ora, bambino, entro un parco giochi interattivo. La previsione nietzschana di un uomo-turista nel giardino del dopo-storia, mero deposito di maschere teatrali che egli candidamente indossa e dismette, non ha bisogno d'ulteriori commenti. Se per musei e fondazioni tutto ciò avviene con sommo vanto del cosiddetto “establishment culturale”, un giusto imbarazzo persiste ancora, invece, nell'ambito dell'istruzione, dove «il processo di trasformazione dell'università in scuola superiore» è cautamente sottoposto a reticenza. Così, dopo la “disneyficazione“ del museo è la volta di ciò che il sociologo americano George Ritzer ha chiamato, con un termine orribile e preoccupante quanto la cosa indicata, “macdonaldizzazione” dell'università. Gli studenti sono incoraggiati alla passività della ricezione tipica del “cliente” e “consumatore”, sempre meno auto-determinati in un lavoro di ricerca e scoperta personale e sempre più etero-diretti e dipendenti, come gli alunni delle scuole inferiori, da chi “eroga il servizio” – qui dove è il linguaggio stesso ad avvisarci: chiunque infatti “eroghi” il servizio scolastico non potrà più essere in alcun modo, evidentemente, “maestro”, “professore” o “docente” di alcunché. Non a caso, ricorda ironicamente Furedi, è stata annunciata la «morte dei professori», l'evento per cui «un professore non è più competente delle reti di memoria per la trasmissione del sapere stabilito» (Jean-Francois Lyotard). L'autorità professorale tipica della parola vivente e il suo importante ruolo formativo nella dialettica docente-discente viene pian piano incanalata e dissolta nel processo automatico di una “libera” consultazione di database di “informazioni” via “web”. «Banalizzazione» (dumbing down) del sapere e «infantilizzazione» dell'umano, sia esso corpo docente o discente, governato o governante, organizzatore o visitatore vanno dunque di pari passo (cap. 6 Trattare le persone come bambini). Ecco allora l'inedito fervore “culturale” e “formativo” odierno (tale che sarebbe impossibile, anche volendo, stare dietro alla pioggia di convegni, mostre e inaugurazioni di scuole e centri culturali) andare di pari passo, paradossalmente, a un generale abbrutimento del pubblico. Sconosciute città europee gareggiano per il titolo di “città della cultura dell'anno” nella più calorosa indifferenza, mentre la cosiddetta corsa all'acculturazione di massa celebra sempre di più il suo “monco” trionfo: ovunque è in crescita il «numero di quanti prendono parte all'istruzione superiore [...] il processo di formazione pare non finire mai, sembra che ciascuno sia sempre nel bel mezzo di una qualche formazione sul luogo di lavoro, o che stia prendendo una pausa tra un periodo di formazione e l'altro» (p. 21); quanto ai libri, la diffusione tentacolare di edizioni tascabili e serie enciclopediche (nelle edicole, nei supermercati e perfino negli uffici postali) non viene a ridire altro da questo eccesso di sazietà, quest'ipertrofia informativa disancorata da qualsiasi fondamento; se si tentano altre strade, come rilevano ormai concordemente i maggiori sociologi, è perché il libro ha perso inesorabilmente terreno proprio là dove avrebbe dovuto resistere e trionfare (scuole, redazioni, centri di ricerca, università). La ricerca nelle biblioteche, supportata oggi da comodi quanto pressoché sterminati cataloghi “on-line” rischia di trasformarsi, a ogni piè sospinto, in un navigare “senza rotta” nella “rete”. Ciò che nasceva per “supportare” il sapere rischia di prenderne il posto divenendo esso stesso fondamento e riecheggiando sinistramente alle nostre orecchie la chiosa nietzscheana di una «vittoria del metodo sulla scienza». A scuola proliferano per lo più appunti, bocconi di testo, schede, «riquadri», «box di lettura», nelle università dispense, lucidi, capitoli, brandelli di manuali. Trattati e opere sistematiche non vengono più conosciute semplicemente attraverso lo studio e la lettura, ma tramite sunti, formule e pseudo-concetti tali da ingenerare negli studenti noia, stupore per il fatto che pensieri, in definitiva, sorprendentemente banali – pensiamo all'insegnamento della Filosofia nei Licei – abbiano potuto consegnare i loro autori alla Storia, e dunque, infine, disaffezione. A Furedi, che in un articolo apparso sul Sunday Times lamentava la possibilità che trascorrano interi anni accademici senza che un solo libro venga letto dall'inizio alla fine, un dirigente universitario ha replicato scandalizzato che “il libro” non è ormai che una «risorsa opzionale straordinaria» (p. 10), una pseudo-questione nel ben più vasto e differenziato contesto dell'«informazione».
