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Accorsi all'altare del diavolo con una vittima da immolare, non si avvedevano di essere essi stessi le vittime (Cipriano, De lapsis)


Il 20 gennaio ricorre la memoria liturgica di San Fabiano papa e martire, il giorno in cui ”il suo corpo fu deposto a Roma sulla via Appia nel cimitero di Callisto” (Martirologio romano). Celebre la circostanza della sua elezione a Vicario di Cristo: la cattedra di S. Pietro era rimasta vacante per la morte di S. Antero e i fedeli stavano in orazione pregando lo Spirito Santo quando si vide una splendida luce discendere dal cielo e una colomba posarsi leggermente sul capo di Fabiano”, ricordando inequivocabilmente quel ”Hic est Filius meus dilectus, in quo mihi complacui” del Battesimo del Signore al Giordano. Nei quattordici anni del suo pontificato (dal 10 gennaio del 236 al 20 gennaio del 250) San Fabiano divise Roma in sette diaconie per l’assistenza dei poveri e con lui la figura del vescovo di Roma assunse tale prestigio da destare preoccupazione nell’imperatore Decio, che nel 249 aveva ucciso e detronizzato il rivale, l'imperatore Filippo l'arabo, che proprio Fabiano aveva convertito alla vera religione assieme al figlio. Decio avviò una politica di ritorno alla religione pagana con l'obbligo di un pubblico sacrificio agli dei – con l'editto del Libellus, dal nome dell'attestato che veniva rilasciato a controprova dell'avvenuto sacrificio. I cristiani naturalmente insorsero e tra questi Fabiano, che preferì il carcere e una morte di stenti; alcuni vacillarono fino a ”scivolare” (lapsi) nel paganesimo abiurando alla fede cristiano e compiendo il sacrificio richiesto dall'imperatore, altri, più benestanti, ottennero il libellus dietro pagamento senza compiere alcun sacrificio (i "libellatici").

Di seguito, un illuminante post de Il Pedante, De lapsis, pubblicato il 22 dicembre scorso.


 

Recedite, recedite; exite inde, pollutum nolite tangere; exite de medio ejus; mundamini, qui fertis vasa Domini – Is 52,11 (Partite, partite, uscite di là! Non toccate nulla d'impuro! Uscite di mezzo a lei! Purificatevi, voi che portate i vasi del Signore!)

Quando si scatenò la persecuzione di Decio, nel 250 d.C., i tempi delle catacombe erano lontani. Pur mal viste e occasionalmente bersaglio di attentati e soprusi, le comunità cristiane si erano diffuse ovunque nell'impero, prosperavano anche economicamente e contavano appartenenti in ogni ceto sociale. Fu perciò tanto più traumatica la decisione del nuovo sovrano di obbligare tutti i cittadini a rendere un sacrificio pubblico agli dei pagani sotto pena di subire la tortura, l'esilio, la spogliazione dei beni e, nei casi più gravi, la morte. Milioni di cristiani tra cui anche nobili, possidenti e alti funzionari dello Stato si trovarono così da un giorno all'altro costretti a scegliere se offendere la propria fede o perdere tutto.

Quella deciana non nasceva come una persecuzione. L'imperatore voleva allestire una consacrazione di massa agli idoli pagani per restaurare la pietas tradizionale e propiziare la vittoria militare contro i barbari che premevano ai confini. Le pene riservate ai riluttanti erano uno strumento di questo progetto, per la cui realizzazione ci si avvalse del poderoso apparato burocratico imperiale come mai era accaduto prima. Affinché nessuno sfuggisse al precetto, il sacrificio prescritto doveva svolgersi in presenza di testimoni e di un ufficiale pubblico incaricato di rilasciare un certificato (libellus) che ne attestasse il compimento. Senza libellus si era fuori dalla

