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Il vangelo di oggi è l'estrapolazione di parte della risposta di Gesù ai Giudei, che nel giorno della festa della Dedicazione, mentre Gesù passeggia nel tempio sotto il portico di Salomone, cercano nuovamente di metterlo in scacco.

In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola». (Gv 10,27-30)


Leggiamo il brano per intero:


Ricorreva in quei giorni a Gerusalemme la festa della Dedicazione. Era d'inverno. Gesù passeggiava nel tempio, sotto il portico di Salomone. Allora i Giudei gli si fecero attorno e gli dicevano: "Fino a quando terrai l'animo nostro sospeso? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente".

Gesù rispose loro: "Ve l'ho detto e non credete; le opere che io compio nel nome del Padre mio, queste mi danno testimonianza; ma voi non credete, perché non siete delle mie pecore. Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano. Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti e nessuno può rapirle dalla mano del Padre mio. Io e il Padre siamo una cosa sola". I Giudei portarono di nuovo delle pietre per lapidarlo. (Gv 10,22-31)


È possibile ora inquadrare la questione determinando quali siano e debbano essere le pecore del Signore e quali invece non lo siano, con relativo scioglimento di una apparente questione circa una "predestinazione" o "predilezione" divina rispetto ad alcuni. Lo facciamo con l'aiuto di San Tommaso d'Aquino e del suo straordinario Commento al Vangelo secondo Giovanni, vol. 2 (Edizione Studio Domenicano, 2019 Bologna, pp. 76-105).


I giudei «parlano in tono adulatorio, Fino a quando terrai l'animo nostro sospeso?, volendo mostrare con tale domanda che essi desiderano conoscere la verità sul suo conto» ma non sono sinceri, infatti nell'aggiungere Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente denotano, scrive il Dottor Angelico, tutta «la loro perversità (illorum perversitatem)». Non gli chiedono infatti se sia Figlio di Dio, ma se egli sia «il Cristo, ossia re o consacrato» avendo già in animo di denunziarlo a Pilato, che infatti «quando accuseranno Gesù di essersi dichiarato Figlio di Dio darà poca importanza alla cosa», mentre «quando diranno Chiunque si fa re si mette contro Cesare comincerà a preoccuparsi maggiormente nei suoi confronti». Inoltre, continua l'Aquinate, «si consideri la loro nequizia in quell'apertamente», un'accusa di aver parlato e insegnato nascostamente dottrine esoteriche. La risposta del Signore «denunzia la loro incredulità» mostrando che essi non bramavano affatto di conoscere la verità e lo fa con due argomenti: «Primo, per il fatto che non credevano alle sue parole: Ve l'ho detto e non credete», ossia queste pecore non lo ascoltano – non riconoscono la sua voce. Tommaso nota che «un discorso identico tornerà al processo (Lc 22,67): Anche se ve lo dico, non mi crederete... ». Secondo, perché «non credevano alle sue opere, per questo aggiunge: le opere che io compio nel nome del Padre mio, queste mi danno testimonianza. E in questa frase per prima cosa mostra la loro incredulità riguardo alle sue stesse opere e in secondo luogo ne indica il motivo, perché non siete delle mie pecore. Riguardo a tale incredulità afferma: le opere che io compio... Vale a dire: non soltanto non vi lasciate persuadere dalle parole a starvene in silenzio; ma neppure dalle tante opere che io compio nel nome del Padre mio, ossia per la sua gloria queste mi danno testimonianza, perché non possono essere compiute se non da Dio. Perciò da esse appare evidente che io sono venuto da Dio [...] ma voi non credete». Essi sono «quindi inescusabili: “Se non avessi fatto in mezzo a loro opere che nessun altro ha mai fatto, non avrebbero alcun peccato; ora invece hanno visto, e hanno odiato me e il Padre mio”».

Il Signore, afferma Tommaso, ha precisato la loro esclusione dalla comunità delle sue pecore: voi «non siete predestinati a credere, ma preconosciuti alla morte eterna». Il cristiano infatti non è mai tale per scelta propria – non è la sua soggettività a “porre” Dio come orizzonte e opzione migliore in cui credere: «Perciò il fatto stesso di credere viene concesso a noi da Dio, come scrive San Paolo ai Filippesi (1,29): “A voi fu data questa grazia: non solo di credere in Cristo ma anche di patire per lui”; e lo ribadisce in Efesini (2,8): “Per grazia siete stati salvati...; e ciò non è da voi, ma è dono di Dio” [...] Perciò credono in lui soltanto quelli che a ciò sono stati ordinati da Dio con eterna predestinazione. Di qui le parole degli Atti (13,48) “Credettero tutti quelli che erano stati preordinati alla vita eterna”». Ma ancora, potremmo aggiungere, “Nessuno può venire a me, se il Padre non lo attira” (Gv6,44). Non si tratta qui tuttavia, naturalmente, della predestinazione eretica del calvinismo o del protestantesimo che riducono il libero arbitrio a un “servo arbitrio”. Nel contesto particolare Tommaso argomenta: dire a qualcuno che egli non è predestinato in effetti non è doveroso, perché lo costringerebbe alla disperazione, tuttavia ciò varrebbe unicamente se lo si dicesse a una singola persona e non a una folla: «In quella folla c'era qualcosa che era comune a tutti, vale a dire che essi non erano preordinati da Dio a credere in quel momento; e c'era qualcosa di speciale per ciascuno, in quanto alcuni di essi erano preordinati a credere in seguito, come risulta dagli Atti degli Apostoli (cf. 2,41), dove si riferisce che in un solo giorno tremila abbracciarono la fede. Non si pregiudicava quindi la speranza dicendo a una folla [...] poiché nessuno avrebbe potuto applicare determinatamente la cosa a se stesso. Avrebbe invece reso nulla la speranza se si fosse rivolto a una determinata persona».


