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Da diversi decenni la questione dei Santi all'interno della predicazione della Chiesa (non parliamo di quella dei mistici) sembra essere passata in secondo piano, per non dire quasi del tutto (e volontariamente) cassata, tutt'al più relegata a una dimensione puramente museale o storiografica e, come ogni “classico” che si rispetti, ridimensionata ad argomento di sola conversazione tra “specialisti” del settore. Niente, cioè, di vivo e palpitante ora nel Corpo Mistico, ma qualcosa, al massimo, di storicamente avvenuto, dunque di morto. E più volentieri avvenuto nel pensiero e nella “coscienza storica”, cioè più nell'interpretazione che non nella realtà dei fatti (di carne e sangue) che il cattolicesimo debole tende nietzscheanamente a sminuire. Dunque, in questa lenta ma implacabile rotazione dell'asse del Trascendente nell'immanente, ecco l'apparizione del sosia, il “Santo della porta accanto”, come ha ben visto Cristina Siccardi.

Ma questa sorta di allergia ai Santi e alla santità – allergia che certamente è un prodotto della secolarizzazione, del trionfo dello spirito della modernità, della comoda società della tecnica vissuta come la distruttrice di ogni fede nel Trascendente – vista più da vicino sembra rivelarsi purtroppo come un’allergia, direttamente, al Signore come segno di contraddizione. Parole Sue, queste ultime, pronunciate per bocca del profeta Simeone e da non prendere, come siamo soliti fare, tanto alla leggera: alla lettera, il Signore “è posto […] come un segno che parla-contro” (εἰς σημεῖον ἀντι-λεγόμενον). E contro chi altri, se non contro tutti noi? È un problema più vasto che interpella da sempre la coscienza cristiana e che passa proprio dal nostro rapporto con il Signore, che, sì, ci ama, ci salva e ci indica l'autentica destinazione, eppure anche “ci contraddice”, ci “parla contro”. Il Signore infatti ci mette, e non può non metterci con la sua stessa “semplice presenza” se viviamo davanti a lui, in cattiva luce (rivelando le ombre che oscurano la nostra anima), ossia in contraddizione con Lui o se si vuole con la nostra unione ipostatica con Lui, con la nostra vita perfetta – santa – come da Lui stesso pensata per noi dall'eternità e per l'eternità (la nostra “forma eterna”).


Come potrebbe del resto non apparirci problematica la vita se – anche solo per un attimo, con gli occhi dell’anima disincarnata – potessimo vedere il Signore vivo e vero, sempre costantemente presente a fianco a noi? Come potremmo non trovarci in imbarazzo, continuare a parlare, agire e pensare come siamo soliti fare, se dovessimo considerare che in ogni istante della nostra vita, attraverso l’Angelo custode che ci ha messo a fianco, il Signore è sempre pazientemente lì, di fianco a noi, a compiacersi ma molto più spesso a dispiacersi dei suoi figli?


Più banalmente, chi vive davvero davanti al Signore è posto continuamente in una santa contraddizione con Lui che ha la forma di un “appello”, che risuona nella coscienza. Questa posizione ovviamente può rimanerci indifferente – non interpellarci in alcun modo – se questo rapporto, quest'invisibile incontro con Lui è stato in qualche modo disinnescato e dislocato altrove, nella coscienza che ha già rinunciato al Trascendente per l'immanente, alla vera vita dello spirito per quella della carne o comunque per una vita tiepida, puramente formale e farisaica. Ciò accade quando il Signore, così si sente dire spesso rispetto al sacramento della Confessione, non ci fa gran problema: “io non ho mai peccati da confessare”, oppure “non so mai cosa confessare… rubare non ho rubato, ammazzare non ho ammazzato...” e come il pubblicano della parabola ci sentiamo giusti (abbiamo fatto tutti i compiti!) e ringraziamo il Signore di non averci fatto come quel pubblicano disgraziato che, come "il perdente" che è, pensiamo, si batte inutilmente il petto, dimenticandoci che fu proprio quest'ultimo ad andarsene giustificato. Perché il buono-buono, come ha detto padre Giuseppe Barzaghi, agli occhi di Dio non esiste. Il buono, agli occhi di Dio, è sempre un convertito, un cattivo che è diventato buono (e che resta pursempre in via...), è il peccatore convertito. Ancora, Padre Pio diceva che il penitente dispiaciuto dei suoi peccati è più vicino a Dio dell'uomo che si vanta delle proprie opere.


