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cibernetica transumanismo

Dopo avere indotto nelle popolazioni d'Occidente, con domiciliazioni coatte illegali, stati depressivi e psichiatrici di vario genere (specie tra i giovani), ma soprattutto dopo aver provocato - col diabolico ricatto dei "sieri della libertà condizionale" (o ti buchi o stai carcerato) -, nuove e più durature depressioni del sistema immunitario naturale, provocando in alcuni la recrudescenza di vecchi tumori o in altri direttamente l'insorgenza dalla sera alla mattina di leucemie mielomonocitiche croniche (su tutti, il caso del cavalier Berlusconi e dell'avvocato Ghedini), creando in milioni di cittadini terrorizzati e ansiosi di sopravvivere uno stato ematologico d'allora gravemente alterato, con "globuli rossi che si impilano" e quantum dots (sostanze esogene nel sangue, sì, proprio il grafene), il punto della situazione ancora oggi - nonostante il decadere del green pass e il ritorno, tra moltissime virgolette, allo status quo antea - resta non solo oggetto di taboo, tanto che sui social è praticamente impossibile parlarne (così Faccialibro censura una notizia con l'importante contorcimento logico di "parzialmente falsa" - fig.1), ma continua, e pare anche debba continuare, la gestione emergenziale da "Stato di eccezione" ad esempio del diritto alla salute, come testimonia l'ennesimo caso di apartheid sanitaria (rifiutata a un cardiopatico l'operazione a cui aveva diritto per "non essere in regola" con le vaccinazioni anti covid-19), con un SSN (Servizio Sanitario

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fig. 1

Nazionale, per chi ancora lo ricorda) espropriato di fatto al cittadino che lo finanzia e "annesso" ormai stabilmente alle multinazionali del farmaco, ai "fondi d'investimento" esteri che lo eterodirigono attraverso le consuete triangolazioni politiche comunitarie. Col benestare di tutti i Presidenti e le magistrature del caso (Pontefice compreso).

È ormai evidente, cioè, dietro la rivoluzione della "Farsemia" (cit. Elio Paoloni) - più un piccolo esperimento di ingegneria sociale e soprattutto un work in progress ben lungi dall'essere completato - la precisa volontà di nuocere ai più (altro che curare), già all'opera da secoli, in Occidente, in tutte le rivoluzioni che instaurarono via via la Modernità, ossia es-piantarono dal mondo Dio e il suo uomo preteso "superstizioso" e "oscurantista" (poiché religioso), per rimpiazzarlo con la nuova "soggettività", illuminata, razionale e "scientifica", poiché libera da vecchie illusioni e favolette, e i suoi idoli corrispettivi di Ragione, Comunità, Stato, Razza, Sangue e suolo, Scienza ecc (i cosiddetti "-ismi" di razionalismo, comunismo, statalismo, razzismo, scientismo ecc). È stato vero il contrario. Ne è venuto un uomo sempre più debole, pavido, ignorante, "indifferenziato" e violento. La rivoluzione protestante infatti, nel 1517, stabiliva la possibilità dell'uomo di vivere di fronte a Dio senza il Magistero e la mediazione sacramentale della Chiesa; quella Francese, nel 1789, stabiliva la possibilità dell'uomo di vivere in fratellanza direttamente senza alcun Dio; quella socialista, nel 1917, stabiliva la possibilità dell'uomo di vivere in fratellanza senza alcun Dio e senza alcun bene di proprietà; quella sessantottina infine, nel 1968, stabiliva il poter esser libero dell'uomo unicamente senza il "Padre" (con atto di parricidio) e dunque senza famiglia, per arrivare nel 2020 alla rivoluzione tecnocratica o digitale, che stabilisce, via inoculazioni obbligatorie e lasciapassare digitali, l'impossibilità dell'uomo di disporre dell'unica cosa, rivoluzione dopo rivoluzione, che fin qui rimastagli, ossia il suo corpo, vero fondamento di ogni libertà.

