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F.W. Förster e Johannes Jörgensen

 

      3. La critica agli stereotipi esistenzial-letterari (le “personalità”, le vite d'artista): l’«autenticità» come

      originaria conformità (adaequatio) alla vita trinitaria

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  BIGINI – Prima di occuparcene vediamo però brevemente l'articolo commemorativo per l'inaugurazione del monumento al monaco agostiniano Ulrich Megerle, al secolo Abraham a Sancta Clara, nella sua piccola città natale di Kreenhainstetten (vicino Meßkirch) nell'agosto del 1910. Vissuto nella seconda metà del Seicento, professore di teologia, contemporaneo di Leibniz e testimone diretto – da protagonista – dell'assedio turco alla città di Vienna (1683), Abraham fu eletto dagli antimodernisti della Germania meridionale figura-guida e stella polare nella più recente battaglia contro le infiltrazioni liberali nel cattolicesimo. Di umili origini (messe in mostra da Abraham in una delle sue sentenze più famose: «Chi è nato sotto un tetto di paglia non ha necessariamente paglia nel cranio»), in modo tanto più naturale e spontaneo aveva dovuto far «suo il partito dei miseri e dei poveri». Tuonava contro la smania di spreco dei ricchi, contro l'avidità di guadagno degli «ebrei strozzini», ma allo stesso tempo contro «la superbia spirituale» di chi non riconosce né «si inginocchia più davanti alle dottrine rivelate della Chiesa». Conclude dunque Safranski: «era un cristiano-sociale, popolare, dai modi rudi, credente e pio, ma non bigotto, legato alla terra natia e antisemita: proprio la miscela giusta per gli antimodernisti». Ed ecco l'articolo commemorativo del ventunenne Heidegger: Abraham a Sancta Clara «fu per la città assediata un uomo della Provvidenza come in tempi successivi un Clemens Maria Hofbauer1 e l’indimenticabile Lueger». Due i tratti caratterizzanti, secondo il giovane filosofo, del monaco agostiniano: una competenza, un’erudizione, una capacità retorica non comuni («la scelta accurata delle parole […] il suo umorismo sagace, l’arguzia brillante, la sua ironia spesso caustica condensata in un linguaggio asciutto, pregnante, duttile e malleabile», la «competenza», l’«erudizione teologico scientifica», «la finezza con cui selezionava passi biblici, patristici, scolastici, mistici e profani, armonizzandoli perfettamente con gli altri ingredienti del discorso») e l’amore che Padre Abraham nutriva per il popolo cristiano («la convinta fedeltà per il popolo e l’amore che l’austriaco nutriva per esso […] un popolo sano nell’anima e nel corpo: a questo anelava il predicatore nel suo sincero apostolato»). L'ormai ex seminarista Heidegger vedeva in tale compresenza di preparazione e temperamento, di erudizione e amore, l’origine di un peculiare «effetto magico», dell'efficacia dell’«accento intrepido con cui sferzava ogni esaltazione mondana della vita terrena». Esaltazione mondana che nell’Europa della belle epoque, conoscendo un nuovo exploit e un apparente trionfo, necessitava come mai prima di severe reprimende e calorose ammonizioni. Concludeva allora il giovane filosofo: «Che il nostro tempo aduso all’esteriorità e alla precipitazione impari a guardare avanti retrospettivamente! La foga di rinnovamento che tutto capovolge, la follia con cui si scavalca il contenuto più profondo della vita e dell’arte, il moderno senso di vivere orientato agli stimoli del momento sempre già dissipati, l’aria greve e talvolta soffocante in cui ristagna l’arte di oggi: sono tutti indici di una decadenza, di un triste declino della vita sana, che conosce il valore dell’Aldilà»2.