Dunque tutti santi e che non sanno nemmeno di esserlo? O piuttosto quando il Signore non fa problema è segno certo che non siamo in rapporto con Lui, e questo è il problema di tutti i problemi? Quello di un’estraneità, assieme al peccato, non più avvertiti nemmeno come tali? Nemmeno i Santi, che di certo hanno vissuto la loro vita di fronte al Signore, hanno mai sperimentato una pura e semplice assenza di problemi. È sempre stato vero il contrario. E questo perché la vita di fede è sempre intrinsecamente problematica, sempre massimamente in “pericolo” e in qualche modo a un passo dallo “scacco”, sempre tentata dalla disperazione lungo i deserti e le notti che non sembrano mai finire. L'incontro con il Signore – quando riusciamo a udire la voce della sua chiamata – ci pone inevitabilmente di fronte all'accettazione di quella che padre Giovanni Cavalcoli ha chiamato una “misurata instabilità”, misurata perché accompagnata e corretta via via con gli strumenti della Grazia (la Confessione, la Comunione, la preghiera...), instabilità perché il nostro rapporto con il Signore, finché restiamo sulla terra, è posto dentro l'insuperabile mutevolezza e problematicità degli eventi che si danno nel tempo.


È risaputo ad esempio che Padre Pio si confessasse di frequente, più delle due volte settimanali previste dalla regola e approfittando, per la confessione, di quasi ogni prete che si trovava a passare da S. Giovanni Rotondo. Questi gli dicevano di non trovare, in quanto diceva il Santo, "alcuna materia di confessione. Questi non sono peccati". Ma Padre Pio rispondeva loro che "Gesù sapeva, e lo sapevo bene anche io, che in quella determinata circostanza potevo fare di più e meglio" perché, ecco il punto, "la confessione seve a migliorarci". Ad abitare con equilibrio e buona volontà questa santa e provvidenziale contra-dizione col Signore senza la quale saremmo perduti. Perché, se anche mantenendoci a distanza da Lui possiamo apparire giusti e perfetti agli occhi degli uomini, gli uomini non ci salveranno. Ed entrare e rimanere nella zona di contra-dizione e di pericolo, cioè al Suo cospetto, costa fatica, è uno sforzo e un farsi violenza che consegue degli effetti, da un punto di vista soggettivo, paradossalmente negativi: "È un fatto psicologico", scriveva il ven. Fulton J. Sheen, "che più noi serviamo il Corpo Mistico di Cristo, maggiore è lo scontento di noi stessi; più ci avviciniamo a Lui, più ci convinciamo di non saper far niente…" e viceversa, "più ci allontaniamo dall’ideale Divino più vantiamo le nostre perfezioni. Ma più ci avviciniamo a Cristo e più distinguiamo le nostre imperfezioni. Questo è il nostro tormento. Nessuno si sente sicuro della propria innocenza di fronte alla Purezza Assoluta, ma tutti chiedono con gli apostoli: “Sono forse io Signore? Sono io?”, cioè il traditore che non vive di fronte a Lui.


Più di due secoli fa, un poeta che "stava pensando di farsi cattolico" ma fu raggiunto prima dalla follia, Friedrich Hölderlin, aveva compreso poeticamente l'importanza di questa zona di confine, quando nel suo Inno intitolato Patmo scriveva che solo "dove cresce il pericolo", cioè per noi vivendo al cospetto del Signore, "cresce anche ciò che salva", ossia i meriti e il tesoro di misericordia accumulati qui per la vita eterna.


