Essere (e tempo) cristiani
La proposta del prof. Lugaresi nel suo ultimo libro Vivere da cristiani in un mondo non cristiano
Pubblichiamo la parziale trascrizione della presentazione del libro Vivere da cristiani in un mondo non cristiano del professor Leonardo Lugaresi e pubblicata sul canale youtube all'indirizzo https://www.youtube.com/watch?v=Tvd70DHl3yQ. La proposta del prof. Lugaresi è particolarmente interessante per il cattolico odierno e ci chiede attenzione su due questioni:
1) lo statuto onto-storico del cristiano, il suo situarsi storicamente nel tempo e tuttavia insieme anche a-storicamente – nell'osservanza dell'«os mé» paolino, il vivere "come se non" si avesse moglie, si piangesse ecc, perché il tempo si è fatto "breve" – per così dire, nell'eternità, approssimandoci e imitando già qui e ora il più possibile la condizione di eterna presenza (il nunc stans) di Dio, a cui tutto è unicamente presente – in una sorta di Essere (e tempo) cristiani;
2) la spinosa ma indispensabile questione del giudizio (Krisis, che non è affatto condanna) e del suo retto uso (tutti vogliamo essere "giudicati bene"), che solo può dislocarci nella grazia di questa eterna presenza (o pregustazione), già da qui e ora...
Buona lettura.


Quel che propongo è una prospettiva totalmente diversa, quella di considerarci “primi cristiani”, non “i” primi, ma “primi” cristiani. In che senso? Nel senso che il cristianesimo è sempre iniziale. Un grande teologo cattolico del XIX sec., che ha contato molto nella formazione di don Giussani, Johann Adam Möhler, diceva che il tempo della Chiesa è il Presente: «la Chiesa non conosce il passato mentre il futuro perde per lei il suo significato. Tutto si risolve per lei in un perpetuo presente». Che cosa vuol dire? C'è una ragione teologica molto profonda.
Cosa vuol dire che il cristianesimo è un avvenimento, come ci siamo sentiti ripetere un milione di volte – senza mai davvero averlo capito – da don Giussani? Av-venimento è qualcosa che “viene da fuori”, che prima non c'era e adesso c'è, inspiegabile con ciò che c'era prima e dunque radicalmente nuovo. Cos'è questo “da fuori” da cui viene l'avvenimento? È qualcosa che viene da Dio, dalla vita intra-divina, il rapporto d'amore Padre-Figlio-Spirito Santo. Ma noi sappiamo che Dio non è dentro il tempo, non ne è prigioniero come noi, il tempo è una cosa creata, noi che invece siamo nel tempo e non siamo capaci di pensare l'eternità. Il modo meno imperfetto, per noi, di pensarla è un eterno presente. Perché c'è solo il presente in Dio. Quando Dio crea il mondo? Ora. Quando Adamo ed Eva non corrispondono al suo amore e danno retta al serpente? Ora. Quando chiama Abramo, Mosè, i profeti? Ora. Quando avviene l'annuncio a Maria? Ora. Se quando noi diciamo l'Angelus pensassimo al fatto che in un senso vero, reale, quella cosa sta avvenendo ora – perché in Dio non c'è il tempo – l'intensità con cui lo diciamo si moltiplicherebbe. Dunque il cristianesimo comincia continuamente, ogni attimo, ogni mattina, comincia quando sono stato battezzato, quando ho preso coscienza del mio battesimo... Allora il cristianesimo è iniziale e noi siamo “primi cristiani” e non gli ultimi. Primi e non “i” primi. Il che non implica che non esistano la storia e la tradizione. Perché Dio che mi parla ora, non ha parlato a me per primo, ma prima che a me ha parlato a tanti e anzi parla a me attraverso le parole di quei tanti che hanno creduto a Lui, gli hanno risposto e mi hanno trasmesso la fede e questa è la Tradizione. Quindi la parola di Dio mi raggiunge – idea che si trova in Ratzinger – carica di tutte le risposte che ha avuto nel corso dei secoli. Dio parla ma non parla a me direttamente come se non avesse parlato a nessun altro, questo ci condurrebbe al protestantesimo (sola scriptura), ma è sempre carica di tutte le risposte. Andiamoci piano a cambiare le parole della tradizione, o quelle della liturgia, perché quelle parole sono state pregate, io preferisco continuare a usare la formula che è stata quasi “consumata” dai tanti che l'hanno ripetuta piuttosto che inventarne una nuova col pretesto che sarebbe più aggiornata. Quindi la tradizione in senso cattolico non è un deposito del passato ma è una relazione vitale. Perché ci dobbiamo interessare dei primi cristiani, come di tutti quelli che ci hanno preceduto? Perché in Cristo la loro esperienza è ancora vivente, per me, oggi. È un rapporto vitale che non ha nulla a che vedere con un ripiegamento sul passato. C'è un passo degli atti degli Apostoli che io amo moltissimo, è il 25,19, c'è un magistrato romano che si chiama Porcio festo, che doveva essere un uomo intelligentissimo, un funzionario di prim'ordine come