Ci si potrebbe chiedere come sia stato - ed è - ancora possibile, collusioni istituzionali a parte, aggirare quanto stabilito nel 1996 dalla Carta di Nizza (art. 3) sulle vaccinazioni antipolio (118/1996) dove si dice che “nessuno può essere semplicemente chiamato a sacrificare la propria salute a quella degli altri, fossero pure tutti gli altri”, ossia, come ha spiegato il prof. Mangia ordinario di Diritto costituzionale all'Università Cattolica di Milano, che “lo Stato non può disporre dei corpi dei suoi cittadini”. Ed è appunto quanto si erano premurati di scongiurare in Costituente, quando «il 28 gennaio 1947 un membro dell’Assemblea di nome Aldo Moro si presenta in Commissione spiegando che i medici dell’Assemblea gli si erano rivolti chiedendo di introdurre delle limitazioni al potere del legislatore di disporre trattamenti sanitari coattivi. Si trattava, ci dice Moro, “del problema della sterilizzazione e di altri problemi accessori”». Il riferimento era all'eugenetica (non solo nazista, ma anche americana ed europea in genere) praticata nel "civilissimo" Occidente fino agli anni Sessanta del Novecento. Il parallelo tra vaccinazione anti covid-19 e sterilizzazione non è sproporzionato. «Cos’hanno in comune vaccini e sterilizzazione?», chiede l'intervistatore. Risponde il giurista: «L’irreversibilità degli effetti di determinati trattamenti sanitari che possono essere disposti con legge. Sa, a parole io mi posso sbattezzare. Ma non mi posso svaccinare, neanche ritirando il consenso». Dopo, infatti, sempre che io sia ancora vivo, il corpo non è più il mio corpo di prima, ma un corpo reso a vario titolo invalido o comunque debilitato da effetti avversi più o meno gravi, cardiopatie, tumori e quant'altro.


La risposta al come ciò sia stato possibile è semplice e consegue dalle dette rivoluzioni che hanno via via disarmato, svirilizzato ed estraniato l'uomo dalla sua vera essenza. Se l'uomo pre-moderno era stato "liberato", cioè privato di tutto l'essenziale invalso fino ad allora ("liberato" dall'intercessione della Chiesa, "liberato" dalla presenza di Dio, "liberato" dalla proprietà dei beni personali e dalla propria identità, "liberato" dalla famiglia e dalla tradizione che ci ha messo al mondo), a quest'uomo di mondo, è il caso di dire, non restava effettivamente, nella rotazione forzata dell'asse spirituale da verticale a orizzontale, che il corpo. Lo aveva capito  Ernst Jünger nella sua meditazione sul dolore: «il rapporto di questo mondo con il dolore è il rapporto con una potenza che va innanzitutto evitata, perché qui il dolore non colpisce il corpo come un semplice avamposto, ma colpisce il quartier generale, il nucleo essenziale della vita stessa»(1). Non un semplice avamposto, ma proprio il quartier generale. Il corpo. Si comprende dunque da sé, con tutta questa serie di rimozioni gabellate per liberazioni (questo sì un processo di esproprio e alienazione dal Sé autentico, insieme storico e sovrastorico, terreno e trascendente) come l'uomo, non rimastogli che il corpo, vi si aggrappi con una violenza e una paura senza precedenti, divenendo quello stesso uomo superstizioso (se non peggiore) in senso etimologico - cioè uno che vuole sopravvivere a ogni costo (2) -che intendeva superare. Non è un caso che il rapporto con il dolore, e quindi con la morte, dell'uomo moderno sia il grande rimosso che la società moderna preferisce lasciare nascosto e impensato (interrogarlo costringerebbe a imboccare a rovescio la via della modernità risalendo fino a Dio, l'«uomo dei dolori», venuto una volta per tutte a rovesciare la tragedia in consolazione).


L'ultima preda possibile al Leviatano tecnocratico e alla sua diabolica volontà, di rivoluzione in rivoluzione, sono rimasti i corpi. Ed è per la loro conservazione che i più, sbagliandosi e pagando (i più sfortunati con la stessa vita che desideravano sopra ogni cosa conservare), hanno accettato i "sieri della libertà condizionale" e accetteranno di qui a breve l'Identità Digitale (con la stessa superstiziosa e gregaria obbedienza da Lemmings con cui hanno acconsentito al Lasciapassare Verde) ossia un guinzaglio cibernetico che permetterà loro di essere liberi per quanto lo permette la catena.