 

TEOLOGO – Venendo ora ai testi “incriminati”… Il primo è Per mortem ad vitam (Pensieri su La vita. Bugia e verità di Jörgensen) del marzo 1910. In questo, che sembra essere il suo primo scritto in assoluto, Heidegger presenta l’autobiografia dello scrittore Johannes Jörgensen e la sua maturazione dal darwinismo al cattolicesimo. La lucidità, la logica rigorosa e la forza con cui, grazie alla parabola biografica del danese, Heidegger denuncia il problema della “filosofia del soggetto” e della moderna “soggettività”, mostrandone e superandone insieme le contraddizioni, non avrà purtroppo mai più eguali nella sua successiva produzione letteraria. La rinuncia al “se stessi” di una tale soggettività – il “modello del desiderio” girardiano, satanico autore e regista dell'escalation di violenza mimetica detta “tendenza all'estremo” – la fa qui da padrone, non casualmente, fin dall'inizio: «Ai nostri giorni si parla molto di “personalità” [»Persönlichkeit«] [...] La personalità [die Person] dell'artista viene in primo piano, e si parla molto di figure [Menschen] interessanti. O. Wilde, il dandy; P. Verlaine, il “beone geniale”; M. Gorkij, il grande vagabondo; Nietzsche, il superuomo: individui interessanti [interessante Menschen]. E quando poi qualcuno in un momento di grazia si rende conto della grande menzogna della sua vita da zingaro, e abbatte gli altari dei falsi idoli diventando cristiano, ciò viene definito “noioso, nauseante”. Johannes Jörgensen ha compiuto questo passo». Ma non è stato il sensazionalismo, all'inverso di quelli, ad aver guidato il danese alla conversione: «non è stata la voglia di destar scalpore», solo «una profonda, amara serietà» l'ha spinto a «questa poderosa lotta per liberarsi da una filosofia perversa e bugiarda [einer verkehrten lügenhaften Philosophie]», dai luoghi comuni della «libera ricerca e libero pensiero» in cui «onnipotente divenne lo spirito di Nietzsche e di Zola». Una filosofia del soggetto ovviamente, libertaria e dall'indubbio profilo romantico, in cui «la bellezza conquista il cuore dell'artista». Ma di quale bellezza parliamo? In cosa consiste il bello per «coloro che conosceva no un solo comandamento, un solo fine? L'infelice autore di Niels Lyhne3», scrive Heidegger, «ci offre la risposta: “Trovo bello il selvaggio, la natura indomita e indomabile, la ribollente, mai sazia passione dell'uomo rinascimentale”. È il più puro entusiasmo per Cesare Borgia, tipico di Nietzsche. Costoro spargevano incensi agli idoli dell'orrore e del peccato. Sopra i loro altari stavano il vello d'oro, la Fama e la Venere di Babilonia». Questi, rimarca il giovane filosofo cattolico, «erano gli uomini che si erano scrollati di dosso il “soprannaturale”. Ecco i nemici dell'oscurantismo, le grandi “personalità” che vi ho mostrato senza riserva alcuna. Un'ebbrezza la loro vita; spinta sempre più in basso, fino ad amare la morte e la disperazione, e a “chiamare sacra la putrefazione”». Ebbene, uno di questi Übermenschen era stato proprio Jörgensen, ma era come se una notte «pesante come il piombo, senza stelle, la notte della morte» fosse calata su di lui. Scriveva lo stesso Jörgensen: «La mia vita si fece irregolare come quella dei miei compagni – una catena formata da un anello di gioia e dieci di cruccio, uno d'oro e dieci di piombo». Poi l'improvvisa cesura quando, continua Heidegger, «giunse quel mattino in cui Dio dovette soccorrerlo. Una mano forte lo toccò. Vide. Il darwinista si ridestò. Con ferrea coerenza guardò avanti, guardò in alto. La sua critica tagliente, quasi corrosiva gli facilitò il lungo, faticoso sentiero verso la vita». Perché solo la verità, è il sapiente argomento del giovane filosofo, è la premessa maggiore di ogni felicità: «La felicità è possibile solo se si inganna la vita. Avrà ragione Ibsen con questa frase? No», risponde subito perentorio, piuttosto «contraddice una legge biologica fondamentale», ovvero che «la verità deve condurre naturaliter alla felicità, la menzogna alla rovina. Questa è la feconda premessa maggiore […] Le grandi “personalità” che abbiamo visto hanno trovato la felicità? No: disperazione e morte. Guarda quella serie di testimoni che si sono discostati e si sono puntati una rivoltella alla tempia. Dunque tutti costoro non possedevano la verità. Dunque l'individualismo è una falsa norma di vita. Dunque scaccia il volere della carne, le dottrine mondane, del paganesimo». Ecco allora un altro “presupposto biologico” fondamentale: come «la pianta ha bisogno delle sostanze inorganiche» e «l'animale può vivere solo attraverso la morte della pianta», così anche l'uomo santo che è potenzialmente in te dal battesimo ha bisogno della morte dell'uomo peccatore per crescere e svilupparsi: «E se vuoi vivere nello spirito, raggiungere la tua beatitudine, allora muori, uccidi ciò che di inferiore è in te, opera per mezzo della grazia naturale e risorgerai. E così ora quel poeta filosofo, forte nella volontà, lieto nella speranza, riposa all'ombra della croce: un moderno Agostino».