società e dalla legge. Secondo gli storici e i contemporanei, fu tutto sommato esiguo il numero di coloro che in quei mesi persero effettivamente la vita per la fede, come toccò ad esempio al pontefice Fabiano. Alle autorità romane non sfuggiva il rischio di creare nuovi esempi di santità col martirio, sicché miravano piuttosto a indebolire e corrompere le comunità eterodosse per assimilarle. Molto più numerosi furono perciò i cristiani che per evitare le pene annunciate si piegarono a rendere omaggio alle divinità pagane. Fu quasi un'apostasia di massa che, una volta decaduto l'editto, lasciò una ferita profonda nel cristianesimo delle origini e sollevò il problema di come trattare i tanti che chiedevano di rientrare in seno alla Chiesa pur essendo «scivolati» (lapsi) nell'idolatria. Ne scaturirono diatribe, concili e anche i primi scismi di Novaziano e Felicissimo, che giudicavano rispettivamente troppo accomodante o troppo severa la posizione del papato.

Cipriano, vescovo di Cartagine e futuro martire e santo, ci ha lasciato una testimonianza di quegli eventi nelle epistole che indirizzava alle comunità dei fedeli dal suo esilio segreto. Rientrato a Cartagine dopo la morte di Decio, affidò alla lettera pastorale De lapsis un commento e un giudizio sulle condotte tenute dai confratelli durante la persecuzione. Dopo avere reso grazie a Dio per la cessazione del pericolo e la sua breve durata, tanto da potersi dire una prova più che una vera persecuzione («exploratio potus quam persecutio»), tesse innanzitutto le lodi dei confessores, cioè di coloro che si erano apertamente professati cristiani al cospetto dei magistrati, affrontandone le conseguenze. L'omaggio che va reso a quei pochi e coraggiosi testimoni, aggiunge, vale anche per coloro che avessero infine ceduto sotto gli insopportabili tormenti. Essi avevano infatti peccato per necessità, non per volontà; si erano piegati al castigo, non alla prospettiva del castigo («nec excusat oppressum necessitas crimini, ubi crimen est voluntatis»).

In polemica con i rigoristi scismatici e il Tertulliano del De fuga, Cipriano ritiene che debbano essere glorificati anche i tanti renitenti («stantium moltitudo») che, «saldamente radicati nei precetti celesti» e senza temere i castighi promessi, avevano scelto di non presentarsi all'appuntamento fissato per il sacrificio, affermando così implicitamente la loro fedeltà a Cristo. Se infatti «la prima vittoria è di chi, caduto nelle mani dei gentili, professa il Signore, la seconda è di chi si ritira cautamente serbandosi a Dio». Chi non adempiva doveva darsi alla macchia, come fece anche Cipriano e come esorta a fare secondo l'insegnamento delle Scritture: «sì, bisognava lasciare la patria e subire la perdita del patrimonio» perché «è Cristo che non deve essere lasciato, è la perdita della salvezza e della dimora eterna che deve essere temuta». L'esilio non è una sconfitta, spiega, ma piuttosto una condizione per preparare e compiere la volontà divina, anche fino all'ultimo sacrificio. «Infatti, poiché la corona dipende dalla degnazione di Dio e non la si può ricevere se non nell'ora stabilita, chi se ne va restando in Cristo non nega la sua fede, ma attende il tempo. Chi invece cade per non essersene andato, significa che è rimasto per negare Cristo». Lo stesso Cipriano, dopo essere sfuggito alla prima persecuzione, sarebbe caduto martire alcuni anni dopo sotto Valeriano.

Nella parte centrale dello scritto, la più dolorosa e polemica, il vescovo stigmatizza i comportamenti degli apostati e registra inorridito la prontezza con cui la maggior parte dei fratelli («maximus fratrum numerus») si era precipitata all'appuntamento sacrilego. Eccoli «correre di loro iniziativa al foro, affrettare spontaneamente la loro morte [spirituale], quasi desiderassero farlo da tempo, quasi abbracciassero l'occasione che era loro offerta e che avevano ardentemente desiderato». Rimandati alla mattina seguente dai magistrati per mancanza di tempo, insistevano affinché li si ricevesse il giorno stesso. Accorsi all'«altare del diavolo» con una vittima da immolare, non si avvedevano di essere essi stessi le vittime («ipse ad aras hostia, victima ipse venisti») e che su quel braciere avrebbero consumato «la loro salvezza, la loro speranza, la loro fede».