Apro parentesi. La questione invece, tutt'altro che pseudo, merita un domandare più circostanziato. Se infatti la somministrazione di «pillole» e «omogeneizzati di sapere» ai formandi viene a ridirci di una consuetudine avviata anche in Italia, ormai, con la riforma Berlinguer (i frammenti dentro ai frammenti dei “moduli” e “crediti” formativi), va anche detto che l'imporsi della segmentazione chiude una precisa, storica e ben più ampia “questione” – s'è detto, cibernetica – apertasi al nascere della società moderna europea, con gli stati nazione. Come si è arrivati, dunque, alla frammentazione come sistema? Perché questa esigenza, messa poi in luce da un Nietzsche prossimo al crollo quando, nel 1888, osservava che non era più questione di “conoscere” bensì ormai solo di “schematizzare”, Nicht “erkennen”, sondern schematisieren? È il nascere stesso del Mondo Moderno – quel che Heidegger non casualmente ma essenzialmente chiamava l'epoca dell'immagine del mondo, die Zeit des Weltbildes – a spiegarcelo. L'uscita del sapere dal chiuso monasteri e delle cattedrali medievali dove sino ad allora era stato messo in salvo (sottratto, custodito e tramandato, al pari del potere papale, nel circolo ristretto di un'élite), comportava per la prima volta nella storia il pericolo di una sua esposizione pubblica “universale” (“globale” come si dice oggi) e così anche il sorgere di un potere corrispondente, più arrischiato nel suo essere allargato e diffuso, e che richiedeva pertanto una gestione più raffinata e sofisticata. Era la novità assoluta, rispetto all'ancient regime, della possibilità di un “controllo pubblico” da parte dei sudditi, ora “cittadini”, sui governanti, la possibilità di un “contro-ruolo” (dal francese cont-rôle) della nascente “pubblica opinione”, con il nascere di quotidiani, mezzi a stampa e salotti, sul potere. Ma proprio l'approssimazione e riduzione della conoscenza a «informazione», plurale per principio, preparava la dittatura posmoderna del “frammento” e del “segmento”. Cresce il “pluralismo” delle “informazioni”, diminuisce l'unità della conoscenza. Istruzione, cultura o beni culturali che siano, tutto è presentato e “somministrato” nella forma del “frammento”, ma sostenuto dalla gran cassa di una massima “personalizzazione” e possibilità di scelta “individuale”, il surrogato sacrale del “punto di vista” e della interpretazione “singola” – valida, ciascuna, in quanto tale. È la nietzscheana scomparsa dei “fatti” (non esistono che ”interpretazioni”) curiosamente sbandierata in un'epoca in cui la conoscenza è divenuta – mai come oggi – il campo di battaglia in cui si gioca la partita del “potere”. Un potere, si cerca di dare a intendere, fondato su infiniti “segmenti” interpretativi e pochi dati, realmente, “di fatto”. Davvero “essente” non sarebbe che la singola “immagine del mondo” volta a volta imperante.
Così se da una parte, dovendo incontrare il pubblico e la sua opinione – evidentemente media, statistica, “generale” – il sapere si pubblicizzava divenendo «informazione» e «pubblica opinione» («Negli ultimi due secoli», osserva Furedi, l’autorità degli intellettuali avrebbe tratto alimento «dalla convinzione che la ricerca della conoscenza e del vero meritasse l’approvazione della società»), dall’altra si offriva ai governanti una nuova e più sofisticata leva di potere, la possibilità di "controllare" i governati agendo indirettamente sul loro sapere, modellando scientemente «informazione» e «pubblica opinione». La “verbalizzazione” pilotata e la “condivisione” apparente del potere e delle sue leve in un sistema tutt'altro che pubblico e manifesto, ma fondato bensì sulla “pubblicità” e sull'“informazione”, è così all'origine della decadenza del sapere e dell'élite intellettuale nella sua stessa dimora, l'università, dove maestri e docenti lasciano il posto a ”giornalisti” funzionari e dirigenti della nuova “Guardia Terapeutica” – classe non più “accademica” ma puramente, ormai, politica, "funzione" di un determinato orientamento di governo. Chiusa parentesi.