      Il secondo, più breve, è una recensione al volume del pedagogista F.W. Förster, Autorità e libertà. Osservazioni sul problema culturale della Chiesa del maggio dello stesso anno. Heidegger presenta subito lo scenario degli «stridenti contrasti del nostro tempo: da un lato il caparbio fanatismo realistico proprio della concezione naturalistico-socialista della vita, dall'altro la filosofia immanentistica che va costruendo nuovi mondi di pensiero e nuovi valori dell'esistenza». In entrambi i casi non è che l'«esito conclusivo di uno sfrenato autonomismo». Förster si chiede se il moderno individualismo sia capace di risolvere «i profondi problemi della vita morale e religiosa» – la risposta è no – e in second'ordine se sia autorizzato a farlo – la risposta è ancora no; ma è il giovane filosofo a interloquire brillantemente con una constatazione, che insieme è un ammonimento a tal punto lapidario e veritiero che ne rimarrà vittima egli stesso più avanti, quando iniziando la sua filosofia “senza presupposti”, vorrà lasciarla intenzionalmente inascoltata: «Già il semplice fatto piuttosto sconfortante che la maggior parte delle persone, coi soli mezzi propri, non trovi la verità, non voglia cercarla, e preferisca inchiodarla sul la croce, sottrae qualsiasi fondamento alla possibilità di un'etica individualistica. Inoltre, le verità della vita non possono essere costruite scientificamente a priori». Da “sé” l'uomo, in altre parole, non solo non ce la fa, ma nemmeno vuole, in realtà, farcela. Al contrario, «chi raggiunge la libertà dello spirito di fronte al mondo degli istinti troverà la libertà»; persona e personalità possono prosperare solo conservando «un intimo contatto con la ricchissima e profondissima fonte dell'autorità morale e religiosa», ossia con la Chiesa, che da una parte «per sua stessa natura non può rinunciare a una venerabile forma esteriore», dall'altra, «se vorrà restare fedele al suo eterno tesoro di verità, giustamente si opporrà alle influenze devastatrici del modernismo, che non si rende conto del nettissimo contrasto fra le sue moderne concezioni di vita e l'antica sapienza della tradizione cristiana». Chi leggerà Autorità e libertà di Förster ne ricaverà allora secondo Heidegger «una gioia intensa e si renderà conto con sorprendente chiarezza della grande letizia che reca il possesso della verità»; Autorità e libertà è un libro per «chi non mette il piede in fallo e non si lascia blandire dalla ingannevole parvenza dello spirito moderno» e «può vivere la propria vita nello splendore della verità, nel vero, profondo e ben fondato sacrificio di sé». Leggendolo, scrive infine Heidegger, non può che venire «in mente una frase del grande Görres: “Scava più a fondo, e ti troverai sul terreno del cattolicesimo”».