Vicino
e difficile da afferrare è il Dio.
Ma dove cresce il pericolo, cresce
anche ciò che salva
(Patmo)

La camera di Maria Valtorta (© Fondazione Valtorta)
La camera di Maria Valtorta (© Fondazione Valtorta)

Lo scarno ed inesaustivo Comunicato del Dicastero per la Dottrina della Fede del 22 Febbraio 2025 dal titolo Circa gli scritti di Maria Valtorta, parlando di “semplici forme letterarie di cui si è servita l’Autrice per narrare, a modo suo, la vita di Gesù Cristo”, accostandola poi a quei testi che “nella sua lunga tradizione la Chiesa non accetta come normativi”, ossia “i Vangeli apocrifi”, ha riaperto il vaso di Pandora della “pubblica opinione” con un’escalation di dichiarazioni d'indipendenza dalla mistica (la Valtorta, e più in generale, fors'anche, dall'intera branca teologica) da parte di religiosi e sacerdoti diocesani, giovani e meno giovani, con il seguito di semplici fedeli e cooperatori vari che, forse ansiosi di non apparire sempliciotti oscurantisti medievali (siamo nel 2025, o nell'anno 60°, circa, dal Concilio Vaticano II), e del tutto dimentichi dei vari Padri Agostino Gemelli e delle persecuzioni di grandi anime mistiche quali ad esempio Padre Pio e don Dolindo Ruotolo, si affrettano a dichiarare con certo compiacimento il proprio scetticismo, o plus-realismo rispetto al Re che dir si voglia.

Il Comunicato ricalca, a ben vedere, le parole dell’allora Segretario Generale della CEI, Dionigi Tettamanzi, in una lettera del 6 maggio 1992 all'editore dell'opera valtortiana: «Proprio per il vero bene dei lettori e nello spirito di un autentico servizio alla fede della Chiesa, sono a chiederLe che, in un’eventuale ristampa dei volumi, si dica con chiarezza fin dalle prime pagine che le ‘visioni’ e i ‘dettati’ in essi riferiti non possono essere ritenuti di origine soprannaturale, ma devono essere considerati semplicemente forme letterarie di cui si è servita l’Autrice per narrare, a modo suo, la vita di Gesù»; parole a loro volta in linea con la condanna espressa nel 1985 dall’allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede (CDF) Cardinal Ratzinger, in una lettera al Cardinal Siri di Genova: la messa all’Indice dell’Opera valtortiana conservava intatta dopo vent'anni «tutto il suo valore morale». Dunque, confermava il futuro Papa Benedetto XVI, «non si ritiene opportuna la diffusione e raccomandazione di un’Opera la cui condanna non fu presa alla leggera ma dopo ponderate motivazioni al fine di neutralizzare i danni che tale pubblicazione può arrecare ai fedeli più sprovveduti».

Proprio al cardinale Siri una trentina d'anni prima, nel 1956, era stato chiesto di scrivere una prefazione al testo della Valtorta, testo da cui affermava d'aver ricevuto «un’impressione eccellente», così da poter dare una sorta di imprimatur. Ma il cardinale aveva dovuto desistere non appena l’Opera era stata avocata a sé dalla Suprema Congregazione del Sant’Uffizio, che con decreto del 16 dicembre 1959 non concedeva l’imprimatur e anzi la inseriva nell’Indice dei Libri proibiti. Un articolo, non firmato, del 5 gennaio 1960 sull’Osservatore Romano spiegava, si fa per dire, il perché: «Una vita di Gesù malamente romanzata […] una lunga e prolissa vita di Gesù […] Alcune pagine, poi, sono piuttosto scabrose. […] potrebbe facilmente pervenire nelle mani delle religiose e delle alunne dei loro collegi […] gli specialisti di studi biblici vi troveranno certamente molti svarioni storici, geografici e simili […] avrebbe meritato una condanna anche se si fosse trattato soltanto di un romanzo, se non altro per motivi di irriverenza». Nel 1966 l'Indice sarebbe stato poi formalmente abolito, anche se «Mons. Pasquale Macchi, segretario particolare di Papa Paolo VI, aveva confermato già nel 1963, nel corso di un lungo incontro col Padre Berti, che l'opera di Maria Valtorta non era, in effetti, all'Indice (che già era stato abolito) ed aveva menzionato che il Papa, allora arcivescovo di Milano, aveva letto uno dei quattro volumi dell'opera di Maria Valtorta ed aveva donato l'opera completa al seminario Maggiore».