Più in generale invece, la cosa va spiegata in rapporto alle pecore dell'ovile di Cristo: «Le mie pecore, quelle cioè che sono tali per la predestinazione, ascoltano la mia voce, credendo e obbedendo ai miei precetti» – è predestinato colui che è abbastanza docile da ubbidire, cioè ob-audire, dare ascolto alla voce del buon pastore – «e io le conosco, cioè le amo e le approvo. “Il Signore conosce quelli che sono suoi” (2 Tm 2,19). Ciò equivale a dire: il fatto che mi ascoltano dipende dal fatto che io le conosco, scegliendole dall'eternità». Se dunque uno non può credere se non è Dio ad attirarlo per primo a sé, sembra allora che l'incredulità, continua Tommaso, «non si possa più addebitare a nessuno come colpa». Non è così. Se Dio infatti è “causa prima” della salvezza di tutti gli uomini, la “causa seconda” è e resta in carico alla singola e libera decisione di ognuno: «A ciò si risponde che l'incredulità viene imputata agli increduli perché si riscontra in essi la causa per cui non viene loro concesso di credere. Io, certo, non potrei vedere la luce se non fossi illuminato dal sole; ma se io chiudessi gli occhi per non vedere la luce, ciò non dipenderebbe dal sole, ma da me stesso che col chiudere gli occhi pongo la causa della mancata illuminazione. Ora, il peccato è la causa per cui non siamo illuminati da Dio con la fede: sia per il peccato originale, sia per quello attuale esistente in alcuni; e questa causa si riscontra in tutti. Perciò quelli che vengono scartati lo sono per un giusto giudizio di Dio, mentre quelli che vengono prescelti sono assunti dalla misericordia di Dio».


Primo, noi lo ascoltiamo, cioè ob-bediamo.

Secondo, Lui ci ama e ci riconosce prediligendoci “dall'eternità”.

Terzo, noi lo imitiamo, Ed esse mi seguono. «Gb 23,11: “Alle sue orme si attiene il mio piede”; e San Pietro ribadisce (1 Pt 2,21): “Cristo patì per noi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme”».

La quarta cosa «è la retribuzione del premio, per cui dice: Io do loro la vita eterna... », premio indefettibile per sua natura: «il godimento incorruttibile e immortale di Dio», e non andranno mai perdute «perché saranno conservate per eternità; Ap 3,12: “Il vincitore lo porrò come una colonna nel tempio del mio Dio, e non ne uscirà mai più”»; e nessuno le rapirà dalla mia mano perché là, «come dice Sant'Agostino, “né il lupo rapisce, né il ladro ruba, né il brigante uccide”».


Infine, la “dignità delle pecore” che nessuno può rapire: infatti, scrive Tommaso, «ciò che è nella mano del Padre mio nessuno può rapirlo; ora, la mano del Padre è identica alla mia; quindi ciò che è nella mia mano nessuno può rapirlo», Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti e nessuno può rapirle dalla mano del Padre mio. Io e il Padre siamo una cosa sola. Per l'unità di essenza: «Identica è infatti la natura del Padre e quella del Figlio», col che per altro «vengono esclusi due errori, quello di Ario, che divideva l'essenza [...] col dire una cosa sola, ti libera da Ario. Se infatti sono una realtà unica, non sono diversi» e il Figlio non è inferiore ma consustanziale al Padre; e «quello di Sabellio, che confondeva le persone [...] Per il fatto poi che dice: siamo, ti libera da Sabellio. Infatti se siamo al plurale, vuol dire che il Padre e il Figlio sono numericamente distinti». Dunque Padre e Figlio «sono unum, una cosa sola senza alcuna aggiunta o specificazione», pertanto «una cosa sola secondo la sostanza o natura [...] Il Signore vuol dimostrare qui che nessuno può rapirgli le pecore dalla mano dal momento che nessuno può rapirle alla mano del Padre. Ora la prova non reggerebbe se il potere del Figlio «fosse minore di quello del Padre. Perciò il Padre e il Figlio sono una cosa sola per natura, onore e potenza».

©2021 Laportastretta(Lc13,24)
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