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Se dobbiamo credere alle rivelazioni mistiche di Natuzza Evolo per cui il sommo poeta Dante, per aver messo Papa Bonifacio VIII all’inferno nella sua Commedia, dovette scontare ben 300 anni di purgatorio (100, si potrebbe pensare, per ogni Persona della Trinità offesa)1, c'è da stare assai poco allegri per il clima "giustizialista" e persecutorio che nell'ultimo decennio sembra aver contagiato anche il popolo cattolico, complice la facilità di esposizione a cui i mezzi di comunicazione di massa, social in testa, ci hanno ormai abituato, disabituandoci così alla riflessione. "Presto dentro presto fuori", da motto di un celebre scrittore di racconti, sembra esser diventato il criterio di questi volenterosi avventurieri dell'identità digitale, che abbandonata ogni cristiana prudenza (abbiamo un'anima e un corpo da salvare), han fatto del numero di "impressioni" e del proprio livello di "popolarità" il Verbo, cercando, nella "conservazione-accrescimento" del proprio Io Digitale, di piacere più al mondo che a Dio. Va da sé infatti - in generale - che colpisce, attira e "piace" maggiormente una soggettività tutta engagé nella vita "attiva" che si manifesta, si distingue e si costituisce nel giudizio tranchant, che non quella "oblata", separata, orientata alla vita contemplativa e tutta raccolta nella riflessività, nella pensosità, in un'apparente immobilità. E cosa c'è di più engagé, interessante e tenebrosamente affascinante di un credente cattolico che, scandalizzato da un Papa controverso quanto si vuole, ma canonicamente legittimo, si fa iudex della prima Sedes facendosi egli stesso Dio, dato che solo Dio è - e può essere - al di sopra del suo Vicario in terra?2 Incorrendo così, per altro, nella scomunica latae sententiae?

Ma se il Signore ci ha comandato di non condannare (Misericordia io voglio e non sacrifici, Mt 9,13) – né Lui né il suo vicario né nessun'altro – non ci ha affatto sollevato dal pensare, dal "misurare", da quel retto giudicare il mondo senza il quale ci perderemmo (in quanto Logos, il Figlio è proprio Ragione e Giudizio, e anche di questo noi siamo immagine); al contrario ci ha comandato di farlo e anche con scaltrezza, imitando la "furbizia" dei figli di questo mondo, opportunamente ri-orientata al Cielo e al Regno di Dio3. In breve, si tratta di esercitare il giudizio secondo Dio e non quello di Dio stesso (a noi inattingibile ed esercitabile solo da Lui e, in subordine, dal magistero ex cathedra del Papa). Esercitare quest’ultimo non essendo il Papa, né evidentemente Dio, in una pretesa auto-sufficienza divina, è l’essenza stessa della disubbidienza. Piacerà agli uomini, ma non piace a Dio.

È una disobbedienza bicipite, che si nutre in un caso della superbia di "aver capito tutto e in forma definitiva", pensando di poter liquidare e riscrivere a piacere un magistero bimillenario (testa modernista), nell’altro caso si nutre di un’impazienza e di una latente disperazione, in definitiva di un sentimento di abbandono della Chiesa (nella tempesta) da parte di Dio (che apparentemente dorme) tale che questi cattolici troppo zelanti si ritengono autorizzati a "fare da sé". La risposta del Signore alle lamentele di questi ultimi - “Signore, non t’importa che periamo?” - rieccheggia da millenni inascoltata come un’amara diagnosi: "Non avete fede". Volete mettervi davanti a Me.

Dunque, per quanto si percepisca come forte – che sia per la Tradizione che crede di difendere con le unghie e con i denti, o per il Dio tutto Amore e niente Giudizio (senza croce) che va imposto a forza a ogni fedele – la sua resta una posizione debole, è sì un supersoggetto, poiché scavalca (super) continuamente Dio prendendone il posto (di fatto è una volontà di potenza, una volontà di volontà, una volontà che vuole solo se stessa), ma è debole perché – rifiutando le “strutture forti” dell’essere (le leggi naturali, proibizioni morali ecc) o rivendicandole in un’ottica rivalitaria contro il Pontefice di turno – ricasca nella sua stessa finitezza priva di redenzione, nel nulla di sé. Di qui l’indispensabile ricerca dell’agone pubblico che ne certifichi lo statuto e la venuta all’essere, giacché staziona e si muove costantemente nel niente.


Ora, come l’oltreuomo nietzscheano aveva il compito di portare a compimento la “trasvalutazione di tutti valori” con la sua volontà di potenza, così il supersoggetto, munito del suo supergiudizio, ha il compito di portare a compimento la madre di tutte le transizioni e rivoluzioni – dopo, tra le più recenti, quella energetica e sanitaria/digitale (transumanista) – l'ultima cronologicamente in cantiere, anche se logicamente antecedente, quella spirituale. Come abbiamo già accennato, la ricchezza e la creatività dell'invenzione diabolica ce ne propone due declinazioni, come spesso le capita, dialetticamente opposte: quella cosiddetta modernista, cioè un cattolicesimo adulto ed edonista, piena di un malinteso auto-compiacimento intellettuale e beato, ma solo di questa strana infinità amorosa e indifferenziata di cui si è fatto evangelizzatore, se non rieducatore (un cattolicesimo tanto "debole" di contenuti quanto forte e spietato nella sua imposizione ai fedeli come paradigma unico); e quella cosiddetta tradizionalista di coloro che gli si oppongono sul loro stesso terreno, scavalcando Dio nella contestazione della Sede petrina.

La prima, liquidando il Dio che sarebbe infinitamente di più e d'altro rispetto alle proibizioni del Vecchio Testamento (dimenticando che è stato il Signore stesso, nel Nuovo, a mettere in guardia circa il passaggio ultimo, nient’affatto scontato, dalla "porta stretta"), è tutta ripiegata su un malinteso concetto di amore (una strana misericordia che abolisce il concetto di giustizia trasformando Dio, di fatto, in un Dio ingiusto, che non punendo i cattivi, finisce per far torto ai buoni); viene qui in aiuto il pensiero di Gianni Vattimo, riavvicinatosi nell’ultimo periodo a questo cattolicesimo “debole”, che in un convegno con René Girard, alcuni anni fa, ebbe a dire: «"Solo un Dio ci potrà salvare" diceva Heidegger. Ma quale Dio? Il Dio della teologia naturale, delle leggi fisse, dei limiti insuperabili? Il Dio giudice che dovrebbe godere quando sarò all’inferno perché sono stato un po’ porcellone?», un Dio, cioè, secondo Vattimo, che dopo aver dato dei limiti all’agire umano (il “tu devi, non devi” del Decalogo per arginare lo scatenarsi della violenza su una vittima), adesso li toglierebbe perché la Buona Novella sarebbe stata ormai interiorizzata e l’uomo, per così dire, definitivamente immunizzato, qui, sulla terra, dal Male? Vattimo sembra crederlo e, un po’ scandalizzato, aggiunge: «Ma credete davvero a questo? Ma se questo è Dio, tenetevelo! Questo è proprio il dio che Gesù ha voluto smentire quando ha detto: "Non vi considero servi ma amici"; "Sarete con me nel mio regno"». Vattimo tuttavia dimentica di leggere la condizione di quest'amicizia: «"Voi siete miei amici se fate ciò che io vi comando"» (Gv 15,14), cioè se osservate i comandamenti del Padre mio; e la promessa di essere con lui nel suo regno non è data affatto da una specie di automatismo storico-progressivista, non è cioè indistintamente per tutti, bensì per tutti coloro che gli obbediscono, poiché «molti, vi dico, cercheranno di entrare per la porta stretta, ma non ci riusciranno»; ai più che si ostineranno a bussare il Signore dichiarerà non solo di non conoscerli: «Non vi conosco, non so di dove siete [...] Allontanatevi da me voi tutti operatori d'iniquità!», ma anche che il luogo adatto alla loro condotta iniqua non è il suo regno ma «Là [dove] ci sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio e voi cacciati fuori. Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. Ed ecco, ci sono alcuni tra gli ultimi che saranno primi e alcuni tra i primi che saranno ultimi» (Lc 13,24-30). Voi, cioè, che cacciate il Logos dell'amore in favore di un Logos della violenza travestito da amore, sarete dal vostro stesso giudizio espulsi dalla vita eterna in Paradiso.

La seconda che intende unicamente darle battaglia sul terreno di una soggettività opposta ma speculare, di nuovo, sul terreno assai poco santo della disobbedienza a Dio e della rivalità indomita di un Io che, nonostante le sue pur buone ragioni, non lascia fare a Dio. Ci si chiede se si può essere legati alla Tradizione di sempre ed essere insieme (divenuti) protestanti? I protestanti della Tradizione? Sì, lo ha già spiegato egregiamente don Alberto Secci, e ci vuol poco. Basta premettere alla fede una certo istinto rivalitario e superbo e il gioco è fatto. Lefebvre & Company sono lì a dimostrarlo, inconsapevoli strumenti dell’ultima, e forse più tenebrosa e confusa di tutte, transizione spirituale.



note


1. «Dante Alighieri le disse di aver dovuto scontare ben “trecento anni di Purgatorio” per aver giudicato le persone nella Divina Commedia in base alle sue simpatie e convinzioni politiche, senza alcuno spirito di carità e amore cristiano» (cfr. L. Regolo, Natuzza Evolo. Il miracolo di una vita, Mondadori, 2010).

2. Infatti se si ammettesse una qualunque eccezione al principio per cui “la prima Sede non è giudicata da nessuno” (Prima Sedes a nemine iudicatur) allora la Sede petrina non sarebbe più la ‘prima’ ma la ‘seconda’, ciò che è evidentemente assurdo.

3. Nella strana parabola in cui il Signore sembra lodare un amministratore disonesto “I figli di questo mondo verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce” (Lc 16,1-13). Difendere il proprio interesse, che è di salvarci e andare in Paradiso, con le "ricchezze ingiuste" (de mammona iniquitatis) perché le ricchezze di questo mondo hanno anche a che fare con l’ingiustizia.








III


Come fare per essere perdonato?


Lutero invece sentiva supremamente un bisogno irrefrenabile di certezza [certitudo, termine della filosofia moderna, più esattamente cartesiano, afferente a un altro luogo del pensiero, appunto quello del Cogito, ndc] di essere perdonato, di essere gradito a Dio, di certezza di sapere che i suoi peccati erano perdonati, un bisogno di sentire la tenerezza di Dio, un desiderio certamente nobile e segno di un’anima religiosa; una prospettiva giusta ma in fin dei conti insufficiente, perché rischia di spingere il soggetto a ripiegarsi su se stesso [appunto, ndc] con la conseguenza di abbracciare proprio quel pelagianesimo che, al seguito di Agostino, volle combattere per tutta la vita, cadendo anzi nell’eccesso opposto di sottovalutare l’apporto del libero arbitrio e della ragione. Eppure egli, da buon occamista, non si accorse di lasciarsi sedurre dal pelagianesimo di Ockham, il quale aveva concepito il soprannaturale non come necessario alla figliolanza divina, ma come semplice volontà di Dio, il quale, se avesse voluto, poteva accordarci visione beatifica anche senza la grazia.

Lutero non sposò questa tesi di Ockham, ed anzi abbassò anche troppo la debolezza della natura corrotta rispetto alla grazia, più sulla linea di Agostino. Ma quel bisogno di assoluta certezza di essere in grazia non era segno di umiltà, ma di eccessiva stima nel potere della volontà, anche qui in contrasto con la sua sottostima del potere del libero arbitrio.