Anni prima Papa Pio XII aveva ricevuto il manoscritto della Valtorta dalle mani del suo confessore, il futuro Cardinale Padre Agostino Bea e il suo giudizio era favorevole. Con l'unica riserva di cassare la presentazione, in cui si parlava di fenomeno soprannaturale, consigliò di pubblicare l'opera senza togliere nulla, nemmeno dove la Valtorta dichiarava di riportare "visioni" e "dettati". Per il Papa evidentemente, le antenne del sensus fidei dei battezzati avrebbero fatto il resto: “Pubblicate l'opera così com'è. Non vi è motivo di esprimere un'opinione quanto alla sua origine, che sia straordinaria o no. Chi legge capirà”, disinnescando così, con un'accogliente prudenza, sia il fanatismo da esaltati che il pregiudizio scettico e aprioristico così tanto in voga ancora oggi.

Padre Pio da Pietrelcina, un anno prima della sua morte nel 1967, a una penitente di nome Elisa Lucchi che gli chiedeva il permesso di leggere L'Evangelo come mi è stato rivelato, rispondeva: “Non solo vi permetto di leggerlo, ma ve lo raccomando”.

Uno dei più insigni ed eruditi mariologi del Novecento, padre Gabriele M. Roschini (OSM), all’inizio della sua opera mariologica, La Madonna negli scritti di Maria Valtorta (1973), confessava di non aver mai trovato rappresentata prima – in decenni di ricerche e studi – una così vivida e compiuta immagine della SS. Vergine, e di esserci arrivato solo dopo aver vinto delle importanti resistenze interiori: «Anch'io, infatti, sono stato, un tempo, tra coloro che, senza un'adeguata conoscenza dei suoi scritti, hanno avuto un sorrisolino di diffidenza nei riguardi dei medesimi. Ma dopo averli letti e ponderati, ho dovuto come tanti altri lealmente riconoscere di essere stato troppo corrivo; e ho dovuto concludere: Chi vuol conoscere la Madonna (una Madonna in perfetta sintonia col Magistero ecclesiastico, particolarmente col Concilio Vaticano II, con la S. Scrittura e la Tradizione ecclesiastica) legga la Mariologia della Valtorta! […] giacché la Vergine Maria nell'opera di Maria Valtorta è più importante dei miei libri… la mariologia che scaturisce dagli scritti pubblicati e inediti di Maria Valtorta è stata per me una vera scoperta. Nessun altro scritto mariano, nemmeno la somma di tutti quelli che ho letto e studiato, era stato in grado di darmi su Maria, capolavoro di Dio, un'idea così chiara, così viva, così completa, così luminosa e anche affascinante, e nello stesso tempo semplice e sublime, come gli scritti di Maria Valtorta». Maria Valtorta è dunque da annoverare tra «i diciotto principali mistici (mariani) dei tempi antichi e moderni […] A chi poi volesse vedere, in questa mia asserzione, uno dei soliti iperbolici slogan pubblicitari, non ho da dare che una sola risposta: Legga, e poi giudichi!».