Molti, non contenti di avere distrutto sé stessi, si prodigavano per spingere il prossimo nella loro stessa rovina e, «affinché nulla mancasse al cumulo dei crimini», anche i bambini furono «obbligati o incoraggiati dai loro genitori a perdere ciò che avevano ricevuto» con il battesimo. Cipriano immagina le parole con cui questi innocenti si sarebbero discolpati nel giorno del giudizio, puntando il dito contro chi li aveva messi al mondo. Segue poi una descrizione delle tragiche reazioni patite da alcuni apostati, come il caso di un uomo divenuto muto «acciocché non potesse più implorare misericordia» o di una donna che, avendo subito approfittato della libertà concessale per svagarsi alle terme, vi aveva trovato la possessione e la morte. L'autore insiste molto sulla dimensione corporale del peccato: l'assunzione della vittima sacrificata è un'anti-eucaristia che ammorba l'anima penetrando gli organi, una reincarnazione del frutto dell'Eden, sicché gli è facile mettere in opposizione i «cibi scellerati» con i «cibi celesti», «il toccare la cosa immonda, il lasciarsi violare e insozzare dalle carni avvelenate» con la comunione eucaristica. Tra gli apostati che si erano riaccostati impenitenti al sacramento, riferisce, alcuni avevano trovato cenere o fiamme in luogo della particola, altri l'avevamo vomitata, altri erano collassati. Episodi isolati, è vero, ma avverte che nessuno doveva perciò presumersi impunito per sempre («nec hic esse sine poena possunt quamvis necdum poena dies venerit») perché «nel frattempo sono colpiti alcuni affinché gli altri siano avvertiti, la sciagura di pochi è un esempio per tutti».

Vi erano poi alcuni, detti libellatici, che per evitare le sanzioni senza commettere materialmente il sacrilegio si erano procurati il libellus da esibire alle autorità con la corruzione o mandando altre persone sotto falsa identità. Sappiamo dall'epistolario dell'autore che a questi espedienti avevano fatto ricorso anche diversi sacerdoti e persino dei vescovi. La loro condotta è meno grave, ma comunque esecrabile («hoc eo proficit ut sit minor culpa, non ut innocens conscientia»), perché «quel certificato è esso stesso una confessione di apostasia» e un atto di sottomissione a un decreto umano che viola le leggi di Dio. «Come può essere con Cristo chi si vergogna o ha paura di appartenere a Cristo?», si chiede.

Le parole più dure sono riservate agli apostati che, per iniziativa propria o perché traviati da cattivi pastori «il cui eloquio si diffonde come un cancro e la cui propaganda tossica e velenosa uccide più della stessa persecuzione», pretendevano di tornare in comunione con la Chiesa senza adempiere alle penitenze prescritte, dimostrando così di non tenere in alcun conto la gravità del peccato o addirittura presumendo di non averne commesso alcuno. Questa leggerezza rinnova e duplica il sacrilegio, spiega il cartaginese, perché chi aveva tremato davanti agli uomini ora non trema davanti a Dio e «quando doveva stare in piedi si è prostrato, quando dovrebbe invece prostrarsi e inginocchiarsi, resta in piedi». Implora perciò i fedeli di «aprire il cuore alla consapevolezza del crimine commesso senza disperare della pietà divina, ma anche senza pretendere il perdono istantaneo» dispensato dal clero deviato che propala «false promesse di salvezza». La durata e l'intensità della penitenza devono essere commisurate alla gravità del peccato («quam magna delinquimus, tam granditer defleamus») e riflettersi anche negli atti e nell'aspetto esteriore, affinché si dia piena «prova del dolore di un'anima contrita e pentita».