In realtà nella vita presente non possiamo ancora avere quella certezza che sarà propria della patria, ma ci troviamo sempre in una situazione oscillante, per la quale continuamente ricadiamo nel peccato, fosse pure solo peccato veniale, come preciserà il Concilio di Trento.

La pace che possiamo avere quaggiù è un aumento di confidenza in Dio, ma sempre accompagnato dal timore di peccare, distinto dal timore d’aver peccato, effettivamente eliminabile da un attento esame di coscienza. Finché siamo quaggiù, infatti, sempre sentiremo lo stimolo della concupiscenza, come pure chiarirà il Concilio di Trento, ma il peccato sempre ritornante sempre lo possiamo togliere con la penitenza. Dobbiamo quindi rassegnarci alla concupiscenza, non al peccato. Questo va sempre di nuovo tolto grazie al perdono divino.

Lutero confondeva il timor di Dio col terrore di Dio. Dio in certe circostanze, come riconosce la Bibbia stessa (Sal 88,16-17), può effettivamente suscitare in noi terrore e spavento. Sembra rimproverarci duramente. Ci irrita e ci contraria nelle avversità o perché ci impedisce di fare la nostra volontà o di ottenere ciò che desideriamo. Ci fa temere di non essere predestinati. Ci sembra inaffidabile. Sembra che non si curi di noi. Ci viene il dubbio che esista o non esista.

Notiamo peraltro che il terrore si può avere a causa di forze prevalenti che ci minacciano e dalle quali non sappiamo come sottrarci. Ma è ragionevole provare un simile sentimento verso Dio? No certamente. Eppure per l’occamista, per cui Dio è inaffidabile perché è irrazionalmente volubile, la cosa è possibile.

Ci si potrebbe chiedere: ma chi glie l’ha fatto fare a Lutero affidarsi ad Ockham? Perché non ha scelto San Tommaso e Sant’Agostino? Perché non ha accettato gli insegnamenti della Chiesa e le massime dei Santi? Era sicuro di interpretare bene la Bibbia? Per la verità, egli si sentiva ad un tempo attratto e respinto da Ockham: attratto perché credeva che il suo concetto di Dio, pura onnipotenza irrazionale e pura cieca volontà, fosse più biblica di quella ragionevole e cristallina di Tommaso; respinto perché si era accorto del suo pelagianesimo, dal quale però, senza accorgersene, fu attratto anche lui, dove non è difficile rintracciare, tutto sommato, una punta di quell’antropocentrismo rinascimentale, che egli aveva tanto in odio e del quale accusava il Papa.

Ora Lutero, per togliere il terrore, finì per togliere anche il timore, finendo in quella che il Concilio di Trento chiamerà «inanis haereticorum fiducia» (Denz.1553), con lo spiegare che mentre quando ci confessiamo è indubbio che dobbiamo esser certi della misericordia di Dio, non altrettanto possiamo essere sicuri del nostro stato di grazia e di essergli graditi con la nostra condotta, benché possiamo congetturarlo da alcuni segni interiori.

Da qui però il sano timore di poter peccare e di poter essere in peccato, benché debba prevalere una serena fiducia. Finché infatti siamo quaggiù, a causa dell’inclinazione a peccare conseguente al peccato originale (la «concupiscenza»), spesso pecchiamo: ma non dobbiamo scoraggiarci perché ogni volta Dio è pronto a perdonarci. Se invece aboliamo il timore, diventiamo troppo sicuri, non vigiliamo più, non scansiamo i pericoli, ed è proprio il momento in cui rischiamo sul serio.

Lutero non volle adattarsi a questo stato di misurata instabilità e di non totale e definitiva certezza, che da sempre è insegnato dalla saggezza dei Santi. Si era incaponito a volere da Dio un responso chiaro e definitivo, come se si fosse trattato di un dogma, mentre in realtà nella dinamica della volontà relativa alla salvezza è impossibile che Dio nella vita presente ci conceda questa certezza. Ancora qui la confusione di intelletto e volontà tipica di Ockham.

Fatto sta che Lutero resistette per alcuni anni nel sopportare questo stato per lui inaccettabile, per cui ad un certo punto, non potendone più, nel 1515 nella famosa «esperienza della torre» (Turmerlebnis) egli in un lampo di mistico entusiasmo credette che gli apparisse Cristo il quale gli avrebbe rivelato che poteva adattarsi a tranquillamente a peccare: bastava che egli avesse ferma fede che comunque si sarebbe salvato, il che è già tutto il succo del messaggio di Lutero, il quale continuò comunque a credere nell’esistenza dei beati e dei dannati.

Dunque un perdono totale ed assoluto senza passare attraverso il sacramento della Confessione! Molto comodo, ma le cose non stanno così. Lutero credette, come egli stesso disse, che «gli si spalancassero le porte del paradiso». Ma si trattava di una pericolosa illusione, generatrice di presunzione ed incorreggibilità. Il luteranesimo era nato. Tutto il resto viene da qui.

Ora è vero che Dio può perdonarci direttamente, anche senza la Confessione; e siamo anche liberi di rifiutare un Confessore che non ci ama, non ci capisce e ci maltratta. Il Confessore dev’essere esigente, ma anche comprensivo. Ma niente e nessuno può giustificarci nel respingere il sacramento della penitenza come tale. Questa è stata l’eresia di Lutero.

Lutero aveva davanti a sé l’esempio nobilissimo delle Confessioni di Sant’Agostino: come mai non ha saputo condividere ed apprezzare la gioia del grande Santo e Dottore nello sperimentare il frutto della Confessione? Perché pretendere più di quanto l’uomo può sapere della sua posizione davanti a Dio? È, questa, umiltà o siamo daccapo con la superbia di Ockham?

I buonisti di oggi non hanno fatto che estendere a tutta l’umanità quella salvezza della quale Lutero era convinto nel suo caso personale e che egli propone a coloro che seguono la sua concezione della fede. Egli tuttavia continuava a credere nel mistero della predestinazione, che tanto lo angosciava. I buonisti, per togliere questa angoscia, hanno inventato la ben nota tesi del «tutti salvi», in modo da sopprimere la domanda di Sant’Agostino «cur iste et non ille?», domanda alla quale l’Ipponense rispondeva: «noli judicare si non vis errare». I buonisti obbediscono ad Agostino non perché non sanno perché questo sì e l’altro no, ma perché credono in forza della loro misericordia che si salvano tutti.


Le radici occamiste


Lutero dichiara apertamente di seguire la scuola di Ockham: «sum occamicae factionis», che si connette col pensiero agostiniano, del quale pure l’agostiniano Lutero comprensibilmente si dichiara ammiratore. Tuttavia il sensismo volontarista di Ockham ben poco ha a che fare con la spiritualità agostiniana e Lutero, carattere emotivo e passionale, ne rimane infetto.

Lutero assume, del platonismo agostiniano, solo il pensiero morale, mentre è ostile alla dottrina platonica delle idee, tanto ammirata da Agostino. Decisamente Lutero non è uno speculativo e per questo nutre antipatia per Aristotele e San Tommaso. Ma ciò gli nuoce perché l’attenzione alle loro nozioni filosofiche, psicologiche, cosmologiche e metafisiche gli avrebbe risparmiato le eresie nelle quali è caduto.

Encomiabile certamente è la cura che ha di esprimersi nel linguaggio biblico e l’attenzione alla teologia biblica; tuttavia, fraintende San Paolo in senso libertario come se la vita di grazia concedesse una libertà che dispensa dall’obbedienza alla legge, senza accorgersi che la polemica di Paolo contro la legge si riferisce alla volontà di restare attaccati alle pratiche prefigurative della venuta del Signore e non certo all’obbligo sempre permanente dell’osservanza dei dieci comandamenti.

Ma la mancanza di una buona formazione filosofica impedisce a Lutero di interpretare rettamente diverse dottrine della Scrittura, che sono state interpretate dalla Chiesa appunto utilizzando categorie di Aristotele e di San Tommaso come nel dogma trinitario, dell’Incarnazione, della Redenzione, dell’anima, degli angeli, degli attributi divini, dei sacramenti, dei princìpi della morale.

Quanto ad Ockham, egli concepisce Dio come ente personale dotato di volontà, ma non di intelletto distinto dalla volontà, col pretesto che Dio è semplicissimo, per cui in Lui l’intelletto s’identifica con la volontà. Tuttavia Ockham trascura il fatto che la ragione di volontà è distinta dalla ragione di intelletto, per cui, se è vera la suddetta identificazione reale, resta pur sempre in Dio una distinzione di ragione fra intelletto e volontà, distinzione che ci permette di distinguere ciò che Dio pensa da ciò che Dio fa, la veracità e sapienza da una parte, e l’onnipotente e libera bontà dall’altra.

Ockham non intende rinunciare alla peculiarità dell’intelletto, che ha rapporto con la verità e la ragione, solo che per lui ciò che veramente e unicamente sussiste è la volontà nella sua concretezza esistenziale, per cui se l’intelletto vuole avere uno spazio, deve adattarsi a inserirsi nella volontà, la quale poi a sua volta ha la pretesa di sostituirsi all’intelletto, sicché la verità e la ragione non vengono più a dipendere dall’intelletto, ma dalla volontà.

Ockham intende salvaguardare l’onnipotenza e la libertà della volontà divina e l’istanza in sé è giusta. Senonché ciò avviene a spese dell’intelletto, dove non funziona più il principio di identità che viene sostituito dal sì-no della volontà intesa come libero arbitrio. Ora è vero che in Dio c’è il libero arbitrio, ma non nel senso in cui esso esiste in noi che possiamo scegliere una cosa e il suo opposto, il bene e il male. In Dio il libero arbitrio non è altro che il principio delle scelte e delle decisioni divine concernenti il creato, scelte che non sono necessitate dall’essenza di Dio, ma sono contingenti. Tuttavia l’oggetto di queste scelte non sono solo dei singolari, ma anche degli universali, immutabili e necessari non nel senso che esistano necessariamente, se no non sarebbero enti contingenti, ma nel senso che si tratta di essenze che sono così e non possono non essere così, altrimenti sarebbero altre essenze. Occorre ricordare che Dio ha creato la natura umana fatta in un certo modo, cosicché, per conservare quella identità, è necessario che essa abbia quelle caratteristiche e sia regolata da quelle date leggi, leggi universali, perché si tratta di doveri che vincolano tutti gli uomini, e che sono immutabili, altrimenti la natura cambierebbe l’uomo, per cui non sarebbe più uomo, ma un’altra cosa. Il fatto è purtroppo, come si sa, che Ockham non ammette la realtà degli universali, che per lui sono semplici astrazioni mentali. Da qui le conseguenze sono gravissime sia per quanto riguarda la teologia che l’antropologia e la morale.

Per Ockham Dio non ha creato degli universali, ma solo i singolari, perché nella sua mente non esistono intenzioni universali, ma solo particolari. Qual è la conseguenza sul piano della volontà divina, delle decisioni divine e dei comandamenti divini? Dio non agisce in base alla ragione, ma solo in base alla sua volontà. Non è quindi vincolato al principio d’identità o di causalità o di finalità, perché ciò, secondo Ockham, costituirebbe un ingiusto limite alla libertà ed onnipotenza divine. Benché egli tenga al principio di non contraddizione, il volontarismo fa sì che Dio possa fare che una cosa sia contradditoria, che non abbia una ragione, una causa o un fine.