Da tempo nel mondo cattolico esiste un sospetto per il misticismo che non di rado, e più volentieri all’interno del clero medesimo, tende a cedere a un anti-misticismo dalle tinte isteriche. Proprio coloro i quali, si ritiene, dovrebbero avere innata una sana curiositas per i fatti evangelici “così come accaddero” e dovrebbero letteralmente ardere dal desiderio di conoscenza per quello che è malamente definito il “Gesù storico” ― non c’è una condivisa e viscerale passione, ad esempio, per quelle opere cinematografiche che cercano di restituirci vis a vis il Signore e il suo transito terreno, cito su tutti per accuratezza e “adesione” The Passion di Mel Gibson, dopo la cui visione un sacerdote mi confidò di aver pianto per tre giorni? ―, ebbene costoro sono i primi a incupirsi e a mettersi insensatamente di traverso al solo udire le parole “mistica” e “rivelazioni private”: «Dopo l'ultima uscita del Card. Fernandez e le obiezioni assurde di tanti che della Valtorta non hanno letto una riga e non conoscono gli studi di insigni teologi in materia», scrive sui social il teologo don Alfredo Maria Morselli, «questa grande donna mi sta diventando sempre più simpatica e sto pensando che ci sono molte probabilità che sia una vera mistica. Una opposizione che puzza di saccenteria sulfurea: in apologetica si dice probatio ex adversariis. Se viene negata la soprannaturalità di un fatto, mi devi spiegare anche il perché: altrimenti ti limiti al non constat, senza dire consta non esse». Il parallelismo Valtorta-Vangeli apocrifi, per altro, si rivela una toppa peggiore del buco, ossia, continua Morselli, «contro la logica; infatti bisognerebbe provare che la Valtorta dipende da detti Vangeli, e che tutte le affermazioni contenuti negli apocrifi sono false; infatti potrebbero esserci dei testi non ispirati che narrano cose vere; e la Valtorta potrebbe aver visto queste cose realmente accadute. L'autorità della Chiesa non può e non deve intervenire a mo' del Marchese del Grillo (Io sono io e voi non siete un cavolo), ma deve spiegare ai figli quali sono gli eventuali errori. Per uno studio della questione, consiglio l'introduzione del libro del P. Gabriele Maria Roschini, La Madonna negli scritti di Maria Valtorta». E come padre Roschini, al detrattore, non abbiamo da dare che la sua stessa risposta: Legga, e poi giudichi!.




I. “L'italia perderà la guerra, il fascismo cadrà“


«La prima volta che andai a San Giovanni Rotondo, nel 1941, padre Pio mi disse delle cose che ritenevo impossibili» mi raccontò il generale dell’aeronautica Bernardo Rosini. «Per nessuna ragione al mondo avrei potuto immaginare che potessero diventare realtà. Invece, accadde tutto come lui aveva previsto. Ero giovane, avevo trovato un buon posto di lavoro nell’apparato governativo, mi ero sposato. Ero tranquillo, ma il Padre, appena mi vide, mi disse: “Caro giovanotto, se vuoi continuare ad avere un lavoro, devi lasciare il posto che occupi”. Quell’affermazione mi sbalordì. La contestai immediatamente con un certo calore. Consideravo il posto che avevo conseguito una sistemazione ideale. Inoltre ero orgoglioso di me stesso perché avevo ottenuto quell’impiego con i miei meriti, senza alcuna raccomandazione, e non avevo voglia di rimettermi a fare concorsi. Feci quindi capire, a padre Pio, che non intendevo assolutamente accettare il suo consiglio. Allora il Padre, con una certezza sconcertante, disse: “Siamo nel ’41. L’Italia perderà la guerra, il fascismo cadrà e i posti di lavoro legati al governo non esisteranno più. Tu devi entrare nell’aeronautica”.

