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Da diversi decenni la questione dei Santi all'interno della predicazione della Chiesa (non parliamo di quella dei mistici) sembra essere passata in secondo piano, per non dire quasi del tutto (e volontariamente) cassata, tutt'al più relegata a una dimensione puramente museale o storiografica e, come ogni “classico” che si rispetti, ridimensionata ad argomento di sola conversazione tra “specialisti” del settore. Niente, cioè, di vivo e palpitante ora nel Corpo Mistico, ma qualcosa, al massimo, di storicamente avvenuto, dunque di morto. E più volentieri avvenuto nel pensiero e nella “coscienza storica”, cioè più nell'interpretazione che non nella realtà dei fatti (di carne e sangue) che il cattolicesimo debole tende nietzscheanamente a sminuire. Dunque, in questa lenta ma implacabile rotazione dell'asse del Trascendente nell'immanente, ecco l'apparizione del sosia, il “Santo della porta accanto”, come ha ben visto Cristina Siccardi.

Ma questa sorta di allergia ai Santi e alla santità – allergia che certamente è un prodotto della secolarizzazione, del trionfo dello spirito della modernità, della comoda società della tecnica vissuta come la distruttrice di ogni fede nel Trascendente – vista più da vicino sembra rivelarsi purtroppo come un’allergia, direttamente, al Signore come segno di contraddizione. Parole Sue, queste ultime, pronunciate per bocca del profeta Simeone e da non prendere, come siamo soliti fare, tanto alla leggera: alla lettera, il Signore “è posto […] come un segno che parla-contro” (εἰς σημεῖον ἀντι-λεγόμενον). E contro chi altri, se non contro tutti noi? È un problema più vasto che interpella da sempre la coscienza cristiana e che passa proprio dal nostro rapporto con il Signore, che, sì, ci ama, ci salva e ci indica l'autentica destinazione, eppure anche “ci contraddice”, ci “parla contro”. Il Signore infatti ci mette, e non può non metterci con la sua stessa “semplice presenza” se viviamo davanti a lui, in cattiva luce (rivelando le ombre che oscurano la nostra anima), ossia in contraddizione con Lui o se si vuole con la nostra unione ipostatica con Lui, con la nostra vita perfetta – santa – come da Lui stesso pensata per noi dall'eternità e per l'eternità (la nostra “forma eterna”).


Come potrebbe del resto non apparirci problematica la vita se – anche solo per un attimo, con gli occhi dell’anima disincarnata – potessimo vedere il Signore vivo e vero, sempre costantemente presente a fianco a noi? Come potremmo non trovarci in imbarazzo, continuare a parlare, agire e pensare come siamo soliti fare, se dovessimo considerare che in ogni istante della nostra vita, attraverso l’Angelo custode che ci ha messo a fianco, il Signore è sempre pazientemente lì, di fianco a noi, a compiacersi ma molto più spesso a dispiacersi dei suoi figli?


Più banalmente, chi vive davvero davanti al Signore è posto continuamente in una santa contraddizione con Lui che ha la forma di un “appello”, che risuona nella coscienza. Questa posizione ovviamente può rimanerci indifferente – non interpellarci in alcun modo – se questo rapporto, quest'invisibile incontro con Lui è stato in qualche modo disinnescato e dislocato altrove, nella coscienza che ha già rinunciato al Trascendente per l'immanente, alla vera vita dello spirito per quella della carne o comunque per una vita tiepida, puramente formale e farisaica. Ciò accade quando il Signore, così si sente dire spesso rispetto al sacramento della Confessione, non ci fa gran problema: “io non ho mai peccati da confessare”, oppure “non so mai cosa confessare… rubare non ho rubato, ammazzare non ho ammazzato...” e come il pubblicano della parabola ci sentiamo giusti (abbiamo fatto tutti i compiti!) e ringraziamo il Signore di non averci fatto come quel pubblicano disgraziato che, come "il perdente" che è, pensiamo, si batte inutilmente il petto, dimenticandoci che fu proprio quest'ultimo ad andarsene giustificato. Perché il buono-buono, come ha detto padre Giuseppe Barzaghi, agli occhi di Dio non esiste. Il buono, agli occhi di Dio, è sempre un convertito, un cattivo che è diventato buono (e che resta pursempre in via...), è il peccatore convertito. Ancora, Padre Pio diceva che il penitente dispiaciuto dei suoi peccati è più vicino a Dio dell'uomo che si vanta delle proprie opere.