Harvey Mansfield, dell'Università di Harvard, a dimostrazione dell'indebolimento operato dalle rivoluzioni moderne ha scritto che «le persone ossessionate dalla propria salute non sono virili perché preferiscono un'esistenza più lunga alla vita breve ma ricca di eventi di cui Achille offre un nobile esempio» e che nello Stato leviatanico di Hobbes, che è quello in cui ci troviamo, «tutti hanno il dovere di dimenticare la propria virilità e diventare socievoli, o sensibili, o relazionali, o non virili». Ed eccoci con ciò giunti alla società dell'indifferenziazione di genere. Tutto si tiene, si potrebbe dire, nell'assenza voluta e pianificata di Dio, estromesso dal suo stesso creato.

La guerra al Vir(us) – per un Nuovo Mondo non più ordinato in (sacre) famiglie, matrimoni, patrimoni e tradizioni da conservare e rinnovare, ma ridotto a “grumo di cellule” isolate, femminizzate, superstiziose e (soprattutto) nullatenenti in pugno quattro faccendieri del demonio – non è che una teologica prosecuzione della guerra contro Dio con altri mezzi, e procede ormai a tappe forzate, trionfante e apparentemente inarrestabile.



 

(1) Ernst Jünger, Sul dolore, in Foglie e pietre, Adelphi, Milano 1997, pp. 139-153.

(2) Il termine "superstizione" fu creato da Cicerone nel De Natura Deorum, dove definisce superstiziosi coloro che sacrificano o pregano ossessivamente affinché i figli gli sopravvivano. Il concetto di Superstitio è connesso al verbo super-stare, cioè sopravvivere, che è alla base del termine che designa il testimone, i superstes, da cui il termine "superstite". Il testimone, termine usato soprattutto in questioni di leggi e tribunali, è colui che, essendo sopravvissuto a un fatto, è in grado di narrarlo con autenticità. Il concetto di superstizione cambia significato a partire da Lattanzio, retore romano convertito al Cristianesimo nel 300, come comportamento o credenza indebiti che conservano frammenti di paganesimo in un contesto cristianizzato.



Accorsi all'altare del diavolo con una vittima da immolare, non si avvedevano di essere essi stessi le vittime (Cipriano, De lapsis)


Il 20 gennaio ricorre la memoria liturgica di San Fabiano papa e martire, il giorno in cui ”il suo corpo fu deposto a Roma sulla via Appia nel cimitero di Callisto” (Martirologio romano). Celebre la circostanza della sua elezione a Vicario di Cristo: la cattedra di S. Pietro era rimasta vacante per la morte di S. Antero e i fedeli stavano in orazione pregando lo Spirito Santo quando si vide una splendida luce discendere dal cielo e una colomba posarsi leggermente sul capo di Fabiano”, ricordando inequivocabilmente quel ”Hic est Filius meus dilectus, in quo mihi complacui” del Battesimo del Signore al Giordano. Nei quattordici anni del suo pontificato (dal 10 gennaio del 236 al 20 gennaio del 250) San Fabiano divise Roma in sette diaconie per l’assistenza dei poveri e con lui la figura del vescovo di Roma assunse tale prestigio da destare preoccupazione nell’imperatore Decio, che nel 249 aveva ucciso e detronizzato il rivale, l'imperatore Filippo l'arabo, che proprio Fabiano aveva convertito alla vera religione assieme al figlio. Decio avviò una politica di ritorno alla religione pagana con l'obbligo di un pubblico sacrificio agli dei – con l'editto del Libellus, dal nome dell'attestato che veniva rilasciato a controprova dell'avvenuto sacrificio. I cristiani naturalmente insorsero e tra questi Fabiano, che preferì il carcere e una morte di stenti; alcuni vacillarono fino a ”scivolare” (lapsi) nel paganesimo abiurando alla fede cristiano e compiendo il sacrificio richiesto dall'imperatore, altri, più benestanti, ottennero il libellus dietro pagamento senza compiere alcun sacrificio (i "libellatici").

Di seguito, un illuminante post de Il Pedante, De lapsis, pubblicato il 22 dicembre scorso.


