- Roberto Bigini
- 6 apr
- Tempo di lettura: 5 min

Da diversi decenni la questione dei Santi all'interno della predicazione della Chiesa (non parliamo di quella dei mistici) sembra essere passata in secondo piano, per non dire quasi del tutto (e volontariamente) cassata, tutt'al più relegata a una dimensione puramente museale o storiografica e, come ogni “classico” che si rispetti, ridimensionata ad argomento di sola conversazione tra “specialisti” del settore. Niente, cioè, di vivo e palpitante ora nel Corpo Mistico, ma qualcosa, al massimo, di storicamente avvenuto, dunque di morto. E più volentieri avvenuto nel pensiero e nella “coscienza storica”, cioè più nell'interpretazione che non nella realtà dei fatti (di carne e sangue) che il cattolicesimo debole tende nietzscheanamente a sminuire. Dunque, in questa lenta ma implacabile rotazione dell'asse del Trascendente nell'immanente, ecco l'apparizione del sosia, il “Santo della porta accanto”, come ha ben visto Cristina Siccardi.
Ma questa sorta di allergia ai Santi e alla santità – allergia che certamente è un prodotto della secolarizzazione, del trionfo dello spirito della modernità, della comoda società della tecnica vissuta come la distruttrice di ogni fede nel Trascendente – vista più da vicino sembra rivelarsi purtroppo come un’allergia, direttamente, al Signore come segno di contraddizione. Parole Sue, queste ultime, pronunciate per bocca del profeta Simeone e da non prendere, come siamo soliti fare, tanto alla leggera: alla lettera, il Signore “è posto […] come un segno che parla-contro” (εἰς σημεῖον ἀντι-λεγόμενον). E contro chi altri, se non contro tutti noi? È un problema più vasto che interpella da sempre la coscienza cristiana e che passa proprio dal nostro rapporto con il Signore, che, sì, ci ama, ci salva e ci indica l'autentica destinazione, eppure anche “ci contraddice”, ci “parla contro”. Il Signore infatti ci mette, e non può non metterci con la sua stessa “semplice presenza” se viviamo davanti a lui, in cattiva luce (rivelando le ombre che oscurano la nostra anima), ossia in contraddizione con Lui o se si vuole con la nostra unione ipostatica con Lui, con la nostra vita perfetta – santa – come da Lui stesso pensata per noi dall'eternità e per l'eternità (la nostra “forma eterna”).
Come potrebbe del resto non apparirci problematica la vita se – anche solo per un attimo, con gli occhi dell’anima disincarnata – potessimo vedere il Signore vivo e vero, sempre costantemente presente a fianco a noi? Come potremmo non trovarci in imbarazzo, continuare a parlare, agire e pensare come siamo soliti fare, se dovessimo considerare che in ogni istante della nostra vita, attraverso l’Angelo custode che ci ha messo a fianco, il Signore è sempre pazientemente lì, di fianco a noi, a compiacersi ma molto più spesso a dispiacersi dei suoi figli?
Più banalmente, chi vive davvero davanti al Signore è posto continuamente in una santa contraddizione con Lui che ha la forma di un “appello”, che risuona nella coscienza. Questa posizione ovviamente può rimanerci indifferente – non interpellarci in alcun modo – se questo rapporto, quest'invisibile incontro con Lui è stato in qualche modo disinnescato e dislocato altrove, nella coscienza che ha già rinunciato al Trascendente per l'immanente, alla vera vita dello spirito per quella della carne o comunque per una vita tiepida, puramente formale e farisaica. Ciò accade quando il Signore, così si sente dire spesso rispetto al sacramento della Confessione, non ci fa gran problema: “io non ho mai peccati da confessare”, oppure “non so mai cosa confessare… rubare non ho rubato, ammazzare non ho ammazzato...” e come il pubblicano della parabola ci sentiamo giusti (abbiamo fatto tutti i compiti!) e ringraziamo il Signore di non averci fatto come quel pubblicano disgraziato che, come "il perdente" che è, pensiamo, si batte inutilmente il petto, dimenticandoci che fu proprio quest'ultimo ad andarsene giustificato. Perché il buono-buono, come ha detto padre Giuseppe Barzaghi, agli occhi di Dio non esiste. Il buono, agli occhi di Dio, è sempre un convertito, un cattivo che è diventato buono (e che resta pursempre in via...), è il peccatore convertito. Ancora, Padre Pio diceva che il penitente dispiaciuto dei suoi peccati è più vicino a Dio dell'uomo che si vanta delle proprie opere.