Dunque tutti santi e che non sanno nemmeno di esserlo? O piuttosto quando il Signore non fa problema è segno certo che non siamo in rapporto con Lui, e questo è il problema di tutti i problemi? Quello di un’estraneità, assieme al peccato, non più avvertiti nemmeno come tali? Nemmeno i Santi, che di certo hanno vissuto la loro vita di fronte al Signore, hanno mai sperimentato una pura e semplice assenza di problemi. È sempre stato vero il contrario. E questo perché la vita di fede è sempre intrinsecamente problematica, sempre massimamente in “pericolo” e in qualche modo a un passo dallo “scacco”, sempre tentata dalla disperazione lungo i deserti e le notti che non sembrano mai finire. L'incontro con il Signore – quando riusciamo a udire la voce della sua chiamata – ci pone inevitabilmente di fronte all'accettazione di quella che padre Giovanni Cavalcoli ha chiamato una “misurata instabilità”, misurata perché accompagnata e corretta via via con gli strumenti della Grazia (la Confessione, la Comunione, la preghiera...), instabilità perché il nostro rapporto con il Signore, finché restiamo sulla terra, è posto dentro l'insuperabile mutevolezza e problematicità degli eventi che si danno nel tempo.


È risaputo ad esempio che Padre Pio si confessasse di frequente, più delle due volte settimanali previste dalla regola e approfittando, per la confessione, di quasi ogni prete che si trovava a passare da S. Giovanni Rotondo. Questi gli dicevano di non trovare, in quanto diceva il Santo, "alcuna materia di confessione. Questi non sono peccati". Ma Padre Pio rispondeva loro che "Gesù sapeva, e lo sapevo bene anche io, che in quella determinata circostanza potevo fare di più e meglio" perché, ecco il punto, "la confessione seve a migliorarci". Ad abitare con equilibrio e buona volontà questa santa e provvidenziale contra-dizione col Signore senza la quale saremmo perduti. Perché, se anche mantenendoci a distanza da Lui possiamo apparire giusti e perfetti agli occhi degli uomini, gli uomini non ci salveranno. Ed entrare e rimanere nella zona di contra-dizione e di pericolo, cioè al Suo cospetto, costa fatica, è uno sforzo e un farsi violenza che consegue degli effetti, da un punto di vista soggettivo, paradossalmente negativi: "È un fatto psicologico", scriveva il ven. Fulton J. Sheen, "che più noi serviamo il Corpo Mistico di Cristo, maggiore è lo scontento di noi stessi; più ci avviciniamo a Lui, più ci convinciamo di non saper far niente…" e viceversa, "più ci allontaniamo dall’ideale Divino più vantiamo le nostre perfezioni. Ma più ci avviciniamo a Cristo e più distinguiamo le nostre imperfezioni. Questo è il nostro tormento. Nessuno si sente sicuro della propria innocenza di fronte alla Purezza Assoluta, ma tutti chiedono con gli apostoli: “Sono forse io Signore? Sono io?”, cioè il traditore che non vive di fronte a Lui.


Più di due secoli fa, un poeta che "stava pensando di farsi cattolico" ma fu raggiunto prima dalla follia, Friedrich Hölderlin, aveva compreso poeticamente l'importanza di questa zona di confine, quando nel suo Inno intitolato Patmo scriveva che solo "dove cresce il pericolo", cioè per noi vivendo al cospetto del Signore, "cresce anche ciò che salva", ossia i meriti e il tesoro di misericordia accumulati qui per la vita eterna.