 

Recedite, recedite; exite inde, pollutum nolite tangere; exite de medio ejus; mundamini, qui fertis vasa Domini – Is 52,11 (Partite, partite, uscite di là! Non toccate nulla d'impuro! Uscite di mezzo a lei! Purificatevi, voi che portate i vasi del Signore!)

Quando si scatenò la persecuzione di Decio, nel 250 d.C., i tempi delle catacombe erano lontani. Pur mal viste e occasionalmente bersaglio di attentati e soprusi, le comunità cristiane si erano diffuse ovunque nell'impero, prosperavano anche economicamente e contavano appartenenti in ogni ceto sociale. Fu perciò tanto più traumatica la decisione del nuovo sovrano di obbligare tutti i cittadini a rendere un sacrificio pubblico agli dei pagani sotto pena di subire la tortura, l'esilio, la spogliazione dei beni e, nei casi più gravi, la morte. Milioni di cristiani tra cui anche nobili, possidenti e alti funzionari dello Stato si trovarono così da un giorno all'altro costretti a scegliere se offendere la propria fede o perdere tutto.

Quella deciana non nasceva come una persecuzione. L'imperatore voleva allestire una consacrazione di massa agli idoli pagani per restaurare la pietas tradizionale e propiziare la vittoria militare contro i barbari che premevano ai confini. Le pene riservate ai riluttanti erano uno strumento di questo progetto, per la cui realizzazione ci si avvalse del poderoso apparato burocratico imperiale come mai era accaduto prima. Affinché nessuno sfuggisse al precetto, il sacrificio prescritto doveva svolgersi in presenza di testimoni e di un ufficiale pubblico incaricato di rilasciare un certificato (libellus) che ne attestasse il compimento. Senza libellus si era fuori dalla

società e dalla legge. Secondo gli storici e i contemporanei, fu tutto sommato esiguo il numero di coloro che in quei mesi persero effettivamente la vita per la fede, come toccò ad esempio al pontefice Fabiano. Alle autorità romane non sfuggiva il rischio di creare nuovi esempi di santità col martirio, sicché miravano piuttosto a indebolire e corrompere le comunità eterodosse per assimilarle. Molto più numerosi furono perciò i cristiani che per evitare le pene annunciate si piegarono a rendere omaggio alle divinità pagane. Fu quasi un'apostasia di massa che, una volta decaduto l'editto, lasciò una ferita profonda nel cristianesimo delle origini e sollevò il problema di come trattare i tanti che chiedevano di rientrare in seno alla Chiesa pur essendo «scivolati» (lapsi) nell'idolatria. Ne scaturirono diatribe, concili e anche i primi scismi di Novaziano e Felicissimo, che giudicavano rispettivamente troppo accomodante o troppo severa la posizione del papato.

Cipriano, vescovo di Cartagine e futuro martire e santo, ci ha lasciato una testimonianza di quegli eventi nelle epistole che indirizzava alle comunità dei fedeli dal suo esilio segreto. Rientrato a Cartagine dopo la morte di Decio, affidò alla lettera pastorale De lapsis un commento e un giudizio sulle condotte tenute dai confratelli durante la persecuzione. Dopo avere reso grazie a Dio per la cessazione del pericolo e la sua breve durata, tanto da potersi dire una prova più che una vera persecuzione («exploratio potus quam persecutio»), tesse innanzitutto le lodi dei confessores, cioè di coloro che si erano apertamente professati cristiani al cospetto dei magistrati, affrontandone le conseguenze. L'omaggio che va reso a quei pochi e coraggiosi testimoni, aggiunge, vale anche per coloro che avessero infine ceduto sotto gli insopportabili tormenti. Essi avevano infatti peccato per necessità, non per volontà; si erano piegati al castigo, non alla prospettiva del castigo («nec excusat oppressum necessitas crimini, ubi crimen est voluntatis»).