Nell'interrogarsi sulle cause di una disfatta così clamorosa Cipriano considera la «lunga pace» accordata ai cristiani che, ormai quasi dimentichi delle ultime grandi persecuzioni, si erano integrati nella società imperiale accumulando cariche e patrimoni. Al rilassamento dei rapporti con l'autorità statale si era accompagnato anche un rilassamento dei costumi, «nessuna devozione nei vescovi, nessuna integrità di fede nei sacerdoti, nessuna misericordia nelle opere, nessuna disciplina nei comportamenti». La fede si era «illanguidita, direi quasi addormentata» e le comunità si erano date ai traffici: «ciascuno si studiava di aumentare le proprie ricchezze» con «insaziabile cupidigia» e molti vescovi, abbandonati gli uffici divini, si dedicavano agli investimenti, all'usura e ad altre faccende secolari («divina procuratione contempta procuratores rerum saecularium fieri»).

Il santo, appartenente egli stesso a una famiglia facoltosa, non considera la sicurezza sociale e il benessere materiale come mali in sé. Essi diventano tali se oggetti di un attaccamento che dispone alla negazione di Dio. Ritiene perciò che con la persecuzione «il Signore ha voluto mettere alla prova la sua famiglia» e lanciare un monito la cui necessità si è dimostrata proprio nella risposta data dai credenti. Questi ultimi, spiega, sono caduti proprio a causa delle ricchezze che li tenevano incatenati al mondo e alle sue condizioni. La capitolazione dei lapsi assume così un chiaro senso didascalico:


Non potevano avere la libertà e la prontezza di ritirarsi coloro che si erano legati ai beni materiali. Questi erano i ceppi di chi è rimasto, queste le catene che hanno impedito la virtù, soffocato la fede, sopraffatto il giudizio e strozzato l'anima, affinché coloro che si aggrappavano alle cose della terra divenissero cibo e preda del serpente che Dio ha condannato a divorare la terra.

Cipriano non denuncia un calcolo, bensì un abbaglio, la follia di spendere l'eternità per comprare ciò che ci sarà comunque tolto («cui enim non nascenti adque morienti relinquenda quandoque?») e la sfiducia nella Provvidenza divina che per bocca di Cristo assicura «multo plura in hoc tempore» a chi lascia i tesori mortali per Dio (Lc 18,29-30, C. cita a memoria e scrive «septies tantum»). La lezione di ascesi è anche una lezione di logica: l'«indipendenza» economica è a conti fatti il suo opposto, una dipendenza da chi la può concedere, tutelare e revocare, dal padrone temporale che può anche metterla al prezzo della dignità, o dell'anima. Dal disordine della persecuzione emerge così l'essenza della dialettica cristiana, l'opposizione tra il passaggio mondano e la vocazione celeste, il non essere del mondo e perciò odiati dal mondo (Gv 17,14) e la conseguente certezza che gli omaggi terreni si scontano con la moneta reclamata da chi offriva invincibilità e sazietà nel deserto: «tutte queste cose io ti darò, se, prostrandoti, mi adorerai» (Mt 4,1-11).




Poco, o nessuno scalpore, ha destato la notizia della visita di Papa Francesco il 2 Novembre, in occasione della Solennità dei Defunti, presso il Cimitero Militare Francese di Roma, dove ha anche deposto rose bianche sulle tombe di alcuni dei 1142 "gourmiers" marocchini (di religione islamica) e ha celebrato la Santa Messa.