Nel creato per Ockham non c’è niente di universale, necessario ed immutabile. Dio non ha doveri verso nessuno, non deve render conto a nessuno e non è legato a nessun patto con l’uomo, ma può cambiare volontà quando e come vuole e nessuno può chiedergli conto del mutamento, perché ciò, secondo Ockham, sarebbe un voler scrutare, controllare o sindacare le decisioni divine, che invece per la loro misteriosità sono al di là di ogni nostra comprensione. Se Dio in questa sua condotta gli sembra prepotente, irragionevole, infido, ingiusto e crudele, peggio per lui; è segno che manca di umiltà e sottomissione ai valori divini.

Bisogna osservare ad Ockham che la fedeltà di Dio ai patti non va considerata un porre limite alla sua libertà e alla sua onnipotenza. E neppure il fatto che Egli comandi solo il bene e non il male pone un limite alla sua onnipotenza. E neppure è un limite alla sua onnipotenza se è bene solo ciò che comanda. Nel contempo non bisogna dimenticare che Egli vuole una cosa in quanto è buona.

Se quindi sappiamo che una cosa è buona, possiamo esser certi che è voluta da Dio e se Dio veramente comanda o permette qualcosa, possiamo esser certi che è cosa buona, benché al di là della nostra comprensione. Ockham su questo punto non ha torto. Sbaglia sul primo punto.


Lutero è partito dalla Scrittura, ma non l’ha capita


Il passo che successivamente Lutero compì dopo l’esperienza della torre fu quello di respingere l’autorità del Papa, il quale non aveva approvato la sua soluzione al problema della giustificazione, ricordando che la fede necessaria alla salvezza non è la fede di salvarsi comunque senza combattere il peccato, ma è quella fede che viene messa in pratica frequentando il sacramento della penitenza.

A questa mossa del Papa Lutero rispose con un’altra mossa: la negazione del sacramento dell’Ordine come ministero della Confessione e volendo colpire alla radice il sacramento dell’Ordine, già che c’era, pensò bene anche di negare il potere del sacerdote di dir Messa. Ma ciò non bastava ancora: sapendo che i sacramenti e la vita religiosa sono oggetto della dottrina della Chiesa, da lui aborrita, pensò bene di eliminare anche la vita religiosa e gli altri sacramenti, escluso il Battesimo, troppo evidentemente voluto da Cristo.

L’esperienza angosciante della Confessione è alla radice della riforma di Lutero. La constatazione degli abusi e delle ingiustizie della gerarchia lo condusse alla convinzione, come già era successo a Wycliff e ad Hus, che la gerarchia e quindi il sacerdozio sacramento non fosse stato istituito da Cristo. Per questo, venne nella convinzione che l’organizzazione direttiva della Chiesa doveva essere radicalmente cambiata.

Lutero rifiutò l’apostolato petrino per ordinazione e quindi la successione apostolica, accogliendo solo l’apostolato per rivelazione come quello paolino, trasmissibile non per successione, ma per vocazione. Egli stesso si ritenne il primo esponente di simile apostolato, per cui si mise a nominare apostoli i suoi seguaci ed è così che è nata la Chiesa luterana.

Una cosa che ancor oggi non è del tutto chiara è quale sia stata esattamente la visione di Lutero nei confronti dell’istituto del Papato. Lutero ebbe a dire che egli avrebbe accettato il Papa se il Papa fosse fedele al Vangelo. Questa frase è estremamente significativa, perché sembrerebbe mostrare che Lutero non volle rifiutare l’istituto del Papato e quindi il sacramento del sacerdozio come tali, ma la loro cattiva applicazione e quindi – dobbiamo inferire – ricondurli all’obbedienza di quella che è la volontà di Cristo.

Tuttavia, questa sembra essere un’interpretazione troppo benevola, che annovererebbe Lutero tra i riformatori cattolici. In realtà la storia ci dice che Lutero di fatto concepì una Chiesa senza il Papa e senza la successione apostolica, ma guidata dall’organismo direttivo da lui istituito, che ad un certo punto cominciò a ritrovare alcuni ministeri, come quello del Vescovo, del diacono o del parroco, ma intesi nel senso inteso da Lutero.

Di fatto, rompendo con Papa Leone X, egli dette prova – così almeno pare – di considerare finita la successione dei Papi in quanto istituto contrario alla volontà di Cristo. Per questo, senza ovviamente negare la necessità che la comunità cristiana abbia un capo, egli venne nella convinzione – riflesso di una tipica mentalità occamistache la Chiesa non sia un’unica comunità sotto un solo capo, ma un insieme di comunità ognuna col suo pastore.

La frase di Gesù «uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli» la intese nel senso che capo della Chiesa è Cristo e solo Cristo, senza vicari o mediatori sulla terra se non i singoli pastori delle comunità, per cui egli considerò se stesso il primo esemplare di simile modo di concepire il ministero ecclesiale per cui per tutta la vita si dette da fare per istituire comunità di questo tipo, le quali sono venute così a costituire la Chiesa luterana fino ai nostri giorni.



IV


Lutero non nega la storicità dei dodici apostoli con a capo Pietro. Solo che tutto è finito lì. Secondo Lutero si è presa sì l’abitudine di dare a Pietro e agli apostoli dei successori, ma l’essenziale della volontà di Cristo non era questo. L’importante era che ci fosse la fedeltà al Vangelo; ma questa si poteva realizzare anche senza che fosse necessaria una catena di successori degli apostoli lungo tutto il corso della storia.

Anzi questo fatto, secondo Lutero, ha provocato nei Papi un progressivo aumento della propria considerazione e del proprio potere, fino ai suoi tempi, nei quali tale esorbitante pretesa nel Papa era diventata scandalosa, inaccettabile e antievangelica.

Da qui – secondo Lutero – la necessità non tanto dell’abolizione dell’istituto del papato, quanto piuttosto dell’abbassamento del Papa al livello di tutti gli altri fratelli, ognuno in grado di conoscere quanto il Papa la Parola di Dio ed anzi di correggerlo quando sbaglia. Per questo Lutero diceva che «ogni cristiano è Papa».

I lefevriani, che pretendono di correggere il Papa in fatto di dottrina o di tradizione, non si accorgono qui di avere la stessa presunzione di Lutero. Questa tesi si sposa bene con l’altra famosissima del justus et peccator, in quanto tutti appaiono empiricamente peccatori, ma i credenti sono santi, benché ciò non si veda: un buon espediente per poter esser considerati santi senza penitenza dei propri peccati.

Così pure Lutero mantiene le note della Chiesa: unità, cattolicità, apostolicità e santità, ma dà ad esse un’interpretazione occamistica: l’unità non è una sola fede, ma l’insieme di fedi simili e diverse; la cattolicità non significa che la Chiesa possegga una reale universalità, giacché per Ockham, l’universale non è una realtà, ma una fictio mentis; universale significa che la Chiesa è dappertutto come insieme di comunità simili tra di loro; santità  non vuol dire un fatto osservabile, perché secondo Ockham solo i fatti empirici sono constatabili. Ora la Chiesa è spirituale. Pertanto la santità della Chiesa non è cosa visibile, ma puro oggetto di fede e quindi invisibile all’esperienza.

Altra cosa da chiarire è se e che cosa c’è stato di buono nella sua riforma. Papa Francesco ha detto che Lutero ci ha offerto una «medicina». Questa è esattamente la missione del sacerdote, del Papa, del Vescovo, dell’Apostolo. Cristo è medico, venuto per i malati e non per i sani. Considerando gli atti del Concilio Vaticano II non si può negare che esso ha assunto alcune proposte di riforma a suo tempo avanzate da Lutero, come il concetto del sacerdozio comune dei fedeli, la necessità di basare la teologia sulla Sacra Scrittura, l’azione dello Spirito Santo nel popolo di Dio, la Messa come memoria della Pasqua e pregustazione della risurrezione, i ministeri laicali maschili e femminili, il dovere di tutti di predicare il Vangelo, l’uso della lingua volgare nella liturgia.

La cosa che va a merito di Lutero è quella, come ha rilevato Papa Francesco, di «aver capito che senza Dio siamo nulla e che il problema fondamentale della nostra vita è il nostro giusto rapporto con Dio» [1] e nel contempo – possiamo aggiungere – è stato quello di non essersi mai separato dal contatto con la Scrittura, e in special modo dalla fede in Cristo Verbo Incarnato, morto e risorto nostro Redentore e Salvatore che ci dona il suo Spirito per la nostra santificazione.

Ciò dimostra che Lutero ha sempre visto la Scrittura come mezzo per stare in rapporto con Cristo. Tuttavia il rifiuto che fece dell’aiuto nell’interpretarla che viene da parte del Magistero della Chiesa e dei dottori cattolici, gli nocque, in quanto, se da una parte rimase in lui la convinzione che la salvezza è assicurata dalla fede in Cristo, dall’ascolto della sua Parola, dalla grazia del perdono dei peccati, dall’altra, sordo e cieco alla dottrina della Chiesa, trascurò quei chiarimenti e quelle esplicitazioni del Vangelo, che Cristo stesso aveva ispirato al Magistero della Chiesa, tra le quali l’argomento che ci interessa, ossia il ministero della Confessione.

È certo che le domande, le preoccupazioni, i dubbi, le angosce, i terrori e gli spaventi che agitarono l’animo del giovane Lutero sono gli stessi del credente: sono certo di essermi pentito? Mi sono confessato bene? Ho fatto bene la penitenza? Sono sincero nel mio amore per Dio? Nascondo al Confessore qualche peccato? Dio mi ha perdonato? Provo sdegno nei confronti di Dio? Mi ripugna la sua volontà?

Si è tormentato laddove avrebbe dovuto trovare la pace. Si è troppo spaventato delle ricadute. Confondeva la tentazione al peccato col peccato. Credeva che Dio fosse adirato con lui nonostante la sua buona volontà. Sentiva Dio adirato benché non riuscisse a capire che male aveva fatto. Temeva che Dio lo mandasse all’inferno nonostante la sua innocenza. O viceversa si sentiva sempre in colpa nonostante gli sforzi in contrario. Non accettava di non poter evitare il peccato. [H1]

Tutto ciò nel giovane Lutero denota un fortissimo interesse per la propria salvezza, ma in una forma ossessiva. Da che cosa dipendeva? Probabilmente dal trauma dell’educazione ricevuta, da un temperamento eccessivamente impressionabile e da un ragionare cavilloso derivato da Ockham.

Certo, uno che disprezzi Dio, l’ateo, l’agnostico, il panteista è le mille miglia lontano dal lasciarsi prendere da simili pensieri. Lo sdegno contro Dio, che prendeva Lutero al pensiero del Dio punitore, denota invece un animo ribelle, ma si tratta pur sempre di relazionarsi a Dio. Il rapporto con Dio esiste, esiste la ricerca della salvezza, dell’innocenza, della purificazione, della giustificazione, della grazia e della pace, esiste l’ascetismo e l’autodisciplina, ma in un clima psicologico agitato, aggrovigliato e confusionario e in uno stato di spirito profondamente inquieto e polemico, con punte di amarezza e disperazione.

Nel Lutero riformatore, dopo la Turmerlebnis, abbondano, invece, come è noto, le espressioni della confidenza in Dio e di fiducia nella sua misericordia, Lutero esprime anzi la sua volontà di obbedire a Dio in una forma paradossale, di marca prettamente occamistica, come la disponibilità ad andare anche all’inferno, se questa dovesse essere la volontà di Dio.

Del resto Lutero è convinto che Dio sia sempre con lui e di parlare sempre a suo nome: per questo non tollera di essere contraddetto nell’interpretazione della Scrittura. Non risulta che egli abbia ma ascoltato l’avvertimento di qualche teologo cattolico e tanto meno del Papa, che gli facevano notare le sue eresie.

