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Come se non fossero bastate le intensissime opere di René Girard che sto divorando da qualche settimana, una combinazione ha voluto che leggessi anche un altro volume dall'esplicita ispirazione e impostazione girardiana: Filosofia del diavolo - Una breve storia dell'essere (laddove “essere” è barrato con un crocesegno) di Roberto Bigini.



Il libro parte dall'analisi di un testo di E.T.A. Hoffmann, Ignazio Denner per dimostrare come lo stesso denunci (e non esalti) il rapporto fra l'umano e il demoniaco, nel modo in cui l'uomo si pone davanti alla signoria e a ciò che essa rappresenta, la divinità. Andrea è un guardiacaccia che vive con la moglie Giorgina nel podere del conte Vach. Un giorno nella loro vita di stenti, entra il misterioso Ignazio Denner, il quale si insinua nella vita dei due, guarendo la salute malferma di Giorgina e offrendo del denaro alla coppia. In cambio, istiga Andrea ad uccidere il suo signore, il conte, dipingendolo come la causa di tutte le sue difficoltà. Andrea non cede, neanche alle offerte di ricchezza e fortuna di Denner. Costui si rivela dapprima un ricercato, in seguito il figlio dell'alchimista napoletano Trabacchio e, alla fine, il padre di Giorgina, il cui scopo però non era quello di riabbracciare la figlia, ma di compiere l'orribile destino-desiderio del proprio avo: rimanere in vita per sempre, bevendo i sangue dei suoi figli (o dei suoi discendenti), sgozzati all'età di nove settimane. Andrea salva il proprio figlio, appena nato, uccidendo Denner prima che egli possa compiere l'immondo rituale.

L'analisi di quest'opera è l'incipit dal quale Bigini parte per un breve ma intensissimo viaggio all'interno della filosofia moderna, volto a smascherare, a rivelarne i tratti satanici (anche girardianamente intesi: come espressioni delle rivalità mimetiche e del sacrificio rituale). Le chiavi di lettura sono prese dal testo e ruotano attorno al concetto di libertà dalla signoria, intesa come rivolta hegeliana dello spirito rispetto alla natura e, prima ancora, come sganciamento dall'essere del pensiero umano, attraverso il passepartout cartesiano. L'uomo inizia così, pensandosi, a porsi come altro da sé, come essere divinizzato (o da auto-divinizzare), come immagine-scopo di sé stesso, sganciandosi da ogni prospettiva di subordinazione, di creaturalità. In realtà l'uomo (e la filosofia) finiscono in questo modo per entrare in un infinito e sfiancante vortice dialettico in cui il posto della divinità (e l'apparente posto dell'uomo-obiettivo, dell'uomo “nuovo”, dell'uomo “finalmente-liberato”, che si presume sostituito a un Dio tiranno, padrone) è assunto – sia pure, as usual, nascostamente – proprio da satana che, nel suo fare e disfare ogni prospettiva filosofica, ideologica e di vita, ogni finto “umanesimo”, si rende parassita dell'uomo, lo macchinizza, rendendolo il doppio di se stesso.

Approdo di un simile “viaggio” del pensiero umano non può che essere la sfida-rifiuto del Cristianesimo in quanto tale di Nietzsche, il quale vede ed abbraccia, caldeggia e propaganda esattamente il rifiuto del sacrificio, di ogni rinuncia a sé, e – quindi – ogni volontà di potenza fine a se stessa, non giustificata né sentita in dovere di giustificarsi con nessuno, per o con nessuno motivo. Quella “religione di schiavi” che è, secondo Nietzsche, quella nata dai Vangeli, lo è non solo perché nata in epoca di schiavitù, ma perché essa presuppone – per lui – la schiavitù dell'umano al divino. Ma il rifiuto di ogni schiavitù implica sempre il sacrificio dell'altro-ostacolo e dello stesso sacrificio umano (ritualizzato in modo nuovo, ma sempre ritualizzato, come nei culti ancestrali ed antichi) in funzione della “salvezza” della specie, del gruppo, della società, dell'umanità. E la volontà di potenza nicciana sembra davvero oggi, nel suo manifestarsi per ogni dove, in ogni arbitrarietà sempre più goffamente camuffata o addirittura sfacciatamente esibita in quanto imposta ed imposta in quanto esibita, il capolinea del pensiero e dell'agire umano. L'humus anticristico in cui va apparendo, a poco a poco, un uomo, sempre più orgogliosamente, iniquo.