Eccezione han fatto il presidente dell'Associazione Nazionale Vittime delle Marocchinate, Emiliano Ciotti – che indignato ha commentato: «Il Papa commemora i carnefici e non le vittime, tanto più che dette truppe coloniali di religione islamica hanno applicato la sharia, ossia tutto ciò che non è islamico si poteva depredare e violentare: donne, uomini, bambini e preti compresi. Siamo amareggiati che il Papa onori questi soldati che hanno massacrato migliaia di esseri umani che andavano incontro ai liberatori, e invece si son trovati davanti ai loro peggiori carnefici. È assurdo che sia la nostra associazione a commemorare i martiri cristiani, compresi sacerdoti e suore colpiti dalla brutalità di queste truppe e non sua Santità» – e il senatore frusinate Massimo Ruspandini di Fratelli d'Italia, che ha rilanciato: «il fatto che nemmeno il Papa conosca [ma è mai possibile che non la conosca?, ndc] la storia di migliaia di donne cristiane italiane stuprate dall'esercito coloniale francese rende indispensabile l'individuazione di una commissione d'inchiesta per indire una giornata per il ricordo delle vittime delle marocchinate».

Di seguito un articolo di Europa Cristiana.


 

«Questa brava gente [sic!, ndc] è morta in guerra, chiamata a difendere la patria, valori e ideali. E tante altre volte a difendere situazioni politiche tristi. Sono le vittime, le vittime della guerra che mangia i figli della patria», così ha affermato papa Francesco lo scorso 2 novembre in occasione dell’annuale Commemorazione di tutti i fedeli Defunti, che quest’anno ha visto la celebrazione ospitata presso il cimitero militare francese di Roma.


don Alberto Terrilli (a sx) e la “brava gente” portarice di ideali (a dx)

È necessario più che mai mettere i puntini sulle “i”, è doveroso precisare di cosa si tratta. «Marocchinate»: con questo termine è stata tramandala la memoria degli stupri di gruppo, delle uccisioni, dei saccheggi e delle violenze di ogni genere perpetrate dalle truppe coloniali francesi (Cef), aggregate agli Alleati, ai danni della popolazione italiana, dei prigionieri di guerra e persino di alcuni partigiani comunisti.

Gli americani sbarcarono nel 1942 ad Algeri e le truppe coloniali francesi del Nord Africa, sino ad allora agli ordini della repubblica filonazista di Vichy, si arresero senza sparare un colpo. Il generale Charles De Gaulle, fuggito dalla Francia occupata dai tedeschi e capo del governo francese in esilio nella così detta “Francia libera”, allora, attinse a questo personale militare per creare il Cef: Corp Expeditionnaire Français, formato al 60% da marocchini, algerini, tunisini e senegalesi e per la rimanente parte da francesi europei, per un totale di 111.380 uomini ripartiti in quattro divisioni.

Alcuni reparti erano però costituiti esclusivamente marocchini di goumiers (dall’arabo qaum), i cui soldati provenivano dalle montagne del Riff ed erano raggruppati in reparti detti «tabor» in cui sussistevano vincoli tribali o di parentela diretta. Erano in tutto 7.833 uomini, indossavano il caratteristico burnus arabo, vestivano una tunica di lana verde a bande verticali multicolori (djellaba) e sandali di corda.

Erano equipaggiati non solamente con le armi alleate (mitra Thompson cal. 45 mm e mitragliatrice Browning 12.7 mm), ma anche con il tipico pugnale ricurvo (koumia) con il quale, secondo una loro antica usanza, tagliavano le orecchie ai nemici uccisi per farne collane e ornamenti. In particolar modo i tedeschi ne fecero le spese. Loro comandante era l’ambizioso generale Alphonse Juin, nato in Algeria, che da collaborazionista della repubblica di Vicky era passato alle dipendenze del generale De Gaulle. Gli stupri delle truppe marocchine cominciarono già nel luglio ’43, con lo sbarco alleato in Sicilia. Gli 890 magrebini del 4° tabor, aggregato agli americani, che sbarcano a Licata, compirono saccheggi e violentarono donne e bambini presso il paese di Capizzi, vicino Troina. I siciliani non tardarono a reagire uccidendone alcuni con doppiette e forconi.