È molto facile trovare in Lutero questi stessi sentimenti del Salmista: «Le tue frecce mi hanno trafitto, su di me è scesa la tua mano. Per il tuo sdegno non c’è in me nulla di sano» (Sal 38, 3-4); «Mi hai castigato e io ho subìto il castigo» (Gr 31,18); «Sono oppresso dai tuoi terrori. Sopra di me è passata la tua ira, i tuoi spaventi mi hanno annientato» (Sal 88,16-17); «Nel giorno dell’angoscia alzo a te il mio grido» (Sal 86,7); «Al mattino fammi sentire la tua grazia, poiché in te confido» (Sal 143,8).

«Distogli lo sguardo dai miei peccati, cancella tutte le mie colpe» (Sal 51,11); «Nella tua grande bontà cancella il mio peccato» (Sal 51,3); «Tu hai rimesso la malizia del mio peccato» (Sal 32,5); «Quando ero oppresso dall’angoscia, il tuo conforto mi ha consolato» (sal 94,19); «Mi hai fatto provare molte angosce e sventure; mi darai ancora vita» (71,20). «Signore, secondo la tua misericordia, si plachi la tua ira» (Dn 9,16). Egli sa bene che «Misericordia e ira sono in Dio» (Sir 6,12).

Si direbbe che in Lutero anche nel periodo della sua vita monastica, manchi una vera carità verso Dio, un bisogno di contemplazione e di unione con lui; tutta la sua spiritualità si risolve in un bisogno di salvezza, di sentire la tenerezza di Dio, un Dio tutto per lui. Non pare sensibile all’invito del Salmista «Gustate e vedete quanto è buono il Signore» (Sal 34,9): egli sembra piuttosto voler gustare il proprio stato interiore di sicurezza e di pace, sia pur assicuratogli da Cristo. Quando il Garcia-Villoslada lo definisce «frate assetato di Dio» [2] non mi sembra che colga nel segno.

Lutero non fu un mistico ed egli stesso disprezza i mistici considerandoli infetti di platonismo. Egli non si sarebbe riconosciuto in queste parole del Salmo «Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così la mia anima anela a te, o Dio» (Sal 42-43,2). Neppure gl’interessava lodare la tenerezza di Dio per il creato: «la tenerezza del Signore si espande su tutte le creature» (Sal 145,9). Tutta la sua aspirazione era la giustificazione «Beato l’uomo al quale Dio non mette in conto il peccato» (Rm 4,8).

Coscientissimo del prezzo che Cristo ha pagato per salvarci, sapeva bene che «Senza spargimento di sangue non esiste perdono» (Eb 9,22). Non disdegnava il precetto di Giacomo «Confessate i vostri peccati gli uni agli altri» (Gc 5,16) e sapeva bene che è Dio che toglie i peccati: «Qual dio è come te, che toglie l’iniquità?» (Mi 7,18) e che «Chi confessa le proprie colpe troverà indulgenza» (Pr 28,13); «Il figlio dell’uomo ha il potere di rimettere i peccati» (Mt 9,6). Sapeva che «a chi si pente Dio offre il ritorno» (Sir 17,19); per questo chiedeva al Padre «rimetti a noi i nostri debiti» (Mt 6,12). Ma è rimasto cieco sulle parole di Cristo «Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi  e a chi non li rimetterete resteranno non rimessi» (Gv 20,22-23).

Non ha capito il sacerdozio di Cristo, nonostante il chiarissimo insegnamento della Lettera agli Ebrei e per conseguenza non ha capito il sacerdozio cristiano credendo che il sacerdozio fosse un’istituzione dell’Antico Testamento abolita da Cristo e sostituita con la figura del buon pastore. Non ha capito quindi la funzione e il valore specifico del ministero del Confessore, ma l’ha scambiato per una volontà puntigliosa e inesorabile – anche qui emerge il farisaismo occamista – di dominio e controllo sulle anime. Tuttavia ha conservato la coscienza della propria responsabilità di pastore, di apostolo, di dottore in teologia, di predicatore del Vangelo, di commentatore della Scrittura, di suscitare di discepoli di Cristo, di servitore dei poveri per amore di Cristo.


Le qualità del Confessore


Abbiamo visto come Lutero ha impostato il problema del ministero nella Chiesa e quindi la questione del sacerdozio col suo ufficio di dir Messa e confessare, e quindi la questione dell’Episcopato e del Papato. Abbiamo visto altresì la problematica del fedele che deve confessarsi, partecipare alla Messa, ascoltare il Magistero della Chiesa, obbedire ai pastori, vivere la vita della Comunità.

Chiediamoci adesso: ma Cristo come esattamente ha voluto il suo ministro di salvezza? In particolar modo, secondo il tema di questo articolo, come ha voluto il Confessore? Qual è l’ideale di Confessore che propone? Come delinearlo? Quali i suoi doveri? Quali i suoi poteri? Quale la sua utilità per il bene delle anime? Quale dev’essere il metodo del suo lavoro di operaio del Vangelo? Quali i rischi del suo ministero? Quali gli errori da evitare? Quali sono gli errori concernenti la funzione del Confessore? Come deve regolarsi nel discernere e giudicare?

È chiaro che per trattare una simile delicata e complessa materia occorrerebbe ben più spazio di quanto mi è concesso in questo articolo. Tuttavia è possibile presentare una sintesi delle cose da dire, avendo già parlato del modo sbagliato col quale Lutero intende il sacramento della Penitenza e il modo sbagliato col quale si confessava.

Mi rifaccio a un grande moralista domenicano tedesco del secolo scorso, il Padre Benedetto Enrico Merkelbach, autore di un ponderoso trattato di teologia morale [3], aggiungendo le indicazioni pastorali che in materia provengono dalla riforma della pratica del confessionale promossa dal Concilio Vaticano II, che tiene conto delle difficoltà opposte da Lutero e le risolve.

Il Merkelbach dice che il Confessore dev’essere padre, maestro, giudice e medico. La riforma conciliare, raccogliendo alcune istanze di Lutero, aggiunge: dev’esser amico e fratello. L’anima del confessare dev’essere la carità, il che implica uguaglianza fraterna davanti a Cristo Signore, nostro fratello, maestro, servitore, medico e giudice amorevole misericordioso.

Che dev’essere padre, è più che evidente. Il Papa lo ha illustrato mille volte con la parabola del figliol prodigo. Non insisto su questo, anche se c’è sempre bisogno di ricordarlo, perché sempre risorgono le tentazioni all’impazienza, all’impulsività, alla precipitazione, alla vendetta, al rigorismo, alla durezza, alla freddezza, alla spietatezza, al menefreghismo.

Il Confessore è maestro. Il Confessionale è ottima occasione per impartire una formazione dottrinale accurata, mirata, sistematica, personalizzata, ad hoc, circostanziata, graduale, soprattutto per quanto riguarda la Confessione, la morale, l’ascetica, la vita ecclesiale, il cammino di santificazione, la correzione dei vizi, l’acquisto delle virtù.

Il Confessore deve sapere quando assolvere e quando non assolvere. Oggi molti fedeli non sanno che cosa è la Confessione e come ci si confessa perché i sacerdoti a loro non lo insegnano o perché li confessano male. Molti fedeli non possono essere assolti non perché il Confessore li scopre in stato di peccato mortale, il che sarebbe un giudizio temerario, salvo possedere doni specialissimi come li aveva San Pio da Pietrelcina, ma perché entrano in confessionale senza le dovute disposizioni per essere assolti. In tal modo, invece di confessarli, conviene istruirli sul come si devono confessare, esortandoli a mettere in pratica le istruzioni ricevute.

Una cosa da notare riguardo a questa funzione giudiziaria del Confessore è che in particolare la riforma conciliare attenua l’aspetto giudiziario del sacramento a favore di quello pacificante come effetto della riconciliazione con Dio e con i fratelli. In passato si usava parlare del «tribunale» della Penitenza. Oggi si preferisce parlare di sacramento della riconciliazione. Naturalmente il sacramento mantiene la sua essenziale forma giuridica, rifiutata da Lutero, forma per la quale la liceità coincide con la validità. Infatti, mentre una Messa può essere valida ma non lecita, se il Confessore non ha la giurisdizione, salvo casi in articulo mortis del penitente, il suo atto non è valido.

Altra cosa da notare è che la pratica del passato, col suo esagerato, minuzioso e puntiglioso legalismo e giuridismo, faceva nascere e coltivava facilmente degli scrupolosi. Lutero in fondo non è altro che il caso di uno scrupoloso guidato da Confessori occamistici, i quali con la loro puntigliosità e severità lo hanno fatto scoppiare, anche se egli, da parte sua, come è stato da sempre notato, possedeva a sua volta una morbosa simpatia per Ockham, occasionata dal trauma della fanciullezza e da un temperamento religioso eccessivamente emotivo.

La riforma nata dal Concilio ha rimediato a questo guaio. Oggi gli scrupolosi non esistono più, ma siamo caduti nell’eccesso opposto: nessuno più si sente in colpa, perché la considera una neurosi di competenza dello psicoanalista. Anzi si è perduto il concetto di guida spirituale e di cura dell’anima come prerogative del Confessore. Quello che interessa è il benessere psichico, per cui lo psicologo tende a sostituirsi al Confessore con la pretesa di dare al paziente direttive e consigli che sarebbero di spettanza del Confessore.


Tuttavia bisogna ammettere che un aspetto buono della moderna prassi del Confessionale è dato dal fatto che i Confessori aggiornati sanno tener conto delle conoscenze della psicologia moderna, la quale meglio di quella del passato, di tendenza volontarista e rigorista, ci rivela quanto è oscuro il fondo della psiche umana e quanto forti sono i condizionamenti psichici, consci ed inconsci, nel bene come nel male, della nostra condotta morale. Ecco perché oggi c’è più misericordia che per il passato. Ma anche qui il freudismo ha provocato una forma di lassismo, per cui, col pretesto della misericordia certi Confessori, nonostante lo sbandierato progressismo, non sanno più purificare le anime e farle progredire, ma le lasciano ristagnare nel vizio illudendole col famoso pecca fortiter et crede firmius di luterana memoria.

L’imparzialità del giudizio può essere messa a ulteriore prova quando si tratta di confessare la donna. Infatti nella Confessione si danno una speciale apertura d’anima, profonda comunione spirituale, confidenza, fiducia e stima reciproche, un comprendersi l’un l’altro a fondo, un manifestare ciò che ad altri non si direbbe. Ora tutto ciò nell’incontro fra uomo e donna sveglia naturalmente l’emotività e la reciproca attrazione sessuale. Se tutto si fermasse qui, non ci sarebbe niente di male; anzi questa reciprocità stimola la comunione spirituale.

Ma il fatto è che ciò avviene in due creature infette dal peccato originale quindi dalla concupiscenza, che spinge al peccato, mentre è evidente che in confessionale questa spinta dev’essere totalmente assente. Da qui la necessità nel Confessore di un supplemento di castità, che lo tenga al riparo da quel pericolo. Oggi non si usa più la grata ed è cosa saggia, perché così si comunica meglio. Oggi si è capito meglio che se certe condizioni esterne sono sempre utili all’acquisto e alla difesa della virtù, ciò che è decisivo è l’energia interiore della volontà sostenuta dalla grazia.

Il difetto della disciplina di prima del Concilio era connesso con un atteggiamento di sottovalutazione della donna e ostilità nei confronti del sesso visto solo nello stato di natura decaduta e non in quello protologico ed escatologico [4].