31 Agosto 2019




Iersera ho terminato questo libro, dopo averlo letto a un ritmo dalla non consueta lentezza, almeno per me, dato che sin dalle prime pagine ci si accorge che non è un testo meritevole né di uno sguardo frettoloso e superficiale né di una lettura bulimica, da notte prima degli esami, ma che ha bisogno di essere gustato, assaporato - come, d'altronde, succede di regola con i testi veramente buoni. È solo quando l'ho chiuso, però, che ho capito di aver appena terminato, forse, uno dei migliori saggi filosofici in lingua italiana di questi primi vent'anni del secolo. Anzi, più che di filosofia strictu sensu io non esiterei a parlare di metafisica;

e quando si ardisce tirar in ballo la "philosophia prima", la mente di chi ama un certo tipo di letteratura non può non correre a un autore - da sempre a me caro, en passant - quale il torinese Elémire Zolla, e nella fattispecie al suo capolavoro del 1971, Che cos'è la Tradizione, e più in dettaglio al quarto capitolo della Seconda parte, "Che cos'è il satanismo", cui, senza tema di esagerazione, Filosofia del diavolo può essere tranquillamente accostato, sia per il valore intellettuale e la qualità di scrittura che per i temi affrontati. Appunto: di cosa tratta questo libro? L'avvio del medesimo è una recensione, anzi una replica puntuale (e puntuta) a una vecchia recensione del '79, a firma del marxista tedesco Franz Fuhmann (1922-1984), di una delle novelle fantastiche di Ernst T. A. Hoffmann, Ignazio Denner [1814]. Da qui, lo sguardo dell'autore s'inoltra nel background hegeliano dello stesso Fuhmann per azzardare una critica originalissima a una delle più note (e discusse) "figure" della Fenomenologia dello spirito, la dialettica servo-padrone, cui - grazie anche agli studi sulla nascita delle società arcaiche del filosofo e antropologo francese René Girard e alle intuizioni di uno dei principali filosofi cattolici del secolo scorso, Jacques Maritain - viene impressa una torsione teologica che ne mette in crisi la supposta essenza logico-razionale e ne smaschera, anzi, il retroterra speculativo impregnato di occultismo, esoterismo, in ultimo satanismo, eredità culturale pesantissima destinata a gettare una luce più che sinistra sulla natura della volontà di potenza di Nietzsche e le cui radici affonderebbero niente meno che nel primato razionale del sacro e indiscutibile "cogito" cartesiano, sul quale poggia la stessa dialettica hegeliana e, com'è noto, l'impalcatura tutta della moderna filosofia post-cristiana. L'opera, dunque, si colloca esplicitamente sulla falsariga - tanto da potersi ritenere un seguito ideale, ma con un quid di ulteriore ardimento! - del capolavoro del 2001 firmato da Glenn Alexander Magee, Hegel e la tradizione ermetica, che ha rivoluzionato gli studi sul filosofo tedesco, non solo nel mondo anglosassone, ma di cui ben poco si è parlato in Italia a causa degli stranoti condizionamenti politico-culturali su cui non c'è né il tempo né lo spazio - né, tanto meno, la voglia - di soffermarsi.

Nell'attesa di recensirlo come Dio comanda, in un futuro che mi auguro non troppo remoto, posso soltanto rivolgere un grazie al suo autore, Roberto Bigini, per aver scritto uno dei libri non solo più belli ma più fondamentalmente necessari degli ultimi tempi - una qualità che, in tempi di sovrapproduzione editoriale e connessa perdita del senso critico, oltre che estetico, davvero non può riconoscersi a cuor leggero.


18 Gennaio 2019



(da Roberto Bigini, E.T.A. Hoffmann. Divorare ed essere divorati. Conversazioni filosofiche su una scrittura, 2014)



 