Dunque tutti santi e che non sanno nemmeno di esserlo? O piuttosto quando il Signore non fa problema è segno certo che non siamo in rapporto con Lui, e questo è il problema di tutti i problemi? Quello di un’estraneità, assieme al peccato, non più avvertiti nemmeno come tali? Nemmeno i Santi, che di certo hanno vissuto la loro vita di fronte al Signore, hanno mai sperimentato una pura e semplice assenza di problemi. È sempre stato vero il contrario. E questo perché la vita di fede è sempre intrinsecamente problematica, sempre massimamente in “pericolo” e in qualche modo a un passo dallo “scacco”, sempre tentata dalla disperazione lungo i deserti e le notti che non sembrano mai finire. L'incontro con il Signore – quando riusciamo a udire la voce della sua chiamata – ci pone inevitabilmente di fronte all'accettazione di quella che padre Giovanni Cavalcoli ha chiamato una “misurata instabilità”, misurata perché accompagnata e corretta via via con gli strumenti della Grazia (la Confessione, la Comunione, la preghiera...), instabilità perché il nostro rapporto con il Signore, finché restiamo sulla terra, è posto dentro l'insuperabile mutevolezza e problematicità degli eventi che si danno nel tempo.
È risaputo ad esempio che Padre Pio si confessasse di frequente, più delle due volte settimanali previste dalla regola e approfittando, per la confessione, di quasi ogni prete che si trovava a passare da S. Giovanni Rotondo. Questi gli dicevano di non trovare, in quanto diceva il Santo, "alcuna materia di confessione. Questi non sono peccati". Ma Padre Pio rispondeva loro che "Gesù sapeva, e lo sapevo bene anche io, che in quella determinata circostanza potevo fare di più e meglio" perché, ecco il punto, "la confessione seve a migliorarci". Ad abitare con equilibrio e buona volontà questa santa e provvidenziale contra-dizione col Signore senza la quale saremmo perduti. Perché, se anche mantenendoci a distanza da Lui possiamo apparire giusti e perfetti agli occhi degli uomini, gli uomini non ci salveranno. Ed entrare e rimanere nella zona di contra-dizione e di pericolo, cioè al Suo cospetto, costa fatica, è uno sforzo e un farsi violenza che consegue degli effetti, da un punto di vista soggettivo, paradossalmente negativi: "È un fatto psicologico", scriveva il ven. Fulton J. Sheen, "che più noi serviamo il Corpo Mistico di Cristo, maggiore è lo scontento di noi stessi; più ci avviciniamo a Lui, più ci convinciamo di non saper far niente…" e viceversa, "più ci allontaniamo dall’ideale Divino più vantiamo le nostre perfezioni. Ma più ci avviciniamo a Cristo e più distinguiamo le nostre imperfezioni. Questo è il nostro tormento. Nessuno si sente sicuro della propria innocenza di fronte alla Purezza Assoluta, ma tutti chiedono con gli apostoli: “Sono forse io Signore? Sono io?”, cioè il traditore che non vive di fronte a Lui.
Più di due secoli fa, un poeta che "stava pensando di farsi cattolico" ma fu raggiunto prima dalla follia, Friedrich Hölderlin, aveva compreso poeticamente l'importanza di questa zona di confine, quando nel suo Inno intitolato Patmo scriveva che solo "dove cresce il pericolo", cioè per noi vivendo al cospetto del Signore, "cresce anche ciò che salva", ossia i meriti e il tesoro di misericordia accumulati qui per la vita eterna.
Vicino
e difficile da afferrare è il Dio.
Ma dove cresce il pericolo, cresce
anche ciò che salva
(Patmo)