l'impero romano aveva, San Paolo è sotto processo, fatto prigioniero a Gerusalemme e si è appellato all'imperatore, è negli ingranaggi di un procedimento penale. A un certo punto Porcio Festo che ce l'ha in custodia Cesarea parla del caso di Paolo al re Agrippa e gli dice queste parole, mi han mandato questo qui e io pensavo che avessero delle questioni giuridicamente rilevanti, invece “avevano solo con lui alcune questioni relative la loro particolare religione e riguardanti un certo Gesù Cristo, morto, che Paolo sosteneva essere ancora in vita”. Guardate che l'essenza del cristianesimo non si può dire meglio, quest'uomo aveva capito tutto alla sua maniera. Cosa vuol dire essere cristiani? Vuol dire credere che un tizio vissuto duemila anni fa è vivo. Follia. Tant'è vero che la dementia è una delle accuse che i pagani dei primi secoli facevano ai cristiani, questi sono scemi, sono matti. Il fatto che adesso a noi oggi ce ne dicano di ogni, ma non che siamo matti non depone molto a nostro favore. Il libro propone questo cambio di prospettiva: siamo primi cristiani esattamente come erano primi cristiani allora, ma noi siamo primi cristiani sulla scorta della tradizione che ci viene da loro.
Poi, i primi cristiani hanno qualcosa di eccezionalmente rilevante da dirci, di eccezionalmente pertinente al nostro presente a causa della loro particolare situazione nel mondo, che assomiglia a quella in cui siamo tornati – e qui vorrei introdurre un'altra categoria che si collega strettamente a quella dell'inizialità, la categoria di sproporzione. Avete presente il passo del Vangelo in cui Gesù dice: “voi siete il sale della terra”, noi giustamente, quando lo leggiamo, ci immaginiamo il volto di Gesù, lo immaginiamo guardando Gesù, e anche quelli che lo ascoltarono saranno stati presi dal volto di Gesù e dalla sua personalità affascinante e straordinaria, ma provate a girarvi e guardate a chi lo dice. A chi dice una cosa stratosferica, improbabile, voi siete il sale della terra e la luce del mondo? Lo dice a un gruppetto di gente da poco, pescatori della Galilea, quattro gatti, provate a immaginare se foste voi, se qualcuno vi dicesse che voi siete il senso del mondo, il significato di tutta la realtà. C'è una sproporzione quasi comica, quasi ridicola, quasi grottesca. E loro magari non ci avranno pensato sul momento, ma andate a quello che succede dopo, quando Gesù ascende al Cielo e i primi cristiani sono messi come noi, con questo mandato, con questo compito “sarete miei testimoni a Gerusalemme, nella Giudea, nella Samaria, fino agli estremi confini della terra” (Atti 1,8). e si guardano attorno e sono quattro gatti. Quanti erano i cristiani delle origini? Una domanda che gli storici non amano che venga posta, perché le fonti ci dicono pochissimo. Quanti erano nel I, nel II, nel III secolo? Non possiamo dare risposte certe ma possiamo fare delle ragionevoli congetture. C'è un grande sociologo delle religioni americano, Rodney Stark, che fa delle ipotesi abbastanza attendibili. La maggior parte degli storici è d'accordo nel ritenere che all'inizio del IV secolo, quando Costantino fa la cosiddetta svolta costantiniana, cioè sceglie il cristianesimo come fondamento culturale del suo progetto di rifondazione dell'impero – siamo nei primi anni del IV secolo, il 313, il cosiddetto Editto di Milano – gli storici pensano che i cristiani fossero il 10-15% della popolazione dell'impero romano. L'impero romano a quell'epoca poteva avere all'incirca 60 milioni di abitanti, i cristiani potevano essere all'incirca 6 milioni. Se questo era l'ordine di grandezza all'inizio del IV secolo, cent'anni prima, duecento anni prima, voi dovete ridurre di un bel po', quindi dovete pensare che intorno alla fine del I secolo, quando già gran parte degli scritti del Nuovo Testamento sono stati composti, i cristiani dovevano essere poche migliaia. Poche migliaia su 60 milioni di individui che non sanno niente di Gesù Cristo. Questa radicale sproporzione è un aspetto che nei secoli successivi – secoli cosiddetti della Cristianità, quando il cristianesimo invece è diventato maggioritario, è diventato forte, ha impregnato di sé le istituzioni, le strutture ecc – abbiamo un po' perso. È rimasto il senso della sproporzione come fatto individuale (“io sono inadeguato, io sono peccatore, io ho bisogno continuo della grazia di Dio o non sarei capace di fare quello che Dio mi chiede”), ma l'abbiamo un po' perso sul piano collettivo, sul piano ecclesiale, perché la Chiesa era grande forte possente occupava tutti gli spazi della vita civile: ecco, tutto questo è finito. E quindi adesso anche la Chiesa è tornata a misurarsi con questa radicale sproporzione.