Il risultato e il presupposto era la diffidenza e la disistima nei confronti della donna, considerata come tentatrice meno intelligente del maschio, da trattare con durezza e con un atteggiamento scostante, come si farebbe con un fanciullo discolo, con la pretesa di comandarla a bacchetta e che dovesse dire tutto al Confessore, come se egli tenesse la parte di Dio, al Quale tutto si deve dire, così che il Direttore sacerdote o superiore ha la possibilità di controllare la sua condotta nei minimi dettagli.

Non si concepiva una virtù femminile distinta da quella maschile, ma la donna era considerata virtuosa nella misura in cui imitava il maschio. Ciò non ha impedito il sorgere di sante donne ed anche Fondatrici di Istituti femminili, i quali però dovevano dipendere rigorosamente in tutto dal ramo maschile.

In tutte le religioni il sacerdote è anche medico o quanto meno si paragona a un medico. La salute fisica è presa come simbolo della salute spirituale. Gesù stesso si è paragonato a un medico. La vita presente è una specie di degenza ospedaliera – Papa Francesco ha parlato di «ospedale da campo» –, dove il malato guarisce progressivamente pur restando malato, mentre l’uscita dall’ospedale, a completa guarigione avvenuta, coincide col momento in cui lasciamo questo mondo. Così il Confessore è un medico dello spirito, che deve curare quel malato spirituale che è il penitente ed ottenere che egli cammini e progredisca nel bene, abbandonando progressivamente il male. Chi è il buon samaritano, oggi tante volte evocato, se non il buon Confessore medico delle anime?

Ora l’idea luterana della corruzione totale della natura non favorisce questa visione terapeutica, pur così genuinamente evangelica, giacché un processo di guarigione suppone una natura che abbia conservato una certa misura di salute e di normalità da cui partire: ma se tutto è distrutto, che cosa c’è da fare se non gettare tutto nell’immondezzaio? Il Vangelo parla di servi che possiedono dei talenti da trafficare. Se col peccato abbiamo perso tutto, che cosa traffichiamo?

Lutero ha trascurato questo progressivo abbandono del peccato e acquisto della giustizia, questa progressiva diminuzione del male e aumento del bene, questo passaggio, come dice San Paolo, dall’uomo vecchio all’uomo nuovo, dall’uomo carnale all’uomo spirituale. L’uomo luterano, nonostante il Battesimo e l’influsso dello Spirito Santo, non sembra crescere nelle virtù naturali e soprannaturali: sembra che non progredisca verso la perfezione e il regno di Dio.

La mortificazione della carne in nome dello spirito gli sembra pelagianismo platonico, dal che il rifiuto dei voti religiosi e le pratiche ascetiche da lui considerate farisaismo. Crede di essere lui il paladino della libertà cristiana contro il supposto legalismo della morale cattolica.


Conclusione


Ho preso in considerazione la questione della Confessione in chiave ecumenica. Essa dovrebbe esser messa a tema dei dialoghi ecumenici, ma ho l’impressione che non lo si faccia. Indubbiamente è un tema nel quale i nostri fratelli luterani dovrebbero recuperare i valori che Lutero respinse, ma nel contempo ho cercato di evidenziare che su questo punto Lutero avanzò anche istanze giuste, che sono state accolte dalla riforma della prassi promossa dal Concilio Vaticano II. Il problema è che oggi spesso si fa un ecumenismo che non corrisponde in pieno a quanto è chiesto dal Decreto Unitatis redintegratio. Esso infatti si muove su due linee: quella della verità e quella della carità.

Molto si parla della seconda, poco della prima; eppure è quella caratterizzante l’ecumenismo come tale. Infatti, la pratica della carità vale in tutti gli aspetti della vita cristiana e non solo nei nostri rapporti con i luterani.  Ciò che invece qualifica e caratterizza l’attività ecumenica è la questione della verità, ossia il fatto, come dice il Decreto, della permanente esistenza, nella dottrina dei nostri fratelli, di «impedimenti che si oppongono alla piena comunione ecclesiastica» (n.3) e di «carenze» (ibid.). E il Concilio logicamente prosegue affermando che «tutti quelli che già in qualche modo appartengono al popolo di Dio» – quindi anche i fratelli luterani – «bisogna che siano pienamente incorporati» (ibid.). E come questo si potrà ottenere? Nella carità reciproca e nel comune amore per la verità.




P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 10 agosto 2023



Note:


[1] Dal discorso del Papa del 31 ottobre 2016 nella chiesa luterana di Lund in occasione della commemorazione del 500° anniversario della Riforma di Lutero. Vedi anche l'Udienza del 31 marzo 2017 ai partecipanti al convegno del Pontificio Comitato di scienze storiche su Lutero; il discorso del 7 dicembre 2017 alla Presidenza della Federazione luterana mondiale; l’omelia del Papa del 15 novembre 2015 nella chiesa evangelica luterana di Roma.

[2] Martin Lutero. Il frate assetato di Dio, Istituto Propaganda Libraria,Milano 1985, 2 voll.

[3] Summa theologiae moralis ad mentem divi Thomae, Desclée deBrouwer, Bruges 1938-39, 3 voll.

[4] L’insegnamento di San Giovanni Paolo II sull’etica sessuale ha ampliato lo sguardo dal presente stato di natura decaduta allo stato edenico e a quello escatologico della futura risurrezione. Oggi i giudizi adeguati sulla deontologia sessuale devono esser presi alla luce di questo orizzonte antropologico più ampio, che risulta dalla Rivelazione. Ho illustrato questo nuovo concetto della castità e dell’unione-reciprocità uomo-donna nel mio libro La coppia consacrata, Edizioni Viverein, Monopoli (BA) 2008.



Fonte





I


Ricevete lo Spirito Santo;

a chi rimetterete i peccati saranno rimessi

e a chi non li rimetterete,

resteranno non rimessi

Gv 20,22-23



[...] Il Concilio e il postconcilio [2] hanno proposto una riforma del ministero della Confessione; eppure molti sacerdoti non sanno confessare o confessano male, in modo meccanico, trasandato e facilone o amministrano Confessioni invalide. Lo vedo benissimo, di riflesso, dai penitenti che frequentano il mio confessionale da 45 anni a questa parte.

Se prima del Concilio il penitente, come il Lutero giovane, era terrorizzato dal confessore, adesso il confessore è terrorizzato all’idea di scontentare il penitente. Se prima del Concilio il confessore piombava come una clava sul penitente, adesso il confessore scenderebbe a qualunque compromesso pur di non scontentare il penitente.

Anzi dobbiamo dire che in molti casi si è perduto addirittura il concetto di penitente e di penitenza. Chi entra oggi in confessionale spesso non è un peccatore pentito; non è uno che vuol far penitenza dei suoi peccati, ma uno che – quando va bene – ha voglia di fare quattro chiacchiere col sacerdote. Non è uno che abbia necessità di essere assolto, perché non ha – dice lui – alcun peccato di cui accusarsi. Si impone allora da parte del Confessore il dovere di negare l’assoluzione non perché il Confessore ha letto nel cuore lo stato di peccato del penitente – dono straordinario rarissimo –, ma perché, non essendoci alcun peccato denunciato, il penitente non ha nulla da cui debba essere assolto [tutti santi!, ndc].

Avviene inoltre che il penitente non considera la Confessione come un cammino di purificazione, di correzione, di guarigione, di penitenza, di liberazione, ma come una piacevole occasione per raccontare al Confessore i propri fatti a partire dalla confessione precedente. Come si è giunti a questo punto? Colpa del Concilio? Niente affatto: colpa dei modernisti che hanno falsificato l’insegnamento del Concilio, influenzati dal buonismo e dal perdonismo luterano.


In questo articolo mi fermerò pertanto in modo approfondito su Lutero perché il luteranesimo è nato in confessionale. La dinamica del luteranesimo è la dinamica che ruota attorno al confessionale: il peccato, la colpa, l’umiltà, il pentimento, il perdono, la grazia, la giustificazione, la fiducia in Dio. Il dramma di Lutero nasce da un’esperienza negativa del confessionale, esperienza – si badi – da penitente, non da Confessore. Lutero non è mai riuscito ad essere un buon penitente.

Non ha mai capito l’importanza e la natura del pentimento. Il segreto per attirare la misericordia di Dio non è la fiducia di poter essere comunque salvati vada come vada, ma è il pentimento autentico, che non è l’arrovellarsi in un inutile e angosciante senso di frustrazione e di impotenza, ma è il sincero dolore, dettato dall’amore e dal timore per aver offeso Dio, accompagnato dal proposito di non più peccare. Ha mai recitato l’atto di dolore?

Il pentimento è un atto del libero arbitrio col quale la volontà che ha voluto peccare e che quindi si trova in colpa, gira su se stessa e va nella direzione opposta, ossia verso il bene, rispetto alla direzione verso il male che aveva imboccato. È qualcosa di simile alla cosiddetta «conversione a U» dell’automobilista che si accorge di aver sbagliato direzione.

Senonché a Lutero che cosa capita? Che accorgendosi dopo la Confessione di ricadere nello stesso peccato, viene il dubbio che la precedente confessione non lo avesse liberato dal peccato, ma fosse rimasto nel peccato, per cui quella Confessione non era servita a nulla. Non si rendeva conto della padronanza che noi abbiamo sui nostri atti volontari, per cui se diciamo no, questo è no e non è sì. Se diciamo no al peccato, il peccato se ne va. Ma se diciamo sì e no, non meravigliamoci se questo resta.

Tendeva invece a concepire il peccato non come un atto, ma come uno stato. Non capiva che il peccato lo cancelliamo con un atto del libero arbitrio, sicché quel peccato lì non c’è più. Succede invece che essendoci in noi la tendenza a commettere quel peccato – questa sì che è uno stato – dopo poco tempo, nonostante ogni buon volere, ricadiamo nello stesso peccato. Ma ciò non ci deve traumatizzarci o scoraggiarci. Il peccato veniale quotidiano è inevitabile anche nei santi [3]; è un po’ come quel po’ di povere che copre il nostro volto nel corso della giornata e che ci obbliga ogni mattina a lavarci la faccia.

Nessuno si angoscia per questa pratica quotidiana, ma la svolge tranquillamente tutti i giorni. Ebbene Lutero, invece, incapace di riflettere su questa dinamica dell’igiene spirituale simile all’igiene fisico, montò su una tragedia per una cosa del tutto risolvibile: una tempesta, potremmo dire, in un bicchier d’acqua. Ma il problema si complicò ulteriormente successivamente perché a Lutero venne la voglia, visto che la concupiscenza non spariva, di poter peccare liberamente senza per questo suscitare l’ira divina, anzi con un Dio bonaccione che lo lasciava fare senza incolparlo. E qui allo scrupolo si aggiunse l’ipocrisia.

Lutero, certo, da sacerdote, ha confessato per alcuni anni. Stando a come ci parla della sua esperienza di penitente, non sappiamo quanto volentieri egli abbia esercitato questo ministero. Se egli l’ha sentito come un tormento, probabilmente gli sarà sembrato di tormentare gli altri. Se non lo vedeva come una cura dell’anima, come sarà stato capace di curare le anime? Se non lo vedeva come una consolazione, come sarà stato capace lui di consolare?

Confessare, per il sacerdote è una grande gioia che solo lui può provare, ma quando la prova, sa trasmettere qualcosa di questa gioia ai suoi penitenti. Si tratta però di una gioia speciale, soprannaturale: non è la gioia di una chiacchierata fra amici, ma quella misteriosa e sublime di sperimentare la misericordia divina.