Ecco allora che oggi, con l'imporsi di questa nuova guardia, non è più dal “basso” che ci si deve elevare alle vette del sapere, ma è dall'“alto” che saremo “soccorsi” e paternalisticamente accompagnati verso ciò che l'élite ha scelto – del sapere e di ciò che è – di tenerci via via ”in-formati”. In quest'essere anticipatamente orientato dello sguardo del “pubblico” verso i fenomeni più esteriori e d'intrattenimento (non diversamente dai prigionieri-spettatori di ombre nel mitico antro platonico) la possibilità di vero un contro-ruolo è chiaramente vanificata e preclusa in anticipo. Qualunque altra voce da quella terapeutica, spiega Furedi, è immediatamente tacciata di «elitarismo e snobismo». È la «dittatura della pubblica opinione», come chiaro già a Heidegger negli anni Quaranta del secolo scorso, ma una dittatura degli stessi prigionieri (tecnicamente, un “totalitarismo”) e perciò «cibernetica», pilotata. Non è mai infatti il «pubblico» a dettare alcunché (come i prigionieri nell'antro platonico non sono i registi e i proiettori delle ombre che li “coinvolgono”) ma l'intellighenzia forgiata nel sapere terapeutico. Ponendo a pretesto la debolezza psichica e l'alto rischio di «trauma emotivo» del «soggetto» (il cosiddetto PTSD), dunque preservando l'“autostima” della gente comune dalle “intimidazioni” della vecchia cultura elitaria, questo nuovo sapere medicalizza cultura e istituzioni pilotandole anticipatamente fuori dalla zona di esposizione al pericolo. Raramente, poi, un tale anti-elitarismo, fa notare Furedi, si concentra sul potere economico, come in analoghi movimenti anti-elitari otto e novecenteschi. Tanto più ciò accade, in ogni caso, quanto più disorientamento, noia e un sinistro, nient'affatto socratico, non-sapere s'impossessano di noi, alimentando una sospetta dipendenza, più che dagli “altri”, di per sé ancora genuina, dallo stesso sapere terapeutico, da questa “psicologia che incontra la tecnica”. Tanto più ciò accade, quanto più cresce, unicamente, la domanda di “supporti” terapeutici e psicologici. La figura d’uomo corrispondente a questo tipo di sapere sempre meno autonomo è dunque mutata, dalla magnetica singolarità e presenza di sapienti e pensatori antichi, filosofi, intellettuali e scienziati moderni, nell'astratta impersonalità dell'“imprenditore della conoscenza”, dell'“esperto”, del professionista, del funzionario, dell'operatore e così via. «Nel ventesimo secolo l’immagine eroica dell’intellettuale classico ha lasciato il posto ad una figura più pragmatica e terra terra, il cui lavoro non ha un’importanza particolare [...] Molti intellettuali hanno interiorizzato il pragmatismo associato alle loro attività, e insistono sul fatto che in esse non ci sia proprio niente di speciale». Scomparso l’oggetto della scienza – l'«essere» – apparentemente svelato e risvelato in ogni anfratto, la scienza sembra trasformarsi in pura operatività e impiegabilità. Da spettatrice del mondo, cioè, a sua divoratrice. È in questa indifferenza e furia operativa che l’apparizione dei consulenti filosofici viene, ad esempio, salutata nei paesi anglosassoni, dove la figura del filosofo-in-pratica può e deve apparire soltanto nella sua declinazione strumentale di problem solver. All’invito di uno storico dell’Università di Cambridge, Stefan Collini, “forse è tempo che qualcuno scriva un saggio intitolato Gli intellettuali sono gente comune”, potremmo rispondere che in tanta pericolosa piattezza e idolatria di superficie si rende ancor più necessaria, se mai, la presenza di un'umanità finalmente e veramente ordinaria, e cioè in ascolto dello straordinario che è «dentro e per l’ordinario» (parafrasando l’Heidegger della Lettera sull'«umanismo»). Ora infatti, questo assetto meramente tecnico che proprio Heidegger intese chiamare «impianto», Gestell, si rende tanto più necessario quanto meno, nota Furedi, «è il contenuto dell'arte e delle idee ad esser preso in considerazione». Furedi lamenta adesso quanto Hegel a suo tempo aveva insieme, e per il peggio, anticipato e previsto. «Guardando», aveva detto nell'Estetica, «al presente della nostra condizione mondiale e ai suoi evoluti rapporti giuridici, morali e politici [...] l'ambito in cui vi è ancora una libera possibilità per l'autonomia di decisioni