Cos'hanno fatto i primi cristiani? Hanno fatto una cosa che io non credo abbia paralleli nella storia. Un gruppo minoritario in genere fa una di queste due o tre cose: la prima è assimilarsi, tu sei un piccolo gruppo minoritario che vive immerso come in un brodo di cultura in cui tutti gli altri pensano e agiscono in modo diverso da te, pian piano ti assimili per una pressione osmotica (così ad esempio è avvenuto per l'ebraismo nell'Ottocento in Europa, dopo che è finito il regime della discriminazione, aboliti i ghetti ecc, per cui essere ebrei significava solo conservare alcuni riferimenti religiosi). I primi cristiani non hanno fatto questo; la seconda cosa è l'arroccamento identitario, marcando fortemente le differenze e mettendosi in posizione di difesa (una parte di Islam in Europa, quello delle seconde e terze generazioni che si radicalizzano rispetto ai genitori); una terza forma è separarsi, noi siamo diversi e ci facciamo un mondo a parte (tipo gli Amish). Ecco i cristiani non hanno fatto nessuna di queste tre cose. Non si sono assimilati, non si sono arroccati e non si sono separati (anche il monachesimo, in realtà non è una separazione dal mondo), hanno fatto un'altra cosa, espressa dalle parole krisis (giudizio) e chrêsis (retto uso): sono entrati in un rapporto di dialogo, di interlocuzione molto profonda con il mondo circostante e però hanno concepito questo dialogo come una forma di giudizio che ha preso queste due articolazioni. Krisis, che dice generalmente della rottura di un equilibrio, la destabilizzazione che porta a un'emergenza, l'attimo prima del crollo e del disastro, viene in realtà dal verbo krino, distinguo, separo, è il giudizio che separa [in base appunto a un “criterio”, ndc] però, attenzione, krisis è il giudizio che per distinguere entra cioè richiede di coinvolgersi con la materia l'argomento la persona su cui io esercito la krisis e nel coinvolgermi con l'altro io devo attivare una riflessività – cioè il giudizio è sempre riflessivo – se io giudico non dall'esterno ma coinvolgendomi in una relazione con l'altro, se io entro in qualche modo nel mondo dell'altro, io necessariamente concepisco anche me stesso in relazione all'altro, la krisis è sempre anche un giudizio su noi stessi, anche auto-krisis, un “auto-giudizio”. Qual è la funzione della krisis? Tess 5,21: "Vagliate tutto e tenete ciò che è buono", cioè coerente e compatibile con la verità e la bellezza che interamente si trovano solo in Cristo. La valorizzazione dell'altro che la krisis comporta.
Il giudizio è una valorizzazione esigente.
Noi abbiamo sempre quest'idea che giudicare sia una brutta parola. Giudicare è [invece] la parola più bella che ci sia. Tutti veniamo al mondo e cresciamo con un grande desiderio di essere approvati, ma l'approvazione che cos'è se non un giudizio [esser giudicati bene, ndc], è la condanna che non ci piace, è la condanna che ci fa paura, ma tutti vogliamo essere giudicati [bene, ndc]. Il bambino che va dall'adulto vuole sempre un'approvazione [esser giudicato bene, ndc] e non un'approvazione finta, così come l'alunno di fronte all'insegnante che regala i voti non gli sta bene e non gli piace, l'insegnante che non giudica o che giudica fintamente non piace, e non piace [in verità] a nessuno perché noi abbiamo un profondo bisogno di essere giudicati. Perché il giudizio è una valorizzazione. Ma è una valorizzazione esigente, perché l'altra parola greca chrêsis («retto uso») cosa vuol dire? I padri della Chiesa commentavano un passo dell'Esodo in cui si dice che gli ebrei quando scappando dall'Egitto fregando agli egiziani il vasellame prezioso che si erano fatti prestare, fecero bene perché destinarono questi oggetti a un miglior uso, fonderanno questi oggetti d'oro e d'argento per il loro culto divino. Cioè, quando il cristiano valorizza il bene che trova nell'altro non si limita a dire “vai bene così come sei” [ma lo approva per prepararlo a una destinazione più alta, ndc]. Quindi quando il cristiano [entrando nel dialogo con l'altro, ndc] valorizza il bene che vi trova, non si limita a dirgli "vai bene così come sei" (nessuno va bene così com'è), ma ha la pretesa di dirgli “c'è una verità più grande, che tu non conosci, anche nella tua posizione”. Di fronte a questa pretesa, o l'altro accetta questa reciproca krisis, di stare a questo gioco, oppure non la prende bene. Se i cristiani si fossero separati, o anche solo arroccati, l'ostilità sarebbe stata minore.