In polemica con i rigoristi scismatici e il Tertulliano del De fuga, Cipriano ritiene che debbano essere glorificati anche i tanti renitenti («stantium moltitudo») che, «saldamente radicati nei precetti celesti» e senza temere i castighi promessi, avevano scelto di non presentarsi all'appuntamento fissato per il sacrificio, affermando così implicitamente la loro fedeltà a Cristo. Se infatti «la prima vittoria è di chi, caduto nelle mani dei gentili, professa il Signore, la seconda è di chi si ritira cautamente serbandosi a Dio». Chi non adempiva doveva darsi alla macchia, come fece anche Cipriano e come esorta a fare secondo l'insegnamento delle Scritture: «sì, bisognava lasciare la patria e subire la perdita del patrimonio» perché «è Cristo che non deve essere lasciato, è la perdita della salvezza e della dimora eterna che deve essere temuta». L'esilio non è una sconfitta, spiega, ma piuttosto una condizione per preparare e compiere la volontà divina, anche fino all'ultimo sacrificio. «Infatti, poiché la corona dipende dalla degnazione di Dio e non la si può ricevere se non nell'ora stabilita, chi se ne va restando in Cristo non nega la sua fede, ma attende il tempo. Chi invece cade per non essersene andato, significa che è rimasto per negare Cristo». Lo stesso Cipriano, dopo essere sfuggito alla prima persecuzione, sarebbe caduto martire alcuni anni dopo sotto Valeriano.

Nella parte centrale dello scritto, la più dolorosa e polemica, il vescovo stigmatizza i comportamenti degli apostati e registra inorridito la prontezza con cui la maggior parte dei fratelli («maximus fratrum numerus») si era precipitata all'appuntamento sacrilego. Eccoli «correre di loro iniziativa al foro, affrettare spontaneamente la loro morte [spirituale], quasi desiderassero farlo da tempo, quasi abbracciassero l'occasione che era loro offerta e che avevano ardentemente desiderato». Rimandati alla mattina seguente dai magistrati per mancanza di tempo, insistevano affinché li si ricevesse il giorno stesso. Accorsi all'«altare del diavolo» con una vittima da immolare, non si avvedevano di essere essi stessi le vittime («ipse ad aras hostia, victima ipse venisti») e che su quel braciere avrebbero consumato «la loro salvezza, la loro speranza, la loro fede».

Molti, non contenti di avere distrutto sé stessi, si prodigavano per spingere il prossimo nella loro stessa rovina e, «affinché nulla mancasse al cumulo dei crimini», anche i bambini furono «obbligati o incoraggiati dai loro genitori a perdere ciò che avevano ricevuto» con il battesimo. Cipriano immagina le parole con cui questi innocenti si sarebbero discolpati nel giorno del giudizio, puntando il dito contro chi li aveva messi al mondo. Segue poi una descrizione delle tragiche reazioni patite da alcuni apostati, come il caso di un uomo divenuto muto «acciocché non potesse più implorare misericordia» o di una donna che, avendo subito approfittato della libertà concessale per svagarsi alle terme, vi aveva trovato la possessione e la morte. L'autore insiste molto sulla dimensione corporale del peccato: l'assunzione della vittima sacrificata è un'anti-eucaristia che ammorba l'anima penetrando gli organi, una reincarnazione del frutto dell'Eden, sicché gli è facile mettere in opposizione i «cibi scellerati» con i «cibi celesti», «il toccare la cosa immonda, il lasciarsi violare e insozzare dalle carni avvelenate» con la comunione eucaristica. Tra gli apostati che si erano riaccostati impenitenti al sacramento, riferisce, alcuni avevano trovato cenere o fiamme in luogo della particola, altri l'avevamo vomitata, altri erano collassati. Episodi isolati, è vero, ma avverte che nessuno doveva perciò presumersi impunito per sempre («nec hic esse sine poena possunt quamvis necdum poena dies venerit») perché «nel frattempo sono colpiti alcuni affinché gli altri siano avvertiti, la sciagura di pochi è un esempio per tutti».

Vi erano poi alcuni, detti libellatici, che per evitare le sanzioni senza commettere materialmente il sacrilegio si erano procurati il libellus da esibire alle autorità con la corruzione o mandando altre persone sotto falsa identità. Sappiamo dall'epistolario dell'autore che a questi espedienti avevano fatto ricorso anche diversi sacerdoti e persino dei vescovi. La loro condotta è meno grave, ma comunque esecrabile («hoc eo proficit ut sit minor culpa, non ut innocens conscientia»), perché «quel certificato è esso stesso una confessione di apostasia» e un atto di sottomissione a un decreto umano che viola le leggi di Dio. «Come può essere con Cristo chi si vergogna o ha paura di appartenere a Cristo?», si chiede.