particolari è ristretta sia di numero che di estensione». Ciò che un monarca, un giudice o un generale potevano già allora aggiungere di proprio alle decisioni riguardanti i loro uffici «non costituisce la cosa principale né il contenuto sostanziale, ma è cosa più o meno indifferente ed accessoria [...] il contenuto di queste decisioni dipende nell'insieme meno dall'individualità della loro volontà che dal fatto che esso è già di per sé stabilito [...] Così, in generale, nell'attuale condizione del mondo, il soggetto può certo agire da se stesso secondo questo o quel lato, ma ogni singolo, da qualsiasi lato si volga, appartiene a un ordinamento sociale sussistente e non appare come la figura autonoma, totale ed al contempo individualmente viva di questa società [...] Egli agisce solo come inviluppato in essa [...] Il singolo ora non è più come nell'età eroica il portatore e l'esclusiva realtà di queste potenze» ovvero diritto, eticità, guerra e pace, ma veicolo appunto “accessorio”, epigonale. Ecco allora che il sapere terapeutico, nella caratteristica indifferenza per i contenuti e per il pensiero che gli è propria, è quanto di più adatto a questa configurazione dell'«impianto». Più hegelianamente di Hegel ritiene acquisito che non ci sia più spazio per un ripensamento o una riacquisizione della tradizione a partire da ciò ch'essa non dice. Ogni tentativo in questo senso è liquidato come l'espressione saccente di una superata élite intellettuale. Via via che questa prospettiva cibernetica si consolida, venire in dialogo con quel suo debito impensato diventa ogni giorno più difficile, tanto più quanto più noi stessi assecondiamo l'idea nichilista per cui conoscenza e verità non sarebbero che “una” cifra fra le tante, che ognuno ha le sue, proprio come ciascun prigioniero platonico ha le sue ombre, e che pertanto ben poco resti da dire al pensiero e al mestiere dell'intellettuale.
Rieducata così dalla “forza” e dalla saccenteria ”giornalistica” su una malintesa debolezza dell’essere, la persona è imprigionata e ingegnerizzata (cap. 4 Ingegneria sociale) dentro i ristretti orizzonti dell'infantilismo, del vittimismo, della prevenzione, della terapia in assenza di malattia, della medicalizzazione infinita – o più in breve, è chiusa fuori dalla zona di esposizione al pericolo. Per concludere non è inutile ricordare in proposito un precedente studio di Furedi Culture of fear. Risk-taking and the morality of low expectation (1998), intradotto in Italia, il cui titolo potrebbe suonare La cultura della paura. Essere a rischio ed etica delle basse aspettative. Vi si dice che il rischio calcolato nel tradizionale bilancio tra esiti positivi e negativi è stato sostituito da uno schema dettato dal “principio di precauzione” per cui soltanto il rischio entra nell'equazione. Non è tanto il senso d’insicurezza generalizzata, quanto il modo profondamente conservatore di comprendere e vivere il rischio a colpire il sociologo anglo-ungherese. La celebrazione della sicurezza assieme al continuo ammonimento sul rischio porterebbe infatti ad un'etica delle basse aspettative, profondamente anti-umana e imbevuta dell'anti-valore della paura. Questo rischio, ma in filosofia preferiamo chiamarlo pericolo, Furedi prova a pensarlo come qualcosa che fa inevitabilmente parte del mondo della vita, al pari di un «esistenziale». Aggiungiamo noi, non tra i meno importanti. Ed ecco il punto. Se infatti vogliamo ritenere il pericolo, tanto col sapere terapeutico quanto con la cultura della paura (sono un unico impensato), inessenziale e astrattamente pericoloso per la vita, allora continuiamo a disconoscere Nietzsche e a porci nella traiettoria del suo sguardo in cui l'uomo, dopo Copernico, «rotola dal centro verso la x». Se al contrario pensiamo, con Hölderlin, che là «dove cresce il pericolo cresce anche ciò che salva» e poniamo così il pericolo nella sua intima – filosofica e dialettica – portata salvifica, allora torniamo in cammino verso l’essenza dell’uomo, unico tra le creature a poter correre il pericolo: perdersi e fallire o riconquistarsi e tornare ogni volta, come diceva Raymond Carver, alla sua prossima, più propria occupazione. La vita, sempre la vita.
(articolo apparso su Rivista Phronesis Anno V, numero 8, 2007)