Per il sacerdote è la gioia di salvare le anime; per i penitenti è la gioia di essere salvati. È la gioia di consolare, confortare, incoraggiare, pacificare, riconciliare, dar pace alla coscienza e far pregustare al penitente la gioia del paradiso. Nessuno ci parla della gioia provata nel confessarsi da Lutero. Lutero non ci dice mai che egli abbia provato gioia nel confessare.

Ma Lutero, stando a quello che ci racconta di quando si confessava, probabilmente deve aver sentito questo ministero come un peso insopportabile o una pratica ingiusta. Da qui la decisione di lasciare il sacerdozio. Non ha mai capito come la misericordia divina passi attraverso la Confessione. Non è mai stato capace di rendersi qui strumento della divina misericordia.

Lutero non era contrario in linea di massima alla confessione dei peccati, tanto è vero che egli continuò a confessarsi anche dopo aver lasciato la Chiesa. Quello che non accettava era la confessione come sacramento a causa della sua erronea concezione del sacramento, in linea col suo concetto di fede, come atto sufficiente a ottenere il perdono divino. Per questo per lui il sacerdote non ha potere di comunicare la grazia mediante il sacramento, non può dire «io ti assolvo», ma deve dire «Dio ti assolve» oppure «Dio ti ha assolto».

Inoltre a Lutero non andava a genio il nostro dovere di espiare i nostri peccati, di pagare per le nostre colpe, di fare opere di penitenza, di compiere sacrifici di propiziazione. Gli sembravano cose superate dell’Antico Testamento. Lutero crede nell’opera espiatrice e soddisfattoria di Cristo, benché sulla croce Dio appaia «sub contraria specie». Ma adesso, grazie alla Redenzione, c’è la grazia di Cristo; non c’è più niente da pagare; i nostri debiti ci sono stati rimessi. Ha pagato tutto Cristo al nostro posto. C’è solo da accogliere la grazia e da ringraziare.

E appunto per questo a Lutero pare blasfema la pretesa che noi possiamo scontare i nostri peccati come si paga un debito, che noi possiamo espiare con i nostri sacrifici e le nostre offerte, quasi a voler perfezionare l’opera di Cristo. Per questo, Lutero arrivò a rifiutare la Messa come sacrificio espiatorio. Non comprese che il sacerdote e tutti noi fedeli non abbiamo alcuna pretesa di aggiungere nulla a quanto Cristo ha patito e fatto per noi con la sua croce, ma semplicemente, per sua grazia, partecipiamo della sua opera e dei suoi meriti; collaboriamo con Lui per mezzo delle opere compiute in grazia.

Facciamo la nostra parte. Non siamo né dei pesi morti, né degli scrocconi, né degli approfittatori. Amore con amor si paga. L’andare in paradiso non è un viaggio in macchina nel quale Cristo è l’autista e noi ce ne stiamo comodamente seduti guardando il paesaggio, ma è un prender la croce ogni giorno al seguito di Gesù che porta la sua croce.

È vero che si può pregustare a momenti la vita futura, ma solo in mezzo alle tribolazioni sopportate per amore di Cristo e dei fratelli. Se però nella sventura io non trovo questa possibilità di trasformarla in espiazione dei miei peccati, come faccio a continuare a credere che Dio mi sta usando misericordia? Dovrò pensare che questa sventura non viene fa Dio. Da dove viene, allora? Dalla natura? Ma la natura è creata e governata da Dio! D’altra parte, misericordia vuol dir sollievo; sventura vuol dire abbattimento. Un abbattimento sollievo? È un assurdo.

Il misericordismo si aggroviglia in un’inestricabile contraddizione. Per il cristiano autentico, invece, la sventura è effettivamente segno della misericordia divina, ma in che senso? Nel senso che il cristiano vi legge l’occasione per fruire di quella misericordia che consiste nel poter espiare in Cristo i propri peccati. E allora vediamo che se non accettiamo il dovere di espiare i peccati, ci mettiamo in un labirinto dal quale non riusciamo a venir fuori, salvo fare come Nietzsche, il quale diceva che bisogna danzare nell’inferno.


Come si sa, Lutero, a somiglianza di Marcione, racchiude il concetto del Dio punitore nei limiti dell’Antico Testamento, mentre il Dio del Nuovo, cioè Gesù Cristo, è solo il Dio della misericordia. Lutero continua ad ammettere l’esistenza di dannati: sono coloro che, come il Papa, non accettano la sua teoria della giustificazione. Nel sec. XIX Schleiermacher mantenne la dottrina luterana della sola fides, ma anziché assicurare il paradiso solo a coloro che accettano tale dottrina, suppose che tutti, in forma inconscia, l’accettano, per cui non esistono dannati, ma tutti si salvano [4].

Nei numerosi studi su Lutero pochi si impegnano ad indagare a fondo, sulla base di quanto egli narra o di testimonianze di contemporanei, quello che nell’anima di Lutero succedeva in occasione della Confessione o quando si confessava. Certo siamo davanti a un mistero che solo Dio conosce. Ma quel poco che Lutero ci dice, se scavato a fondo, mi pare estremamente illuminante per capire le radici prime della sua avventura terrena. Che cosa era per lui il peccato? Che cosa era la colpa? Che cosa era il pentimento? Come vedeva la giustizia divina? Come concepiva la misericordia? E il castigo divino? Che cosa era la coscienza? Che cosa era l’assoluzione, che cosa era il perdono? Che cosa era la grazia? Lutero è parco di definizioni e spesso definisce una cosa in forme estremizzanti, senza le dovute precisazioni, o paradossali oppure non nel suo dover-essere, ma nel suo stato difettoso come fosse normale.


Note:


[1] Cf Karl Rahner, Esercizi spirituali per il sacerdote. Iniziazione all’esistenza sacerdotale, Editrice Queriniana, Brescia 1974; il mio libro Karl Rahner. Il Concilio tradito, Edizioni Fede&Cultura, Verona 2009. Pp.260-265; il mio intervento Il concetto del Sacerdozio in Rahner negli atti del convegno internazionale organizzato dai Francescani dell’Immacolata «Il sacerdozio ministeriale. “L’amore del cuore di Gesù”», Casa Marina Editrice, Frigento 2010, pp.183-230: E.Schillebeeckx, Il ministero nella Chiesa. Servizio di presidenza nella comunità di Gesù Cristo, Editrice Queriniana, Brescia 1982. Secondo Schillebeeckx, in base al fatto che il sacerdote è espressione della comunità, qualunque laico battezzato uomo o donna, in caso di assenza del prete, può celebrar Messa.

[2] Cf per es. l’Esortazione apostolica Reconciliatio et paenitentia di San Giovanni Paolo II del 2 dicembre 1984; il Vademecum dei confessori su alcuni temi di morale attinenti alla vita coniugale del Pontificio Consiglio per la Famiglia del 12 febbraio 1997; Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri, della Congregazione per il Clero, del 32 gennaio 1994.

[3] Come dirà poi il Concilio di Trento.

[4] Il Card. Kasper ha scritto un libro, Misericordia. Concetto fondamentale del Vangelo. Chiave della vita cristiana, Queriniana, Brescia 2015, nel quale sostiene che la misericordia è un attributo dell’essenza divina e che Dio, dopo esser stato punitore nell’Antico Testamento, con la venuta di Cristo non castiga più, ma fa a tutti misericordia e salva tutti. In realtà l’esercizio della misericordia suppone l’esistenza del peccatore. Se Dio non avesse creato il mondo non avrebbe avuto l’occasione di esercitare la misericordia. Quanto alla tesi che con la venuta di Cristo, Dio non castiga più, basta leggere le parole di Cristo nel Vangelo per rendersi conto del contrario.



II

 

Dalla riforma del Confessionale alla riforma della Chiesa


Una domanda che ci poniamo è come dal problema del confessionale è sorta in Lutero l’idea di operare per la riforma della Chiesa. Egli allargò il suo sguardo dalla cattiva esperienza del confessionale alla situazione della Chiesa. Avvertì il problema dei cattivi pastori. Come in confessionale non aveva trovato conforto nel confessore, così notò che tanti fedeli erano mal guidati dai pastori, a cominciare dalla Curia Romana e dal Papa. Papa Francesco afferma che Lutero nella sua volontà di riforma fu mosso da buone intenzioni [1]. Infatti egli da giovane monaco insorse contro la mondanità, il lusso e l’abuso del potere ecclesiastico in Germania e a Roma e fu apprezzato anche da santi uomini. Ma all’inizio non pensò di mettere in discussione l’istituzione divina del sacerdozio. Con tono profetico si scagliò contro i pastori che sfruttano le pecore e pascono se stessi per richiamarli al loro dovere, non per negare legittimità al loro ufficio.

La Chiesa – egli ricordò – dev’essere ministra di misericordia e non padrona delle coscienze. Deve andare verso i poveri, non essere attaccata alle ricchezze. Deve servire le anime, non dominarle. Ammetteva che la Confessione è il ministero della giustificazione, affidato agli apostoli. Leggendo però S.Paolo cominciò a farsi la convinzione che la Gerarchia non errasse solo nella pastorale, ma anche nella dottrina. Credette di aver trovato in Paolo la verità circa la giustificazione, contro la tradizionale concezione del Magistero. Cominciò allora a venirgli il sospetto, che poi divenne certezza, che il Papa si sbagliasse nella dottrina e che nei secoli precedenti avesse sepolto il Vangelo sotto un mucchio di credenze e usanze inutili, superate o dannose, dalle quali occorreva sbarazzarsi. Gli nacque un nuovo concetto della verità evangelica: la sua custodia non era affidata solo agli apostoli, ma a tutti i fedeli. È il cristiano come tale che è infallibile. I pastori possono sbagliare.

Lutero dimenticò che i Dodici con a capo Pietro sono i primi Vescovi, sono stati ordinati vescovi da Gesù stesso, il quale è così istitutore del sacramento dell’Ordine. Il collego degli apostoli è distinto dalla comunità dei fratelli ovvero dei battezzati.  Solo i Vescovi uniti al Papa sono infallibili; il comune fedele può sbagliare, ha bisogno della guida del Magistero nella dottrina e per ricevere i sacramenti.

Questa è la forma della Chiesa, ciò che le dà forma: il collegio apostolico ordinato, maestro della fede e amministratore dei sacramenti ai laici. Ora Lutero non fa questa distinzione: tutti sono fratelli, tutti sono sacerdoti sotto Cristo e lo Spirito Santo. In tal senso non possiamo dire che riforma, ma deforma. Le intenzioni non sono più buone ma cattive, senza per questo voler giudicare l’intimo del suo animo. E per questo Leone X lo condanna, mentre il Concilio di Trento condannerà altri suoi errori.

La vera riforma, infatti, è dar forma in base alla forma paradigmatica, non cambiare forma, cosa che invece purtroppo Lutero fece. Se egli partì con buone intenzioni, volendo riportare la Chiesa alla sua forma originaria voluta da Cristo e insegnata dal Magistero, a un certo punto, fattosi un concetto di Chiesa non più corrispondente alla volontà di Cristo, non si fermò a correggere gli abusi in base al modello di Chiesa voluto da Cristo, ma cambiò lo stesso modello allontanandosi dal progetto e dalla volontà di Cristo. Passò da una battaglia per correggere la pastorale a una battaglia per proporre un nuovo concetto di Chiesa, secondo lui conforme al Vangelo, che sarebbe stato tradito dal Papa. Lutero si costruì questo modello di Chiesa seguendo la teologia di Guglielmo di Ockham.