Le parole più dure sono riservate agli apostati che, per iniziativa propria o perché traviati da cattivi pastori «il cui eloquio si diffonde come un cancro e la cui propaganda tossica e velenosa uccide più della stessa persecuzione», pretendevano di tornare in comunione con la Chiesa senza adempiere alle penitenze prescritte, dimostrando così di non tenere in alcun conto la gravità del peccato o addirittura presumendo di non averne commesso alcuno. Questa leggerezza rinnova e duplica il sacrilegio, spiega il cartaginese, perché chi aveva tremato davanti agli uomini ora non trema davanti a Dio e «quando doveva stare in piedi si è prostrato, quando dovrebbe invece prostrarsi e inginocchiarsi, resta in piedi». Implora perciò i fedeli di «aprire il cuore alla consapevolezza del crimine commesso senza disperare della pietà divina, ma anche senza pretendere il perdono istantaneo» dispensato dal clero deviato che propala «false promesse di salvezza». La durata e l'intensità della penitenza devono essere commisurate alla gravità del peccato («quam magna delinquimus, tam granditer defleamus») e riflettersi anche negli atti e nell'aspetto esteriore, affinché si dia piena «prova del dolore di un'anima contrita e pentita».

Nell'interrogarsi sulle cause di una disfatta così clamorosa Cipriano considera la «lunga pace» accordata ai cristiani che, ormai quasi dimentichi delle ultime grandi persecuzioni, si erano integrati nella società imperiale accumulando cariche e patrimoni. Al rilassamento dei rapporti con l'autorità statale si era accompagnato anche un rilassamento dei costumi, «nessuna devozione nei vescovi, nessuna integrità di fede nei sacerdoti, nessuna misericordia nelle opere, nessuna disciplina nei comportamenti». La fede si era «illanguidita, direi quasi addormentata» e le comunità si erano date ai traffici: «ciascuno si studiava di aumentare le proprie ricchezze» con «insaziabile cupidigia» e molti vescovi, abbandonati gli uffici divini, si dedicavano agli investimenti, all'usura e ad altre faccende secolari («divina procuratione contempta procuratores rerum saecularium fieri»).

Il santo, appartenente egli stesso a una famiglia facoltosa, non considera la sicurezza sociale e il benessere materiale come mali in sé. Essi diventano tali se oggetti di un attaccamento che dispone alla negazione di Dio. Ritiene perciò che con la persecuzione «il Signore ha voluto mettere alla prova la sua famiglia» e lanciare un monito la cui necessità si è dimostrata proprio nella risposta data dai credenti. Questi ultimi, spiega, sono caduti proprio a causa delle ricchezze che li tenevano incatenati al mondo e alle sue condizioni. La capitolazione dei lapsi assume così un chiaro senso didascalico:


Non potevano avere la libertà e la prontezza di ritirarsi coloro che si erano legati ai beni materiali. Questi erano i ceppi di chi è rimasto, queste le catene che hanno impedito la virtù, soffocato la fede, sopraffatto il giudizio e strozzato l'anima, affinché coloro che si aggrappavano alle cose della terra divenissero cibo e preda del serpente che Dio ha condannato a divorare la terra.

Cipriano non denuncia un calcolo, bensì un abbaglio, la follia di spendere l'eternità per comprare ciò che ci sarà comunque tolto («cui enim non nascenti adque morienti relinquenda quandoque?») e la sfiducia nella Provvidenza divina che per bocca di Cristo assicura «multo plura in hoc tempore» a chi lascia i tesori mortali per Dio (Lc 18,29-30, C. cita a memoria e scrive «septies tantum»). La lezione di ascesi è anche una lezione di logica: l'«indipendenza» economica è a conti fatti il suo opposto, una dipendenza da chi la può concedere, tutelare e revocare, dal padrone temporale che può anche metterla al prezzo della dignità, o dell'anima. Dal disordine della persecuzione emerge così l'essenza della dialettica cristiana, l'opposizione tra il passaggio mondano e la vocazione celeste, il non essere del mondo e perciò odiati dal mondo (Gv 17,14) e la conseguente certezza che gli omaggi terreni si scontano con la moneta reclamata da chi offriva invincibilità e sazietà nel deserto: «tutte queste cose io ti darò, se, prostrandoti, mi adorerai» (Mt 4,1-11).