Immagine del bombardamento di Bari del 1944

Quelle parole furono una doccia fredda. Mi sembrò che il buio più fitto scendesse non solo sul mio avvenire, ma anche su quello della nostra Patria. Allora noi italiani avevamo la certezza della vittoria. Non tanto per la forza del nostro esercito, ma perché i nostri alleati, i tedeschi, si erano impadroniti di buona parte dell’Europa centrale, avevano occupato la Polonia e la Francia, e le loro annate erano vittoriose anche sugli altri fronti. In quel momento era assurdo pensare che le parole di padre Pio avessero un senso. Ma poi i fatti gli diedero ragione. Naturalmente, seguii il suo consiglio. Entrai nell’esercito, vinsi un concorso e venni destinato alla Scuola di applicazione dell’aeronautica di Firenze. Nel 1944, in piena guerra, prestavo servizio militare presso l’aeroporto di Palese, vicino a Bari e un giorno fui salvato da morte sicura grazie a un intervento miracoloso di padre Pio. A Palese ci fu un attacco a sorpresa da parte di bombardieri americani. Provenivano dal mare ad altissima quota, e quindi non erano stati avvistati. Giunti sull’aeroporto, si buttarono giù in picchiata, sganciando decine di bombe. Sulla zona ci fu un pauroso inferno di fuoco. Tutti gli aerei italiani e tedeschi furono distrutti. Ci furono morti e feriti.

Il Generale dell'Aeronautica Militare Italiana Bernardo Rosini

Io invocavo padre Pio chiedendogli di proteggermi. A un certo momento una granata scoppiò vicino a me e numerose schegge mi sfiorarono. Una mi passò sul volto cadendomi vicino. La raccolsi e per anni la conservai. Qualche giorno dopo andai a San Giovanni Rotondo per ringraziare padre Pio. Avevo deciso di fermarmi tre giorni. Ma trascorso questo tempo, poiché mi trovavo molto bene, andai dal Padre a dirgli che mi sarei fermato ancora un giorno. “No – rispose secco –, devi lasciare San Giovanni Rotondo oggi stesso”. Cercai di insistere, ma invano. Padre Pio andò in chiesa a confessare le donne, e io rimasi in sacrestia. Volevo attenderlo per ripetergli il mio desiderio di restare ancora un po’. In sacrestia incontrai un signore di Bologna che mi raccontò un fatto inquietante. “Padre Pio – mi disse – ha il dono di conoscere anche ciò che accade molto lontano. Quando arrivai quassù la prima volta, mi aggredì con queste parole: ‘Peccato che tu sia venuto proprio oggi. Devi tornare subito a Bologna perché tuo padre è morto’. Presi il primo treno e arrivai a casa un’ora prima dei funerali”. Mentre stavo ancora parlando con quel signore, padre Pio tornò in sacrestia. Vedendomi ancora lì, con tono imperioso disse: “Devi andartene subito”. Capii che non dovevo più insistere.

Feci il viaggio in uno stato ansioso, temendo qualche disgrazia. Arrivato a casa, a Offida, trovai che tutti stavano bene e non riuscivo a spiegarmi perché il Padre mi avesse mandato via con tanta insistenza. La risposta a quei miei interrogativi l’ebbi nei giorni successivi. La stazione ferroviaria di Foggia venne bombardata e completamente distrutta. Ci furono numerosi morti. Se avessi rimandato di un giorno la mia partenza da San Giovanni Rotondo mi sarei trovato in quell’inferno e non sarei potuto tornare a casa».


(Renzo Allegri, I miracoli di Padre Pio, pp. 262-264)




II. il frate volante, the flying monk


Il dr. Frank Rega, degli Stati Uniti, dedica un capitolo del suo libro "Padre Pio and America" al "flying monk", Padre Pio il "frate volante".