 

BIGINI – Ora Safranski, non senza un pizzico di malizia, nota come «queste invettive» – tutte cattoliche e antimoderniste – contro soggettivismo e relativo “culto della personalità” (Persönlichkeits-kult) non siano del tutto «prive di risentimento, dal momento che egli non può nascondere il fatto di non possedere quella patina blasfema della personalità (jener verlästerte Persönlichkeitsschliff). Questo studente sovvenzionato dalla Chiesa appare piuttosto maldestro nell'ambiente medio-borghese del liceo e dell'università. Le sue apparizioni in ambito extrafilosofico saranno sempre caratterizzate dalla mancanza di sicurezza. Gli rimarrà addosso una certa “aria da gente comune” (Kleine-Leute-Geruch). Ancora negli anni '20 a Marburgo, dove già è il segreto monarca della filosofia in Germania», così almeno riferisce Safranski accreditando una probabile detractio, «certi colleghi e studenti che non lo conoscono lo scambiano addirittura per l'addetto alle caldaie o per l'usciere. Quell'essere “interessanti” contro cui egli polemizza gli manca ancora del tutto. Poiché non ha ancora trovato il proprio ruolo da mettere in scena, evita ogni palcoscenico pubblico […] chiamando con un certo disprezzo “entusiasmo da Cesare Borgia” quelle messe in scena di sé che facevano i giovani nietzscheani nei caffè cittadini»4. E, aggiungiamo, avendolo successivamente trovato, questo “ruolo”, avendo trovato finalmente “se stesso” ed essendo divenuto l'“Heidegger” della dimensione pubblica, si sarebbe in quello stesso momento smarrito, avendo perso il filo della riflessione genuinamente antisoggettivistica, antiintellettualistica e antimodernista, in una parola: cattolica. Trovato l'“io”, per così dire, perso Dio. Safranski coglie qui un'insidiosa analogia, una singolare sovrapposizione, tra quelle che sono e devono restare invece due ben opposte difficoltà. L'una, veramente cattolica, dell'uomo e dell'anima verso Dio, e conseguentemente verso il mondo, l'altra, del tutto pagana, dell'uomo di fronte al “Mondo” e al suo prossimo divinizzati (dal soggettivismo e dal culto della personalità)5; la prima è la feconda difficoltà del duro lavoro, dell'abnegazione e del sacrificio di sé di fronte a Dio e alla verità, la seconda è la difficoltà sempre sterile provocata dall'inesausta ricerca di “sé”, cioè della fama, cioè dell'esserci pubblico (la dimensione pubblica del “Mondo”): «Se egli avverte la “verità” con un'aura di difficoltà, durezza, opposizione, ciò riflette la stessa resistenza che egli avverte là fuori, fra le persone “di mondo”, contro le quali egli deve affermarsi». Quasi che dalla prima e più genuina difficoltà, sembra suggerire Safranski, Heidegger si fosse via via lasciato trascinare verso la seconda, più sterile, della logica del mondo...

 