Vicino
e difficile da afferrare è il Dio.
Ma dove cresce il pericolo, cresce
anche ciò che salva
(Patmo)

La camera di Maria Valtorta (© Fondazione Valtorta)
La camera di Maria Valtorta (© Fondazione Valtorta)

Lo scarno ed inesaustivo Comunicato del Dicastero per la Dottrina della Fede del 22 Febbraio 2025 dal titolo Circa gli scritti di Maria Valtorta, parlando di “semplici forme letterarie di cui si è servita l’Autrice per narrare, a modo suo, la vita di Gesù Cristo”, accostandola poi a quei testi che “nella sua lunga tradizione la Chiesa non accetta come normativi”, ossia “i Vangeli apocrifi”, ha riaperto il vaso di Pandora della “pubblica opinione” con un’escalation di dichiarazioni d'indipendenza dalla mistica (la Valtorta, e più in generale, fors'anche, dall'intera branca teologica) da parte di religiosi e sacerdoti diocesani, giovani e meno giovani, con il seguito di semplici fedeli e cooperatori vari che, forse ansiosi di non apparire sempliciotti oscurantisti medievali (siamo nel 2025, o nell'anno 60°, circa, dal Concilio Vaticano II), e del tutto dimentichi dei vari Padri Agostino Gemelli e delle persecuzioni di grandi anime mistiche quali ad esempio Padre Pio e don Dolindo Ruotolo, si affrettano a dichiarare con certo compiacimento il proprio scetticismo, o plus-realismo rispetto al Re che dir si voglia.

Il Comunicato ricalca, a ben vedere, le parole dell’allora Segretario Generale della CEI, Dionigi Tettamanzi, in una lettera del 6 maggio 1992 all'editore dell'opera valtortiana: «Proprio per il vero bene dei lettori e nello spirito di un autentico servizio alla fede della Chiesa, sono a chiederLe che, in un’eventuale ristampa dei volumi, si dica con chiarezza fin dalle prime pagine che le ‘visioni’ e i ‘dettati’ in essi riferiti non possono essere ritenuti di origine soprannaturale, ma devono essere considerati semplicemente forme letterarie di cui si è servita l’Autrice per narrare, a modo suo, la vita di Gesù»; parole a loro volta in linea con la condanna espressa nel 1985 dall’allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede (CDF) Cardinal Ratzinger, in una lettera al Cardinal Siri di Genova: la messa all’Indice dell’Opera valtortiana conservava intatta dopo vent'anni «tutto il suo valore morale». Dunque, confermava il futuro Papa Benedetto XVI, «non si ritiene opportuna la diffusione e raccomandazione di un’Opera la cui condanna non fu presa alla leggera ma dopo ponderate motivazioni al fine di neutralizzare i danni che tale pubblicazione può arrecare ai fedeli più sprovveduti».

Proprio al cardinale Siri una trentina d'anni prima, nel 1956, era stato chiesto di scrivere una prefazione al testo della Valtorta, testo da cui affermava d'aver ricevuto «un’impressione eccellente», così da poter dare una sorta di imprimatur. Ma il cardinale aveva dovuto desistere non appena l’Opera era stata avocata a sé dalla Suprema Congregazione del Sant’Uffizio, che con decreto del 16 dicembre 1959 non concedeva l’imprimatur e anzi la inseriva nell’Indice dei Libri proibiti. Un articolo, non firmato, del 5 gennaio 1960 sull’Osservatore Romano spiegava, si fa per dire, il perché: «Una vita di Gesù malamente romanzata […] una lunga e prolissa vita di Gesù […] Alcune pagine, poi, sono piuttosto scabrose. […] potrebbe facilmente pervenire nelle mani delle religiose e delle alunne dei loro collegi […] gli specialisti di studi biblici vi troveranno certamente molti svarioni storici, geografici e simili […] avrebbe meritato una condanna anche se si fosse trattato soltanto di un romanzo, se non altro per motivi di irriverenza». Nel 1966 l'Indice sarebbe stato poi formalmente abolito, anche se «Mons. Pasquale Macchi, segretario particolare di Papa Paolo VI, aveva confermato già nel 1963, nel corso di un lungo incontro col Padre Berti, che l'opera di Maria Valtorta non era, in effetti, all'Indice (che già era stato abolito) ed aveva menzionato che il Papa, allora arcivescovo di Milano, aveva letto uno dei quattro volumi dell'opera di Maria Valtorta ed aveva donato l'opera completa al seminario Maggiore».