Gli Alleati, com’è noto, risalirono l’Italia senza troppe difficoltà e si impantanarono a Cassino, sulla Linea Gustav, dove i tedeschi opponevano una resistenza tenacissima. Fu il generale Juin, sin dall’inizio, a proporre ai colleghi statunitensi Clark e Alexander l’aggiramento del caposaldo nemico. Dopo tre battaglie sanguinosissime, senza alcun risultato, gli Alleati avallarono la proposta di Juin. Questi aveva scoperto che il monte Petrella, a est di Cassino, era stato lasciato parzialmente sguarnito dai tedeschi. In quelle zone, solo le sue truppe marocchine di montagna avrebbero potuto uscire vittoriose. Con l’operazione «Diadem», che fu l’ultimo assalto collettivo degli Alleati, i goumiers riuscirono infatti a sfondare la Linea Gustav e, attraversando l’altipiano di Polleca, si lanciarono verso Pontecorvo. Kesselring, comandante tedesco in Italia, inviò i suoi Panzegrenadieren insieme a reparti italiani della Rsi, ma questi, dopo duri combattimenti, dovettero soccombere. È accertato che gli ultimi soldati tedeschi rimasti a Esperia si suicidarono gettandosi da un burrone per non finire decapitati come altri loro commilitoni catturati. Ciò avveniva mentre i marocchini cominciavano a violentare moltitudini di donne, uomini e bambini sull’altopiano di Polleca. Alla ritirata dei nazifascisti, vari paesi della Ciociaria vennero occupati dai franco-coloniali del Cef. Un assurdo calvario ebbe dunque inizio.


Ad Ausonia decine di donne furono violentate e uccise, e la medesima sorte capitò agli uomini che tentavano di difenderle. Anche il parroco, don Alberto Terrilli (nell’immagine in alto), nel tentativo di difendere due ragazze, venne legato a un albero e stuprato per una notte intera. Morì qualche settimana dopo per le lacerazioni interne riportate. Il 20 maggio 1944 a Vallecorsa, in provincia di Frosinone, il parroco padre Enrico Jannoni, missionario redentorista, fu fucilato dalle truppe marocchine, poiché aveva tentato di difendere alcune donne in procinto di essere violentate. Una pagina eroica di storia della Chiesa completamente occultata dalla Chiesa stessa.


A Pico, una ragazza venne crocifissa con la sorella, tra le centinaia di donne stuprate fu violentata una bambina di soli cinque anni. A Cassino fu bruciata viva una donna dopo essere stata stuprata. A Polleca si erano rifugiati circa diecimila sfollati, per lo più donne, vecchi e bambini, in un campo provvisorio. I reparti marocchini del generale Guillaume stuprarono bambine e anziane; gli uomini che osarono reagire furono sodomizzati, uccisi a raffiche di mitra, evirati o impalati vivi. Alcuni documenti dell’Archivio Centrale dello Stato attestano che anche i francesi bianchi parteciparono attivamente alle violenze. Anche gli americani sapevano di questi fatti, ma in non più di un paio di casi tentarono debolmente di frenare i goumiers. Un fenomeno di queste dimensioni che si è protratto per oltre due anni, in mezza penisola, che ha interessato un numero elevatissimo di persone, non poteva essere tenuto nascosto ai comandanti.