La storia del frate volante, come le persone di lingua inglese ricordano Padre Pio tra le nuvole che impedisce agli alleati di bombardare San Giovanni Rotondo, comincia con un po' di confusione. Norman Lewis, era uno scrittore inglese assegnato come ufficiale di spionaggio alla quinta armata americana stazionata a Napoli. Egli mantenne un diario, e l'entrata per il 29 marzo 1944, riporta: "A Pomigliano c'è un monaco volante che ha anche le stimmate. Il frate pretende che in una occasione l'anno scorso, quando era in corso un combattimento aereo egli si alzò nel cielo per afferrare nelle sue braccia il pilota di un aereo italiano che era stato colpito, portandolo sano e salvo a terra." Lewis aggiunge in una nota a piè di pagina, in cui dice che questo frate era "... il famoso Padre Pio." Egli scrisse il libro "Naples '44", pubblicato nel 1968. L'importanza di questa nota nel diario sta nel fatto che, accurata o meno, è l'unico racconto di Padre Pio come il frate volante, descritto contemporaneamente all'avvenimento, nel 1944. Rega conclude che in realtà la storia del monaco volante va ben oltre, ed include spettacolari e incredibili storie riportate da molte persone. (Rega, Padre Pio and America, 202).


Vari piloti dell’aviazione angloamericana di varie nazionalità (inglesi, americani, polacchi) e di diverse religioni (cattolici, ortodossi, musulmani, protestanti, ebrei) che durante la seconda guerra mondiale, dopo l’8 settembre del 1943, si trovavano nella zona di Bari per compiere missioni in territorio italiano, furono testimoni di un fatto clamoroso. Ogni volta che nel compimento delle loro missioni militari si avvicinavano alla zona del Gargano, vicino a San Giovanni Rotondo, vedevano in cielo un frate che proibiva loro di sganciare lì le bombe. Foggia e quasi tutti i centri della Puglia furono più volte bombardati, ma sopra San Giovanni Rotondo non cadde nemmeno una bomba. Testimone diretto di questo evento fu il generale della forza aerea italiana, Bernardo Rosini che, allora, faceva parte del "Comando unità aerea" operante a Bari a fianco delle forze alleate. Il generale Rosini raccontò che tra di loro parlavano di questo frate che appariva in cielo e faceva sì che gli aerei tornassero indietro. Tutti ridevano increduli ascoltando quei racconti. Ma poiché l'episodio si ripeteva, e con piloti sempre diversi, il generale comandante decise di intervenire di persona. Prese il comando di una squadriglia di bombardieri per andare a distruggere un deposito di materiale bellico tedesco che era stato segnalato proprio a San Giovanni Rotondo. Eravamo tutti curiosi di conoscere il risultato di quell'operazione. Quando la squadriglia rientrò andammo subito a chiedere informazioni.Il generale americano era sconvolto.

Raccontò che, appena giunti nei pressi del bersaglio, lui e i suoi piloti avevano visto ergersi nel cielo la figura di un frate con le mani alzate. Le bombe si erano sganciate da sole, cadendo nei boschi, e gli aerei avevano fatto un’inversione di rotta, senza alcun intervento dei piloti''.

Tutti si chiedevano chi fosse quel fantasma cui gli aerei avevano misteriosamente obbedito. Qualcuno disse al generale comandante che a San Giovanni Rotondo viveva un frate con le stigmate, da tutti considerato un santo e che forse poteva essere proprio lui il dirottatore. Il generale era incredulo ma disse che, appena gli fosse stato possibile, voleva andare a controllare.

Dopo la guerra, il generale, accompagnato da alcuni piloti, si recò nel convento dei Cappuccini. Appena varcata la soglia della sacrestia, si trovò di fronte a vari frati, tra i quali riconobbe immediatamente quello che aveva fermato i suoi aerei. Padre Pio gli si fece incontro e, mettendogli una mano sulla spalla, gli disse: "Dunque sei tu quello che voleva farci fuori tutti”. Il generale si inginocchiò davanti a lui. Padre Pio aveva parlato, come al solito, in dialetto beneventano, ma il generale era convinto che il frate avesse parlato in inglese. I due divennero amici. Il generale, che era protestante, si convertì al cattolicesimo”. (Positio III/1, pp. 689-690) (Pena, 20)



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