La teologia narrativa al posto di quella speculativa


A Lutero non piace definire valori eterni e sovrastorici e ragionare su di essi come fa San Tommaso, ricavando conseguenze o chiarificazioni, ma preferisce narrare quello che Dio ha fatto e fa nella storia. Non gli piace parlare dell’uomo in generale, ma ha sempre bisogno di parlare del proprio io davanti a Dio. Non gl’interessa la natura umana come tale – è per lui occamisticamente una semplice astrazione –, ma solo la natura in quanto peccatrice e redenta.

Quello che lo interessa non è che Cristo sia una persona in due nature, anche se ci crede, ma che sia il suo Salvatore. Per lui un Dio che non sia Cristo è un Dio astratto che non gl’interessa, anzi gli fa paura. Per lui il vero Dio è solo Cristo. Interessarsi della Santissima Trinità (anche se ci crede) per il gusto di conoscerla, come faceva San Tommaso, per lui è una perdita di tempo e una presunzione.

Egli intende la volontà divina non come legge universale, ma come comando fatto al singolo qui e adesso. Non esistono leggi uguali per tutti, ma ognuno si regola liberamente secondo la propria coscienza. Non esistono motivi razionali dell’azione, ma solo motivi di fede. È la morale di Ockham [2].

Dobbiamo allora cominciare col ricordare che tutta l’impresa di Lutero ha le sue origini prime proprio nella difficoltà a comprendere e ad apprezzare il sacramento e la pratica del sacramento della penitenza, la sua utilità e necessità, il suo potere di dar pace, coraggio, serenità, voglia di migliorare e di testimoniare, consolidamento nel proprio cammino di perfezione, crescita nelle virtù, fedeltà agli impegni assunti, superamento delle prove, pregustazione della gioia del cielo.

Da qui il dubbio che un uomo, il sacerdote, possa effettivamente possedere il potere divino di rimettere i peccati, giacché, se ciò fosse vero, così diceva Lutero tra sé e sé, io troverei la pace nel confessarmi, cosa che invece non riesco mai ad ottenere nonostante il mio impegno a confessarmi bene.

Per questo Lutero, quando raggiunse il suo concetto di fede fiduciale nella famosa «esperienza della torre» (Turmerlebnis) del 1515, per cui si convinse che, comunque andassero le cose, il Padre lo perdonava direttamente e lo avrebbe salvato, svigorì le famose parole del Signore a Pietro, quando gli disse: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarò sciolto nei cieli» (Mt 16, 18-19).

Ora Lutero, come è noto, interpretò quel «questa pietra» come riferito a Se stesso e non a Pietro, contro l’evidente senso dell’espressione di Cristo, che si rivolge a Pietro e non a Se stesso. Che Cristo fosse il fondatore della Chiesa era evidente, tanto che Egli parla della sua Chiesa ed era stato Lui a convocare gli apostoli. Gesù aveva fondato la Chiesa; si trattava adesso di edificarla, ossia mandare avanti la costruzione dell’edificio, del quale Gesù aveva posto le fondamenta.

Gesù dunque dà l’incarico a Pietro di portare avanti il lavoro, sempre, s’intende, sotto l’assistenza, la guida e la sorveglianza di Cristo. Come narrano gli Atti degli Apostoli, essi compresero benissimo le parole del Signore. Per questo, i Papi nella storia della Chiesa ebbero sempre cura di avere dei Successori, dovendo la Chiesa durare fino alla fine del mondo.

Per questo, mentre Cristo, prima di affidare a Pietro il compito di pascere il suo gregge, gli chiede se lo ama (Gv 21,15), mentre gli affida senza condizioni il compito di confermare i fratelli nella fede (Lc 22,32), come a dire che comunque Gesù avrebbe assistito sempre Pietro e i Successori in questo ufficio. E infatti, se un Papa non esercita la carità pastorale, possiamo sempre richiamarlo. Ma se come maestro della fede ci indicasse una meta falsa, come ce ne accorgeremmo?

Se quindi un Papa pronuncia qualche frase che sembra contrastare o contrasta realmente con la dottrina della Chiesa, si tratta di una semplice esternazione personale, della quale non si deve tener conto, e quindi non lo si deve accusare di eresia [3], perché eresia sarebbe – cosa impensabile – che la insegnasse dalla cattedra di Pietro e Pietro è in cattedra non solo nei momenti straordinari e più solenni del suo Magistero, ma anche in quelli ordinari, semplici e quotidiani [4]. Non è che il grado massimo è quello dell’infallibilità, mentre negli inferiori c’è la possibilità dell’errore. La verità c’è a tutti i gradi; la differenza sta solo nel grado di forza col quale la Chiesa vuole insegnare una verità di fede.

Il Papa è maestro della fede, per cui non può insegnare il falso. Se lo fa, non può trattarsi del suo magistero, ma si tratta di improvvisazioni o esternazioni o punti di vista personali, privi di autorità, dei quali non si deve tener conto. Invece un Papa può peccare nella carità, ossia può essere un cattivo pastore. E gli esempi nella storia non mancano.

Su questo piano un Papa può e deve essere corretto. L’errore di Lutero non è stato quello di voler correggere il Papa come pastore, dove aveva buone ragioni, tanto che lo stesso Papa Francesco lo ha lodato per questo. L’errore è stato quello di voler correggere il Papa come maestro della fede. Se si fosse accontentato di richiamare il Papa ai suoi doveri di pastore, come hanno sempre fatto i riformatori cattolici, avrebbe fatto bene e sarebbe stato vero riformatore.

Invece Lutero ha creduto di riscoprire l’autentico ministero ecclesiale e quindi l’autentica missione del pastore e del sacerdote, che per lui non è effetto di un’ordinazione giuridico-sacramentale, ma di una chiamata che viene direttamente da Cristo nello Spirito Santo. Per Lutero occorre certamente un’organizzazione giuridica della Comunità, ma per lui la sua presidenza non si fonda giuridicamente su di un’ordinazione fatta da un precedente ministro ordinato, ma sulla scelta ed elezione fatte dalla Comunità.

Il pastore per Lutero non rimette i peccati. Questo per lui è un potere che spetta solo a Cristo. Per Lutero il confessore, che egli non disdegna del tutto, non dice «io ti assolvo», ma chiede a Dio che voglia assolvere oppure dichiara al penitente che è assolto.

Lutero crede nella remissione dei peccati nella quale si può riassumere tutta l’opera di Cristo [5], anche se essa, al di là di ciò, è servita ad assicurarci la figliolanza divina e il possesso della vita eterna. Rimettere i peccati, nella Scrittura, corrispondere a «cancellare i peccati» [6]. Il cancellare a sua volta implica l’idea della macchia [7], per cui l’assenza del peccato, ossia la giustizia e la purezza si rappresentano con l’immacolatezza [8]. La remissione del peccato inoltre richiama l’idea della remissione di un debito (Mt 6,12). Il peccato è dunque paragonato a un debito da pagare o a una macchia da togliere.

Ma perché per la Bibbia solo Dio può rimettere il peccato? Perché il peccato è congiunto con la morte, per cui rimettere il peccato significa far risorgere da morte, cosa che solo Dio può fare. Ecco perché Paolo dice che eravamo morti per il peccato e Cristo ci ha fatti rivivere con la remissione dei peccati (cf Ef 2,5).

Inoltre, peccando, la nostra volontà si torce e si inclina al peccato, in modo tale che da sola non riesce a riaddrizzarsi, a convertirsi al bene: occorre che sia il divino Motore della nostra volontà, Dio stesso, a raddrizzarla riorientandola al bene e liberandola dalla colpa. Inoltre, per la Bibbia col peccato è come se l’uomo precipitasse in una fossa, dalla quale non riesce più a venir fuori: occorre una forza divina. Ebbene, il sacerdote, in forza del suo ministero, partecipa di questa forza e in tal senso il confessore ha il potere di rimettere i peccati.

Col peccato originale l’uomo ha ricevuto da Dio un castigo così severo, secondo Lutero, da «aver perso tutto», come egli si esprime con parole lapidarie, così diversi dai giri di frase della teologia scolastica, come hanno perso tutto quei poveri contadini romagnoli che sono rimasti alluvionati nel maggio scorso dopo le spaventose piogge torrenziali. Lutero calca la mano per poter esaltare la potenza della misericordia e della grazia.

Egli stesso ha vissuto questa miseria della natura decaduta con un pathos incredibile, che ci dice la straordinarietà della sua sensibilità religiosa, con fortissimi sensi di colpa e terrori di non essere predestinato, quando altri se ne restano tranquilli. Certo, vuol dire che ci credeva, ma nel contempo restiamo con qualche perplessità circa la normalità delle sue condizioni psichiche.

La grazia del perdono divino lava l’anima e la purifica dal peccato. Il peccatore resta peccatore nel senso che conserva la concupiscenza; ma nel momento in cui si confessa, è purificato, salvo poi a ricadere successivamente; ma ha sempre la possibilità di rialzarsi ogni volta che cade.

Come è noto, per Lutero non si tratta per noi di operare per la nostra salvezza, come se potessimo ottenere la salvezza per i nostri meriti, ma di dar spazio all’azione divina; si tratta di lasciarsi salvare o di prendere atto [sic] di essere salvati o di esser certi [sic] che ci salveremo [in una sorta di training autogeno, cfr. Secci]. Basta aver fede in ciò. L’annuncio evangelico non è l’annuncio che possiamo salvarci se obbediamo a Cristo, ma che siamo salvati in ogni caso e senza condizioni, purché abbiamo fede di salvarci.

Per Lutero le opere seguono al possesso della grazia, ma non servono ad acquistare la grazia, neppure se sono fatte in grazia, perché per Lutero il peccato resta («peccatum permanens»); solo che il Padre volge lo sguardo dall’altra parte guardando alla giustizia di Cristo, e fa finta di non vedere i nostri peccati.

Lutero oppone irragionevolmente la nostra giustizia a quella di Cristo: ci salviamo per la sua giustizia, non per la nostra; come se non esistesse la virtù naturale e cardinale della giustizia. Alcuni parlano benevolmente di «giustificazione forense», come se si trattasse di un semplice non tener conto, di una fictio iuris; ma se guardiamo le cose come sono, sarebbe meglio parlare di una fictio fraudis.

Come è noto, Lutero basò la sua dottrina della giustificazione su Rm 3, 21-24, dove Paolo parla della «giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo per tutti quelli che credono». Per essa «tutti sono giustificati gratuitamente per la sua grazia»[9].

In questo passo è vero che la giustizia divina coincide con la sua misericordia; ma ciò non toglie in generale la distinzione fra misericordia e giustizia punitiva. L’orrore e l’estrema ripugnanza, che Lutero provava alla prospettiva di essere punito da Dio, erano tali, che lo rese cieco al fatto che se Dio è misericordioso, non per questo non ci castiga se noi disobbediamo alla sua legge. Ossia la giustizia divina è anche e specificamente dare a ciascuno secondo i suoi meriti [10].

Quel «gratuitamente» Lutero lo intese come se Paolo dispensasse dalle opere e dai meriti. Invece gratuitamente si riferisce alla parte di Dio nella giustificazione, cosa che non esclude la parte che spetta all’uomo, che sono appunto le buone opere e l’obbedienza alla legge, benché certamente questa obbedienza sia causata [11] da Dio che predestina alla salvezza gli eletti. Con la venuta della grazia di Cristo resta sempre vero che, se vogliamo salvarci, dobbiamo osservare i comandamenti. A nulla serve ricevere la grazia se poi non osserviamo i comandamenti. Questo è il vero San Paolo.