Sesta conversazione, La sostituzione




BIGINI – A proposito di fissazioni. Giudicato unanimemente il piccolo capolavoro della produzione di Hoffmann, L’uomo della sabbia, der Sandman, è a tutti gli effetti un crocevia esemplare delle sue direttrici poetiche e insieme delle aporie, l’abbiamo visto, della ragione e della filosofia moderna più in generale. Scritto tra il 16 e il 24 novembre del 1815, viene pubblicato nella prima parte dei Racconti notturni l’anno successivo, quando vedrà la luce anche Gli elisir del diavolo. Il racconto, ci informa Safranski, venne concepito «durante una noiosa seduta della corte d’appello di Berlino» seppure con la consueta «coscienziosità» mista a «leggerezza di chi sbriga le cose come di sfuggita». Come ne Il Magnetizzatore il racconto ricalca la forma degli scambi epistolari ed è composto di quattro partizioni: Nataniele che scrive a Lotario, Clara a Nataniele, Nataniele nuovamente a Lotario e lo stesso autore, infine, che interviene nella narrazione per portarla a compimento. Così alla veloce sequenza epistolare d’esordio, in cui a parlare è volta a volta l’«Io» di ciascun personaggio, ne segue una seconda, più lunga, in cui Hoffmann “rivela” e mette in gioco il suo stesso “Io-scrivente” infrangendo così da una parte, nel suo diretto rivolgersi al “benevolo lettore”, la tradizionale sacralità del sipario poetico e annullando al contempo la distanza dal fruitore-lettore; dall’altra, insinuando ancora una volta dietro le “oggettive” vicende di Nataniele, pur altalenando la voce dell’Io-scrivente alla terza persona “ufficiale” di narratore super partes e onnisciente, la solita longa manus di un’egoità assoluta. In ogni caso da questa coralità emergono ulteriori voci, come quella del Nataniele bambino che irrompe nel racconto dell’adulto, lo ha notato Magris, «con tutta l’immediatezza di un tempo.» La regressione al tempo infantile è ottenuta semplicemente presentificandolo, e cioè in quel passaggio sintattico dall’imperfetto al tempo presente in cui, ad esempio, il racconto dello spavento infantile per l’“orco” diventa «a sua volta spavento». In questa multilateralità, per riprendere e tradurre la “vielschichtigkeit” di cui ha parlato Lothar Köhn, la realtà è resa osservabile e raccontabile da più lati, o per meglio dire da più “prospettive”. Ma è una realtà questo «mondo intermedio», come l’ha giustamente definita Ferruccio Masini, che sappiamo già essere la stretta mortale della monade, lo “spazio” impossibile e folle tra interiorità ed “esteriorità”, tra ideale e “reale”. E la follia è, d’altra parte, annunciata da Hoffmann nello stesso esordio: «Nella mia vita» attacca a scrivere Nataniele, scusandosi con Lotario per la lunga assenza, causata da «una dilacerata condizione di spirito», in der zerrissenen Stimmung des Geistes, scrive Hoffmann – «è successo qualcosa di terribile […] Alcuni giorni fa, precisamente il 30 ottobre, a mezzogiorno...


EDITORE – …e cioè alla medesima ora, ti interrompo, della tragedia finale


BIGINI – ...Sì, esattamente a mezzogiorno, scrive Nataniele, «un venditore di barometri è entrato nella mia stanza e mi ha offerto la sua merce. Non ho comperato niente e l’ho minacciato di buttarlo giù dalle scale, dopo di che se n’è andato coi suoi piedi». Perché tanta suscettibilità? Perché il venditore di barometri, Nataniele ne è così convinto che ne morirà, altri non è che il vecchio Coppelius, l’uomo che con i suoi esperimenti alchemici si era reso responsabile, anni prima, della morte del padre: «La figura e il volto di Coppelius sono impressi troppo profondamente dentro di me perché sia possibile un errore. E oltre a tutto Coppelius non si è neanche cambiato il nome. Qui in città, come ho sentito, si spaccia per un meccanico piemontese e dice di chiamarsi Giuseppe Coppola. Sono deciso ad affrontarlo e a vendicare la morte di mio padre, qualunque cosa accada». La fissazione di Nataniele per Coppelius si innesta a sua volta nello spauracchio infantile dell’uomo della sabbia, l’orco che la madre era solita paventare ai bambini perché la sera andassero a dormire senza capricci, e su cui la balia aveva “ricamato” dei particolari orrendi – che con la sabbia facesse cadere «gli occhi insanguinati fuori dalla testa» e li portasse da mangiare «alla sua nidiata di civette nella Mezza Luna». E poiché realmente, ogni sera verso le nove, uno sconosciuto amico del padre era udito salire le scale di casa con passo pesante, e con violenza spalancare la porta della stanza del genitore, Nataniele si era convinto che si trattasse davvero dell’uomo della sabbia. Solo più tardi, rassicurato dalla madre che gli spiegava come l’espressione “viene l’uomo della sabbia” stava unicamente per l’arrivo del sonno, il non poter più «tenere gli occhi aperti, come se qualcuno vi avesse buttato della sabbia in viso», Nataniele aveva maturato la consapevolezza che l’Orco in realtà non esisteva; restava tuttavia fissa, e sottotraccia, l’idea che questo Coppelius fosse «un mostro odioso e spettrale, che ovunque si presentasse portava con sé dolori, angosce, eterna rovina. Ero come incantato, Ich war festgezaubert, scrive Hoffmann. O per meglio dire “magnetizzato”, ipnoticamente e irresistibilmente attratto, l’abbiamo visto, verso il peggio. Più in generale Hoffmann presenta il Coppelius dei ricordi infantili con un preciso dettaglio, una «giacca di taglio antico color grigio cenere, panciotto e pantaloni uguale» che rimanda apertamente al Grauröcklein dell’uomo in grigio nello Schlemihl, abito che secondo la tradizione popolare identifica solitamente il “diavolo”. Un’altra assonanza con lo Schlemihl, come già si diceva, è nell’accenno al “visivo” caratteristico del diavolo e delle sue diavolerie: se infatti dell’infinita dotazione del diavolo di Chamisso fa parte il cannocchiale Dollond, “un bel Dollond”, anche il revenant di Coppelius nella vita del Nataniele adulto, il venditore di barometri Giuseppe Coppola, essendo in realtà un ottico, e naturalmente italiano, vende, barometri a parte, occhiali, lenti e cannocchiali d’ogni sorta. A parte, poi, la circostanza non casuale che i nomi Coppelius e Coppola traggono etimologicamente origine, come ricorda Masini, dal concavo dell’occhio: «Lo stesso nome Coppelius deriva verosimilmente dalla parola italiana coppo (e non come affermano» – aggiungerei persecutoriamente – «gli studiosi tedeschi coppola), che significa, appunto, il concavo dell’occhio», la cavità dell’occhio, cioè, pensata “in quanto vuota”.