Anni prima Papa Pio XII aveva ricevuto il manoscritto della Valtorta dalle mani del suo confessore, il futuro Cardinale Padre Agostino Bea e il suo giudizio era favorevole. Con l'unica riserva di cassare la presentazione, in cui si parlava di fenomeno soprannaturale, consigliò di pubblicare l'opera senza togliere nulla, nemmeno dove la Valtorta dichiarava di riportare "visioni" e "dettati". Per il Papa evidentemente, le antenne del sensus fidei dei battezzati avrebbero fatto il resto: “Pubblicate l'opera così com'è. Non vi è motivo di esprimere un'opinione quanto alla sua origine, che sia straordinaria o no. Chi legge capirà”, disinnescando così, con un'accogliente prudenza, sia il fanatismo da esaltati che il pregiudizio scettico e aprioristico così tanto in voga ancora oggi.

Padre Pio da Pietrelcina, un anno prima della sua morte nel 1967, a una penitente di nome Elisa Lucchi che gli chiedeva il permesso di leggere L'Evangelo come mi è stato rivelato, rispondeva: “Non solo vi permetto di leggerlo, ma ve lo raccomando”.

Uno dei più insigni ed eruditi mariologi del Novecento, padre Gabriele M. Roschini (OSM), all’inizio della sua opera mariologica, La Madonna negli scritti di Maria Valtorta (1973), confessava di non aver mai trovato rappresentata prima – in decenni di ricerche e studi – una così vivida e compiuta immagine della SS. Vergine, e di esserci arrivato solo dopo aver vinto delle importanti resistenze interiori: «Anch'io, infatti, sono stato, un tempo, tra coloro che, senza un'adeguata conoscenza dei suoi scritti, hanno avuto un sorrisolino di diffidenza nei riguardi dei medesimi. Ma dopo averli letti e ponderati, ho dovuto come tanti altri lealmente riconoscere di essere stato troppo corrivo; e ho dovuto concludere: Chi vuol conoscere la Madonna (una Madonna in perfetta sintonia col Magistero ecclesiastico, particolarmente col Concilio Vaticano II, con la S. Scrittura e la Tradizione ecclesiastica) legga la Mariologia della Valtorta! […] giacché la Vergine Maria nell'opera di Maria Valtorta è più importante dei miei libri… la mariologia che scaturisce dagli scritti pubblicati e inediti di Maria Valtorta è stata per me una vera scoperta. Nessun altro scritto mariano, nemmeno la somma di tutti quelli che ho letto e studiato, era stato in grado di darmi su Maria, capolavoro di Dio, un'idea così chiara, così viva, così completa, così luminosa e anche affascinante, e nello stesso tempo semplice e sublime, come gli scritti di Maria Valtorta». Maria Valtorta è dunque da annoverare tra «i diciotto principali mistici (mariani) dei tempi antichi e moderni […] A chi poi volesse vedere, in questa mia asserzione, uno dei soliti iperbolici slogan pubblicitari, non ho da dare che una sola risposta: Legga, e poi giudichi!».


Da tempo nel mondo cattolico esiste un sospetto per il misticismo che non di rado, e più volentieri all’interno del clero medesimo, tende a cedere a un anti-misticismo dalle tinte isteriche. Proprio coloro i quali, si ritiene, dovrebbero avere innata una sana curiositas per i fatti evangelici “così come accaddero” e dovrebbero letteralmente ardere dal desiderio di conoscenza per quello che è malamente definito il “Gesù storico” ― non c’è una condivisa e viscerale passione, ad esempio, per quelle opere cinematografiche che cercano di restituirci vis a vis il Signore e il suo transito terreno, cito su tutti per accuratezza e “adesione” The Passion di Mel Gibson, dopo la cui visione un sacerdote mi confidò di aver pianto per tre giorni? ―, ebbene costoro sono i primi a incupirsi e a mettersi insensatamente di traverso al solo udire le parole “mistica” e “rivelazioni private”: «Dopo l'ultima uscita del Card. Fernandez e le obiezioni assurde di tanti che della Valtorta non hanno letto una riga e non conoscono gli studi di insigni teologi in materia», scrive sui social il teologo don Alfredo Maria Morselli, «questa grande donna mi sta diventando sempre più simpatica e sto pensando che ci sono molte probabilità che sia una vera mistica. Una opposizione che puzza di saccenteria sulfurea: in apologetica si dice probatio ex adversariis. Se viene negata la soprannaturalità di un fatto, mi devi spiegare anche il perché: altrimenti ti limiti al non constat, senza dire consta non esse». Il parallelismo Valtorta-Vangeli apocrifi, per altro, si rivela una toppa peggiore del buco, ossia, continua Morselli, «contro la logica; infatti bisognerebbe provare che la Valtorta dipende da detti Vangeli, e che tutte le affermazioni contenuti negli apocrifi sono false; infatti potrebbero esserci dei testi non ispirati che narrano cose vere; e la Valtorta potrebbe aver visto queste cose realmente accadute. L'autorità della Chiesa non può e non deve intervenire a mo' del Marchese del Grillo (Io sono io e voi non siete un cavolo), ma deve spiegare ai figli quali sono gli eventuali errori. Per uno studio della questione, consiglio l'introduzione del libro del P. Gabriele Maria Roschini, La Madonna negli scritti di Maria Valtorta». E come padre Roschini, al detrattore, non abbiamo da dare che la sua stessa risposta: Legga, e poi giudichi!.