Per capire il rapporto tra la fede e le opere, occorre collegare Paolo con Giacomo, perché da una parte Paolo sembra risolvere la giustificazione nella sola accoglienza della grazia senza la necessità delle opere, mentre Giacomo ricorda che per salvarsi non basta la fede, ma occorrono anche le opere.

Si tratta di due preoccupazioni reciprocamente complementari: a Paolo sta a cuore sottolineare la necessità della grazia per salvarsi. Giacomo invece vuole scongiurare la furbizia di coloro che col pretesto che la salvezza viene dalla grazia, non si curano di adoperarsi con le buone opere e la penitenza per liberarsi dai peccati e progredire nelle virtù.

Giacomo conosce benissimo la necessità della grazia e Paolo sa benissimo che occorrono le opere, solo che Paolo se la prende con chi respinge la grazia di Cristo pensando che sia sufficiente osservare la legge di Mosè, mentre Giacomo vuole impedire l’ipocrisia di chi accampa la fede in Cristo per ritenersi dispensato dalle opere. Giacomo ha inteso Paolo come se escludesse le opere e per questo sostiene la necessità delle opere.

Paolo non esclude la necessità del merito: dice semplicemente che occorre meritare in grazia. Giacomo non è un restare nel legalismo giudaico; dice semplicemente che non basta credere, ma bisogna anche mettere in pratica. Lutero non ha capito questo delicato equilibrio e prendendosela con Giacomo, ha spezzato questo delicato equilibrio con uno sbilanciamento verso la grazia e la fede a danno delle opere e del merito.

Non basta parlare della grazia che ci previene e ci conduce a compere le opere buone. Il vero concetto della giustificazione comporta anche l’altro aspetto che per salvarsi occorre farsi meriti, occorre trafficare i propri talenti, occorre un’ardua disciplina, occorre sforzo e fatica, operando in stato di grazia. Lutero, per la verità, fu operosissimo e affrontò dure sofferenze, immani fatiche e rischi, non però con timore e tremore, non per comprare la perla preziosa, non per conquistare il paradiso, ma per combattere la Chiesa cattolica e per finalità puramente terrene di organizzazione della sua Chiesa, perché era convinto di andare in paradiso per il semplice fatto che Cristo gli avrebbe detto che si sarebbe salvato.

Lutero ha creduto di ritenere se stesso, per mandato di Cristo e ispirazione dello Spirito Santo, come primo esemplare di questa sua concezione del ministero e per conseguenza di una Chiesa veramente strutturata secondo la volontà di Cristo. Per questo per tutto il corso della sua vita di riformatore si è preoccupato di fondare Comunità di questo tipo affidandole a ministri scelti dalla stessa Comunità.

In tal modo per Lutero la Chiesa nella conoscenza del dato rivelato non è retta da un unico magistero collettivo infallibile di derivazione apostolica – l’Episcopato sotto la guida del Successore di Pietro -, ma come popolo di Dio è direttamente illuminata dallo Spirito Santo. Illuminato da questa luce, afferma Lutero, ogni cristiano è infallibile come il Papa, perché la Scrittura, secondo lui, è in se stessa chiarissima. Tuttavia, questo non toglie che effettivamente esistano punti oscuri e difficili. Lutero allora ammette un gremio di dottori e biblisti come lui, i quali interpretino la Parola di Dio per i fedeli.

Nella Comunità luterana la dottrina della fede si ricava direttamente dalla Scrittura da parte del cristiano come tale, anche se occorrono sempre degli studiosi ed esperti – i biblisti –, i quali propongano interpretazioni di passi difficili, non importa se divergenti, interpretazioni che possono sempre mutare a causa di un progresso degli studi. In tal modo il luteranesimo mantiene un nucleo fondamentale di idee di Lutero [12], che caratterizza ogni luterano, ma nel contempo il luterano, a differenza del fedele cattolico che è sempre soggetto al Papa in campo dottrinale, si ritiene libero, in base all’esempio stesso di Lutero nei confronti del Papa, di allontanarsi da quei punti dottrinali luterani, che egli privatamente giudica inaccettabili.

In Lutero bisogna notare due cose: da una parte una soggettività emotiva ed intuitiva molto impressionabile, irrimediabilmente turbata dagli effetti traumatici di un’educazione paterna irrazionale e troppo severa, e dall’altra dotato di una percezione vivissima del suo rapporto personale ed intimo con Dio, che fa pensare al Salmista o a Sant’Agostino, un carattere ciclotimico, oscillante fra la disperazione e la presunzione, fra l’abbandono e la ribellione, fra lo scrupolo e il lassismo, fra l’angoscia e l’entusiasmo, fra il dubbio atroce e la più ostinata certezza, fra la tenerezza e la crudeltà.

Lutero concepì la sua scelta monastica secondo un’angolatura per la verità più limitata rispetto all’elevatezza dell’ideale monastico, che comporta certamente l’opera della propria salvezza, ma con l’anelito a vedere Dio, ossia con l’istanza contemplativa.

Sembra concepire Dio non come fine ultimo da raggiungere, ma come un Dio funzionale a lui, sembra amarlo non come si ama una persona, ma come si ama qualcosa che ci fa bene, un farmaco o il caffè, salvo poi a cadere nell’estremo opposto del disprezzo totale di se stesso in una sottomissione a Dio del tutto irragionevole, alla maniera di Ockham. Il culto divino allora suppone la negazione e la distruzione dell’io. Ora noi non siamo davanti a Dio un sacco di rifiuti, per quanto peccatori, ma siamo immagini di Dio. Non siamo un nulla, ma un qualcosa, anche se è vero che Egli ci ha tratti dal nulla.

Lutero sembra avere un concetto sbagliato dell’umiltà, confondendola con la pusillanimità. La giustificazione per lui è la sostituzione della giustizia di Cristo alla mia che non può che essere falsa. Il pensare ad opere meritorie è superbia. Non capisce il valore della causa seconda e cioè che se è vero che la causa prima della salvezza è Dio, Egli si serve della mia libera volontà per attuare tale la salvezza. La grazia agisce insieme col libero arbitrio muovendolo alla buona azione. Similmente due secoli dopo Kant penserà che sia segno di superbia nella ragione il credere che essa possa elevarsi al soprasensibile.

La superbia, come dice Sant’Agostino, è amor sui usque ad contemptum Dei. [amor di sé fino al disprezzo di Dio, ndc]. L’umiltà è amor Dei usque ad contemptum sui [amor di Dio fino al disprezzo di sé, ndc]. Occorre intendere bene, però, queste parole di Agostino. Esiste un sano interesse personale; esiste anche un sano amore di sé. Questo sano amore di sé è la misura in base alla quale dobbiamo amare il prossimo; si dà anche una sana confidenza nelle proprie forze, un sano contare su se stessi, perché siamo creati ad immagine di Dio.

Il confidare in se stessi non esclude la confidenza in Dio, se confidiamo in quelle forze che sono restate dopo il peccato originale. L’esercizio della ragione non contrasta affatto con la fede, se questo esercizio è corretto. Operare in collaborazione con la grazia non è tempo sprecato, ma condizione necessaria per salvarci. La grazia è gratuita, ma non ci salviamo senza le opere.

Fare la propria volontà non è necessariamente superbia se questa volontà è conforme alla volontà di Dio. Affermare se stessi non è necessariamente negare Dio, se questa affermazione di sé è regolata dalla volontà di Dio. Per essere liberi non occorre essere atei, anzi è veramente libero chi si sottomette a Dio. La mortificazione non è il suicidio, ma il togliere da noi ciò che non piace a Dio. I voti religiosi non reprimono la nostra personalità, ma la esaltano.


Note:


[1] Intervista durante il volo di ritorno dall’Armenia del 26 giugno 2016.

[2] Cf P. Alféri, Guillaume d’Ockham. Le singuler, Les Éditions de minuit, Paris 1989; Orlando Todisco, G. Duns Scoto e Guglielmo d’Occam. Dall’ontologia alla filosofia del linguaggio, Libreria Universitaria, Cassino 1989.

[3] Il Padre Serafino Lanzetta sostiene che se un Papa nel suo insegnamento devìa dalla dottrina della Chiesa, è un eretico che dev’essere corretto. Padre Lanzetta immagina che ciò possa avvenire in un atto del Magistero, cosa in realtà mai avvenuta, indimostrabile e che non può avvenire perché vorrebbe dire che Cristo ha pronunciato invano quel confirma fratres tuos, ma può succedere al di fuori degli atti magisteriali, anche della più bassa autorità. Vedi il suo libro, peraltro ricco di ottime cose, Super hanc petram. Il Papa e la Chiesa in un’ora drammatica della storia, Edizioni Fiducia, Roma 2022.

[4] Come risulta dalla Nota illustrativa della Congregazione per la Dottrina della Fede alla Lettera apostolica di San Giovanni Paolo II Ad tuendam fidem.

[5] Cf Mt 9,2.6; Lc 1,77; 5,21; At 2,38; 10,43; 26,18; Ef 1,7; Col 1,14; I Gv 2,12.

[6] Cf Gb 7,21; Sal 51,3; 85,3; 109,14; Is 43,25; At 3,19.

[7] Sir 20,24; Ger 2,22; II Cor 7,1;

[8] Sap 7,22.26; 8,20; 10, 5.15; Sir 31,8; 40,19; Ef 5,27; I Tm 6,14; Eb 7,26; 9,14; 13,4; Gc 1,27; I Pt 1,19; II Pt 3,14; Ap 14,5.

[9] Il Santo Padre nell’intervista durante il volo di ritorno dall’Armenia del 26 giugno 2016 ha detto: «oggi luterani e cattolici, con tutti i protestanti, siamo d’accordo sulla dottrina della giustificazione: su questo punto tanto importante lui non aveva sbagliato». Questa affermazione del Papa, che è pura sua opinione, senza valore magisteriale, non corrisponde alla realtà. Il Concilio di Trento, come è noto, condanna la dottrina luterana della giustificazione con le seguenti parole: «causa formalis iustificationis est “iustitia Dei qua … renovamur spiritu mentis nostrae et non modo reputamur, sed vere iusti nominamur et sumus, iustitiam in nobis recipientes unusquisque suam .. secundum propriam uniuscuiusque dispositionem et cooperationem» (Denz.1529). «Fides, nisi ad eam spes accedat et caritas, neque unit perfecte cum Christo, neque corporis eius membrum vivum efficit» (Denz.1531).

[10] La Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione fatta dal Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani e la Federazione Luterana Mondiale del 31 ottobre 1999 mette in luce i punti di contatto fra cattolici e luterani, ma non registra alcun passo di questi ultimi verso la piena comunione con la Chiesa cattolica. D’altra parte, come recita il titolo del documento, non si tratta di un documento del Magistero, ma di un semplice «consiglio», anche se ovviamente ha ottenuto l’approvazione del Papa.

[11] Questa causalità divina fu chiamata «premozione fisica» dal teologo domenicano del sec.XVI Domingo Bañez, per la verità con un’espressione non molto felice, ma metafisicamente esatta, ossia Dio muove il libero arbitrio a muoversi al bene, da cui il prefisso «pre».

[12] Vedi per esempio il testo della Confessione Augustana del 1530 pubblicato presso Marzorati di Milano 1943 da Mario Bendiscioli; Dizionario del pensiero protestante, Editrice Herder-Morcelliana, Brescia 1970.



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