TEOLOGO – …benché vada senz'altro riconosciuto come il rifiuto della dimensione pubblica, cittadina e più in generale “mondana” – se si eccettua il decennio d'infatuazione compreso tra la prima libera docenza e le famose dimissioni dal rettorato – lo abbia sempre chiaramente contraddistinto: il rifiuto già nel 1933, ad esempio, di un prestigioso incarico all'Università di Berlino per la sua amata “provincia”, la foresta nera e la sua Hütte dove, come noto, fu composto Essere e tempo, ha a che fare proprio col presentimento di quella difficoltà e resistenza – invincibile e impenetrabile se data fra le persone “di mondo” presso le quali egli era stato tentato di affermarsi; evangelicamente “dolce” invece e “leggera” (come il giogo e il carico del Signore6), e pertanto sopportabile, se giocata nell’ambiente domestico e non sradicata della cara e luminosa terra natia. In un testo del 1933 significativamente in titolato Paesaggio creativo: perché restiamo in provincia?, Heidegger descrive il proprio lavoro filosofico come «dello stesso tipo» (von derselben Art) del la voro dei contadini. Per lui si tratta a tutti gli effetti dell'«intima coappartenenza del proprio lavoro alla Selva Nera e alla sua gente», che «proviene da un secolare e insostituibile radicamento al suolo svevo-alemanno». Là dove «il cittadino si sente tutt'al più “stimolato” dalla cosiddetta villeggiattura in campagna, tutto il mio lavoro invece è sostenuto e guidato», scrive il filosofo, «dal mondo di queste montagne e dei suoi contadini». Ma non esattamente in senso metaforico, infatti, prosegue, «non appena ritorno lassù, sin dalle prime ore di permanenza nella baita si fa pressante intorno a me l'intero universo di antiche domande, e invero proprio nel modo in cui l'avevo lasciato. Vengo letteralmente trasportato nel peculiare andamento del mio lavoro, senza avere nessun controllo sulla legge nascosta che lo guida (corsivo nostro)». Heidegger scorge in questo suo radicarsi nella terra natia la precisa differenza tra isolamento e solitudine: «Nelle grandi città è facile essere isolati come in nessun altro luogo, ma non si potrà mai esservi in solitudine» poi ché la solitudine «possiede una forza primigenia: quella non di isolare, bensì di scatenare l'intera esistenza nell'ampia prossimità delle cose. Là fuori ci vuol poco per diventare in un batter d'occhio una “celebrità” su giornali e riviste», ma questa è la via più sicura ai «fraintendimenti» e alla caduta nell'«oblio». Di tutt'altro segno, «la memoria contadina ha invece una sua semplice, sicura e tenace fedeltà»7. E ancora, nella sua brevissima recensione a un altro testo di Jörgensen, Libro di viaggio, Heidegger sembra esprimere in questa “lirica apologia del senso di sicurezza nella cattolica terra natia”8 la sua più genuina impronta letteraria e spiriturale: «Egli [Jörgensen] vede nelle antiche città tedesche gli ombrosi bovindi, le trasognate effigi della Madonna agli angoli delle case, sente nel sonno il gorgogliare delle fontane, tende l'orecchio ai malinconici canti popolari. Sui suoi libri aleggia il sentore di una serata di giugno qui in Germania, che si spegne in un silenzio di sogno. L'anelito del convertito in cerca di Dio, che trova la terra natia, dovette essere il fermento potente della sua arte»9.

Note

1. Sacerdote della Congregazione del Santissimo Redentore autore della diffusione dei Redentoristi in Austria e Polonia, proclamato santo e patrono della città di Vienna da papa San Pio X.

 

2. M. HEIDEGGER, Denkerfahrungen – Aus der Erfahrung des Denkens (Band 13), tr. it. Dall'esperienza del pensiero 1910-1976, Il melangolo, Genova 2011, pp. 7-9.

3. Il, poco prima citato, «maggiore ateista danese J.P. Jacobsen, la cui miserabile esistenza lo condusse alla morte per stanchezza della vita, non già per malattia».

 

4. R. SAFRANSKI, Op. Cit., pp. 34-35. 

 

5. Il primo è il cristologico sacrificio di sé che “non cade mai in fallo”, cioè che non si “scandalizza”; il secondo invece è, tutt'al contrario, l'inesausta ricerca dell'ostacolo e il relativo, sistematico, fallimento.

6. Matteo 11,30. 

 

7. M. HEIDEGGER, Paesaggio creativo: perché restiamo in provincia in Dall'esperienza del pensiero 1910 -1976, Il nuovo melangolo, Genova 2011, p. 13.

8. R. SAFRANSKI, Op. Cit., p. 35.

9M. HEIDEGGER, Discorsi e altre testimonianze del cammino di una vita. 1910-1976, p. 15.

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