(pubblichiamo in esclusiva i capitoli Preghiere per Paolo VI e i suoi carnefici e Morte di Papa Montini dal libro Roberto Bigini, Fatta di terra, rivestita di Cielo. Storia della mistica Antonietta De Vitis, Congedo Editore, Lecce 2024, pp. 152-153 e 154-155)



1978, annus horribilis per la Chiesa e per Papa Paolo VI, dichiarato Santo nel 2018, in particolare. Il “fumo di satana” previsto anni prima dal pontefice sta ora avvolgendo la Santa Chiesa e Antonietta è tenuta a offrire il suo contributo: «Ore 14. È l’ora della mia preghiera e mentre prego e piango raccolta mi investe un bagliore che a poco a poco si delinea nella figura del mio Gesù; è Lui che mi dice con voce dolcissima: “Sono il tuo Gesù, non temere Gemmina mia, dolce Gemmina della Croce, fidati di me, è vero che soffri di più, che ti calunniano, che il mio nemico

ti insidia ma è anche vero che i buoni sono accanto a te e ti vogliono bene. Dolce Gemmina, accetta, accetta la sofferenza che ti dono, è necessaria per aiutare la mia Chiesa avvolta dalle tenebre, per il mio Vicario, il Papa che tanto soffre, specialmente per coloro che gli sono vicini… sono i suoi carnefici. Gemmina offri per i miei sacerdoti… (Gesù singhiozza e piange e al vederlo così piango anch’io); le

anime vittime sono poche, sempre di meno. Chiedo a Gesù se queste mie sofferenze sono le ultime, ma Egli mi guarda e tace… poi mi porta sul Suo Cuore, mi benedice e sono sola. Ore 16,20» 258.


 258  Quaderni, 6 febbraio 1978.


 

Pochi mesi dopo, precisamente domenica 6 agosto alle ore 20.10, Antonietta è portata al capezzale del Papa morente: «Viene il Signore e prendendomi in braccio mi porta al capezzale di Papa Montini dicendomi che era molto grave. Trovo seduta accanto al suo letto la Vergine Santa vestita con un abito color granata e il velo azzurro. Insieme recitiamo le preghiere degli agonizzanti. Ore 22.00.

Il Signore mi porta di nuovo accanto al letto del Sommo Pontefice Paolo VI che è ormai spirato. Il Signore me lo addita come Martire e Padre della sofferenza. Recitiamo il S. Rosario e le preghiere di suffragio»; il 18 agosto le appare Papa Montini a rassicurare Antonietta sui suoi quaderni (quelli prelevati dal suo ex direttore spirituale e ormai perduti): «Ecco ora vicino al mio letto Papa Montini,

vestito da Pontefice della Chiesa di Dio, il quale non mi si avvicina ma con molta dolcezza mi dice: “Non piangere figlia mia, fatti coraggio, i tuoi scritti li abbiamo cari in Vaticano. Le tue sofferenze sono tanto accettate al Signore, vieni, vedi questo è tuo… (e vedo una grande camera abbagliante di luce e piena di tante cose che non riesco a distinguere). Non piangere, accetta tutte le prove, ecco ti benedico.” Così dicendo mi benedice con la benedizione papale. Ore 15.00» 260.


260 Quaderni, 18 agosto 1978


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