EDITORE – Comunque in questa prima lettera a Lotario, spedita per errore a Clara, sua fidanzata e sorella dell’amico, Nataniele produce da sé una sorta di resoconto “anamnestico”, l’“antefatto” infantile in cui Coppelius è superbamente tratteggiato come un uomo repellente e odioso: «Ma a noi bambini facevano soprattutto senso i grossi pugni nodosi, coperti di pelo, tanto che non potevamo più soffrire ogni cosa che egli avesse toccata. Lui se n’era accorto e si divertiva a toccare con un pretesto o con l’altro un pezzettino di torta o un frutto dolce che nostra madre ci aveva messo di nascosto sul piatto, e noi allora con gli occhi pieni di lacrime, pieni di nausea e di spavento non potevamo più mangiare il dolce che ci avrebbe dovuto rallegrare». Anche la madre sembra detestare quell’ospite inquietante: «Non appena si faceva vedere, la sua allegria, il suo carattere gaio e spensierato cedevano il posto a un umore triste e tetro. Con lui invece, mio padre, si comportava come se avesse davanti un essere superiore di cui bisognava sopportare gli sgarbi, e che bisognava tenere in tutti i modi di buonumore. Bastava che facesse un piccolo cenno e subito venivano preparati i suoi piatti preferiti o portate in tavola bottiglie di pregio». C’è, quindi, la rievocazione dell’episodio clou quando una sera, compiuti dieci anni, Nataniele decide di nascondersi dietro una tenda dello studio del padre e sciogliere così finalmente il segreto dei suoi incontri serali con l’odioso Coppelius. Anche qui l’accenno in direzione del “visivo” diventa qualcosa di più, da quanto è insistito, di un semplice accenno: «Mio padre accolse Coppelius con solennità. – Sù, al lavoro! – esclamò questi con la sua voce rauca, imperiosa e si levò la giacca. Senza dir nulla e col volto imbronciato anche mio padre si tolse la veste da camera e tutti e due indossarono due lunghi camici neri. Dove li avessero presi, non l’avevo visto. Mio padre spalancò i battenti di un grande armadio; ma vidi che quello, che per tanto tempo avevo creduto un armadio, era invece un grando vano nero aperto sul muro, nel quale si trovava un focolare. Coppelius vi si avvicinò e ben presto una fiamma azzurra cominciò a crepitare sul fornello. In giro c’era ogni sorta di arnesi e attrezzi strani e insoliti. Oh Dio! Quando il mio vecchio padre si chinò sul fuoco, il suo volto mi parve completamente trasformato. Assomigliava a Coppelius.» La vicinanza del diavolo, sembra dire Hoffmann, finisce per assomigliarci a lui rendendoci suoi stessi doppî, fratelli in una sinistra indistinzione. Intanto, lo studio del padre si è trasformato in una fucina, quella “più segreta fucina dei pensieri” come la chiama il maggiore danese ne Il magnetizzatore, in cui la vita è ri-prodotta e raddoppiata: vi si producono infatti, all’ombra di questa “segreta”, veri e propri automi. Per parte sua Coppelius, continua a rievocare Nataniele, «brandiva un paio di tenaglie roventi e toglieva fuori da dense nuvole di fumo masse di metallo incandescenti che batteva poi furiosamente col martello. Mi sembrava che tutt’intorno comparissero volti, umani ma senza occhi – con orribili, profonde occhiaie nere al posto degli occhi.» I coppi, appunto. È in effetti il pedissequo “ascolto” del testo, come si vede, a restituire “l’interpretazione” di Masini dei nomi Coppola e Coppelius, diversamente dalla vera e propria interpretazione, e per di più persecutoria, data dagli studiosi tedeschi con “coppola”: il diavolo, quasi a dire, sarebbe qualcuno che viene dall’Italia, e più precisamente dall’Italia “del sud”. E appunto, venendo all’apice del racconto infantile, poiché gli automi hanno bisogno del “componente” più prezioso, gli occhi, Coppelius tuonò d’improvviso, con la sua voce profonda e rimbombante: «Occhi ci vogliono, occhi ci vogliono! Lanciai un urlo, in preda al più terribile spavento, e ruzzolai fuori dal mio nascondiglio, sul pavimento. Coppelius mi afferrò immediatamente. – Bestiolina – bestiolina! – gracidò con la sua voce fioca digrignando i denti, mi sollevò da terra e mi buttò sul focolare tanto che le fiamme cominciarono a bruciarmi i capelli. – Ecco che abbiamo trovato gli occhi, gli occhi – un bel paio d’occhi di bambino –. Sussurrava Coppelius come un pazzo e con le mani toglieva dalle fiamme grani di una materia incandescente che mi voleva gettare negli occhi. Mio padre alzò le mani supplicando e gridando: – Maestro, maestro, lasciate gli occhi al mio Nataniele – lasciateglieli! – Coppelius scoppiò in una risata stridula ed esclamò: – Che si tenga pure i suoi occhi e che versi la sua parte di lacrime nella vita; ma almeno studieremo il meccanismo delle mani e dei piedi –. E così dicendo mi afferrò con tanta forza che le giunture mi scricchiolavano, e mi svitò le mani e i piedi, riappiccicandomeli ora qua ora là. – Non stanno bene in nessun posto; – era meglio com’era prima. Il vecchio ha saputo fare le cose! – Brontolava e sussurrava così il vecchio Coppelius, ma d’un tratto fu circondato da una grande nuvola nera; una terribile convulsione mi scosse le ossa e i nervi – non sentii più nulla».