Emiliano Ciotti, presidente dell’Associazione Vittime delle Marocchinate, fornisce le cifre precise circa questo massacro: “Nella seduta notturna della Camera del 7 aprile 1952 la deputata del PCI Maria Maddalena Rossi denunciò che solo nella provincia di Frosinone vi erano state 60000 violenze da parte delle truppe del generale Juin. Ad oggi possiamo affermare, grazie alle numerose documentazioni raccolte, che ci furono 20000 casi accertati di violenze, numero del tutto sottostimato; diversi referti medici dell’epoca riferirono che un terzo delle donne violentate, che si erano fatte medicare, sia per vergogna o per pudore, preferì non sporgere denuncia. Una valutazione complessiva delle violenze commesse dal Cef, iniziate in Sicilia e terminate alle porte di Firenze, ci porta a poter affermare con certezza che ci fu un minimo di 60000 donne stuprate, ciascuna quasi sempre da più uomini. I soldati magrebini, ad esempio, mediamente violentavano in gruppi da due o tre, ma sono state raccolte testimonianze di donne violentate anche da cento, duecento e trecento uomini. Oltre alle violenze carnali, non mancarono decine di migliaia di richieste per risarcimenti a danni materiali: furti, incendi, saccheggi e distruzioni.

«Maltrattamento di popolazione civile» è il titolo di un memorandum conservato all’Archivio di Stato, che offre un tentativo di spiegazione per quegli stupri di massa. In esso il comandante delle truppe coloniali francesi, Alphonse Juin, raccolse tutte le segnalazioni di violenze subite dalle popolazioni locali («Che si lamentano amaramente presso Autorità alleate») in quei terribili giorni. Juin minimizzava («Vi è certamente la possibilità di esagerare i fatti»), ma era anche preoccupato per il buon nome dell’esercito francese, ovvero dal rischio di «discreditare un esercito che è composto in massima parte di truppe coloniali». Un rischio da scongiurare, a suo giudizio. Scriveva: “Comunque forti possano essere i nostri sentimenti nei confronti di una Nazione che odiosamente tradì la Francia noi dobbiamo mantenere un’attitudine dignitosa. L’esercito francese si è guadagnato sul campo di battaglia italiano la considerazione di tutti”. Quel riferimento alla Nazione che «odiosamente tradì la Francia» rimanda all’attacco di Mussolini, nel giugno del 1940, quando la Francia era già stata praticamente messa in ginocchio dai tedeschi.

Don Terrilli e Padre Jannoni, il primo sodomizzato ed il secondo fucilato, brillano ora come stelle nel Cielo e rivendicano anche da parte ecclesiale il ristabilimento della verità, quella tragica verità che li ha visti tra le pieghe della storia abbracciare la palma del martirio.





È di oggi la notizia della (prevedibile) riduzione allo stato laicale di don Alessandro Minutella da parte della Congregazione per la dottrina della Fede. Del cosmo cosiddetto “tradizionalista” in seno alla Chiesa Cattolica (come se al Depositum Fidei, alla Verità custodita dal Magistero, si potessero mai applicare le declinazioni in vigore in politica, progressismo-conservazione, destra-sinistra ecc...), assieme alle sue singolari teorie per cui, ad esempio, Benedetto XVI avrebbe unicamente “finto” di rinunciare al soglio petrino (ingannando, ciò che è improbabile, tutto il popolo cattolico - come vorrebbe Antonio Socci), non meno che pratiche (a dir poco acrobatiche) per cui si potrebbe scegliere in (com)unione di quale Papa celebrare la Santa Messa (Minutella e seguaci celebrano “Una cum Benedictus Decimus Sextus“, ignorando che Benedetto XVI la celebra a sua volta, a tutt'oggi, ”Una cum Franciscus” – del cosmo cosiddetto “tradizionalista”, dicevo, è lecito pensare si tratti del solito gemello siamese speculare e opposto (come previsto dalle usuali fumisterie diaboliche degli sdoppiamenti, delle divisioni) al cosmo cosiddetto “modernista”, che dopo secoli di assedio parrebbe aver finalmente espugnato, con la Santa Sede, anche la Sposa di Cristo. Infatti, come ricordato da padre Francesco Maria Marino «tale punto di vista è in contrasto con lo stesso Depositum Fidei, come ribadito da Benedetto XVI nel suo commento al Canone Romano (2006), secondo cui “Non può dirsi in comunione con Cristo chi non è in comunione con il papa”». E il papa è Francesco. Una frase attribuita a san Vincenzo da Lerino, o a san Vincenzo Pallotti, dice che “Ci sono papi che Dio dona, papi che Dio tollera e papi che Dio infligge.” Dunque non è lo Spirito Santo all'opera nel conclave? Non è Lui a scegliere il Papa? È lui se i cardinali lo lasciano fare e scegliere un Papa che piace a Lui, sono (solo) loro, invece, se i cardinali usano della propria libertà per eleggere un pontefice che piace (solo) agli uomini...