Sembrano ormai maturi i tempi, a cinquantacinque anni dalla famosa intervista con lo Spiegel il 23 settembre 1966, per iniziare a capire una – tra le tante – sibilline affermazioni di un filosofo tra i più controversi di sempre, Martin Heidegger, rilasciata all'inviato del settimanale tedesco: «È per me oggi un problema decisivo come si possa attribuire un sistema politico - e quale - all'età della tecnica. Non sono convinto che sia la democrazia» sollevando così la questione circa l'effettiva “corrispondenza“ tra questa antica e gloriosa forma di organizzazione della vita sociale e l'incipiente compiersi del pensiero e dell'età moderna nel “mondo nuovo“, riordinato e rivestito per intero dalla “tecnica“. Tecnica nominerebbe infatti per il filosofo non uno strumento ma qualcosa che l'uomo sarebbe mai in grado di dominare. «Ma perché», lo incalzava allora l'inviato dello Spiegel, «dovremmo essere sopraffatti dalla tecnica?». Heidegger aveva risposto: «Io non dico “sopraffatti”. Dico che non abbiamo ancora nessuna strada che corrisponda all'essenza della tecnica».

Ebbene il caso italiano, dove un decennale susseguirsi di governi cosiddetti “tecnici“ ha visto immancabilmente applicata un'agenda dal contenuto anti-nazionale e anti-italiano, dovrebbe averci ormai aperto gli occhi sulla totale inutilità e obsolescenza, dal punto di vista del potere, di ogni “particolarità“ (salvo rarissime) culturale, etnica e nazionale. Nel 1969, durante uno dei suoi famosi seminari, il filosofo della selva nera profeticamente ammoniva: «si dovrebbe meditare sulla comparsa di una nuova forma di nazionalismo fondata sulla potenza tecnica e non più (per fare un esempio) sui peculiari caratteri etnici» – nuova forma di “nazionalismo“ che, per l'ovvia trans-nazionalità della “tecnica“ (propria dell'uomo in generale più che di questo o quel popolo in particolare) ha contorni necessariamente più indifferenziati e globali restando “nazione“ quanto all'esercizio della sovranità (del potere) ma sradicandosi quanto “all'essenziale punto di vista della terra“ che originariamente la connota (natio, da nasci, nascere, significa nascita, cioè una comunità di “nati” in un medesimo luogo), e venendo a indicare piuttosto un'eterogenea casta di eletti, sorta di nuovo (?) popolo “senza terra“.


Questo progressivo slittamento del potere decisionale dal demos ai “tecnici” (un'aristocrazia finanziaria globale) segna il trionfo del platonismo, ossia la realizzazione di quello stato ideale ferocemente paternalistico e autoritario descritto nel IV sec a.C. dal filosofo ateniese (la Πολιτεία), la cui concezione politica e morale sottostante – per il suo anti-umanismo – Karl Popper non potè che definire «moralmente repellente e addirittura spaventosa», e genitrice dei nuovi sistemi chiusi (tautologici, non falsificabili, illiberali) sedicenti universali ed egalitari ma realmente anti-egalitari, anti-individualisti e collettivisti, teorizzati da Hegel e Marx, e base teorica tanto delle dittature socialiste che dei romanzi distopici del XX secolo. Se infatti l'odio per l'uomo non ne fosse la base, non troveremmo in queste concezioni il bisogno dittattoriale di ri-farlo ex novo, oggi anche biologicamente con l'“uso“ della “tecnica”, senza un padre e una madre naturali, declassati alle “cause seconde” di genitore 1 e genitore 2 (“causa prima“ è adesso lo Stato a cui appartiene), né, ovviamente, alcun patrimonio o eredità (“credito sociale“ e moneta elettronica realizzerano quel re-set che nella Πολιτεία era stato definito da alcuni “comunismo platonico”).


Ora secondo Heidegger proprio il marxismo è «il pensiero di oggi» perché «il marxismo pensa a partire dalla produzione» e oggi «regnano semplicemente l'auto-produzione dell'uomo e della società», rimodellabili “tecnicamente“ (ossia contro il diritto naturale) a partire da un'idea (platonismo): «Con Marx si è raggiunta la posizione del nichilismo estremo», quella in cui «l'uomo è l'essere supremo per l'uomo», e per converso «dell'essere stesso è niente». L'uomo infatti «non è un ente che crea se stesso», ma un ente «gettato» e «lasciato essere» dall'“essere“ (Heidegger tuttavia non chiarirà mai l'esatta natura e identità di un tale essere, se non rimarcando la sua differenza ontologica assoluta tanto da quello cristiano, Dio, che appunto da quello moderno, l'uomo). Ma l'autoproduzione dell'uomo «dà origine», dice Heidegger, «al problema della sua autodistruzione». Il passaggio al trans-umano (l'auto-produzione dell'uomo, la sua selezione ed “allevamento“ non diversamente da un capo di bestiame) costituisce dunque per Heidegger un problema.


E qui si dà, nel pensiero del grande filosofo tedesco, il vero punto di svolta del discorso – che resterà tuttavia per lui un “sentiero interrotto“. Ritenendo infatti Heidegger il creazionismo cristiano, da ex-cattolico, una cosa sola con la tecnica moderna, dunque parte del problema, non potrà sviluppare la sua stessa intuizione sull'essenza della tecnica con la teologia del visibilium omnium et invisibilium del credo cristiano, fermandosi così sulla soglia.


Qual è questa intuizione? Partendo dalla speculazione greca in cui techne è concetto non del fare ma del sapere, Heidegger arriva a individuare nella tecnica «un modo del dis-velamento» (della “verità“) e più esattamente, come apprendiamo da un carteggio privato, spirito: «la tecnica non è nulla di “tecnico“ ma è “spirito”», e cioè «un modo in cui l'essente diventa visibile nel suo complesso e come cosa visibile agisce». C'è dunque uno spirito in questo “portare le cose alla presenza” tipico del fare tecnico, e più esattamente una volontà che è pro-vocazione e im-posizione al mondo dell'impossibile (Gestell). Armato di questa volontà l'uomo, «con la tecnica, si organizza in ogni direzione» imponendo a se stesso, al mondo e a ogni altra creatura, di andare oltre il cerchio delle proprie possibilità, «verso ciò che non è più il suo possibile, e quindi è l'impossibile». Così la volontà che parassita la (spiritualità) tecnica «ha imposto al possibile l'impossibile come scopo».


Ed ecco il punto di svolta. Se la tecnica corrisponde a uno “spirito“ la cui volontà è chiaramente mimetica del Dio creatore ma in senso opposto, e cioè di un ri-fare uomo e mondo a immagine e somiglianza della propria mancanza di misura, impossibilità, tracotanza – non sarà che in questo pressante appello della “tecnica“ all'uomo parla quella «tendenza verso l'estremo» che René Girard giunse a identificare come «satana»? Con Girard crediamo anche che la scelta finale di Heidegger del pagano contro il cristiano (in termini nietzscheani, la scelta di «Dioniso contro il Crocifisso», quell'«ormai solo un dio ci può salvare») gli abbia precluso una speculazione più profonda, mandando a vuoto altre grandi intuizioni su giornalismo e informazione (una «forma di dominio dello spirito» e un'«insufficienza dello sguardo per la forma») e sulla dittatura della pubblica opinioneuna funzione della tecnica»).


Del resto è fatale che questo fare a meno di Dio, nell'esercizio del pensiero, gli abbia procurato più problemi che soluzioni perché la verità, come dice sempre Girard, è che «nessuno comincia qualcosa se non per grazia. Il peccato», nella “tecnica”, nel vivere e nel pensare, «consiste [sempre] nel credere che si possa cominciare qualcosa da se stessi».


Ma di tutto questo in un prossima pubblicazione.

©2021 Laportastretta(Lc13,24)
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