[...] Che cos’è questa differenza tra il Cattolicesimo e il Protestantesimo? C’è un bel capitolo del libro di Davies (vedi qui, qui e qui) sulla riforma liturgica anglicana intitolato “Cattolicesimo, religione dell’incarnazione”. E prendo da questo capitolo una citazione del grande Newman. Il Cardinal Newman a un certo punto dice che se gli avessero domandato di scegliere una dottrina come base della nostra fede, avrebbe risposto: «Io direi che, per quanto mi riguarda, l’Incarnazione è al cuore del Cristianesimo», cioè che il Verbo si fa uomo, che Dio si fa uomo, «l’Incarnazione è al cuore del Cristianesimo. È di là che procedono tre aspetti essenziali del suo insegnamento: il sacramentale, il gerarchico e l’ascetico», tutte tre gli aspetti. Sarò brevissimo.

Discendono dall’Incarnazione i tre aspetti del Cristianesimo: sacramentale, gerarchico, ascetico [...] Il gerarchico: non possiamo essere dei rivoluzionari nella Chiesa, e dobbiamo riconoscere che la Chiesa è visibile e che ha una gerarchia, anche quando la gerarchia non esercita pienamente la sua autorità; noi siamo in una crisi così: ci sono vescovi che non fanno i vescovi, ci sono preti che non fanno i preti, ci può essere il Papa che non sempre esercita con coraggio il mandato petrino, ma nonostante questo occorre riconoscere l’aspetto gerarchico. Come anche bisogna riconoscere l’aspetto ascetico: non è perché la Chiesa è in crisi che io non debba farmi santo, che io non debba rinunciare al peccato, e non debba domandare la grazia di una vera conversione, e lavorare faticando, perché questa conversione avvenga in me, soprattutto in me, oltre a pregare perché avvenga negli altri e nella Chiesa tutta. Stiamo attenti allora a non ridurre in senso protestantico la lotta per la Tradizione, a non essere i protestanti della Tradizione.


No, noi riconosciamo che l’Incarnazione è il dogma fondamentale e che da questo discendono i tre aspetti: sacramentale, gerarchico e ascetico. Per essere cattolici è necessario che questi tre aspetti siano presenti. Questo non vuol dire non denunciare la crisi. Si denuncia la crisi del sacramentale, quando i sacramenti sono contraffatti e non si lavora perché le persone li ricevano secondo le condizioni che portano frutto. Si denuncia la crisi della gerarchia dove chi ha un posto di comando come pastore non lo esercita o si assoggetta alla cultura dominante (e questo è drammatico!). Di fronte al lassismo, per cui c’è la crisi dell’aspetto ascetico, noi non possiamo rifugiarci in una chiesa spirituale. La Chiesa è una sola ed è quella che vediamo! Tutto ciò dipende dall’Incarnazione, ma è questo che ci fa cattolici. I cattolici non possono fuggire dal visibile, dall’incontrabile, da un’obbedienza evidente alla Chiesa. Stiamo attenti, perché il Protestantesimo combattuto, uscito dalla porta, rientra dalla finestra, se non vigiliamo. Tutto questo può aprire mille domande, può far soffrire, ma a ciò non possiamo rinunciare, perché così rinunceremmo al Cattolicesimo stesso. Pensiamoci bene, facciamoci guidare da Maria Santissima in questa vigilanza. Sia lodato Gesù Cristo!



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