Scoperto, Nataniele era stato malmenato da Coppelius, e preso poi da una febbre violenta era rimasto a letto per settimane. Come se il tentato omicidio del piccolo, l’intenzione di cavargli gli occhi e la sua trasformazione in bambola-robot altro non fossero, lascia intendere Hoffmann, dal parto allucinato di una febbre molto alta o qualcosa, in ogni caso, di rappresentato, sognato. Dopo quest’episodio, continua a raccontare Nataniele, Coppelius sparisce per diverso tempo per riapparire improvvisamente una sera, quella in cui il padre resta ucciso da una violenta esplosione: «Probabilmente era già mezzanotte quando si udì un terribile colpo, come se avesse sparato un cannone. Tutta la casa rimbombò. Sentii qualcuno che correva davanti alla mia porta e subito dopo il portone di casa che si richiudeva sbattuto con forza […] Per terra, davanti al focolare da cui salivano nuvole di fumo era steso mio padre, morto, col volto coperto di bruciature nere, spaventosamente sconvolto, intorno a lui singhiozzavano e si lamentavano le sorelle – la mamma gli stava accanto, svenuta.»


BIGINI – Scritta per Lotario ma spedita involontariamente alla sorella di lui, Clara, questa prima lettera di Nataniele provoca l’immediata risposta della fidanzata. Turbata, pur non dandolo a vedere, a sua volta, Clara cerca di far breccia nella tenebra che avvolge Nataniele riportandolo ai più miti consigli della “sana” e disincantata ragione illuministica: Coppelius, un essere certamente ripugnante, doveva essersi confuso nel suo animo infantile con lo spaventoso orco della sabbia; quanto alla morte del padre era dovuta di certo a una sua qualche imprudenza, non necessariamente Coppelius doveva averne colpa. Ma lo sforzo di contenere l’incipiente follia di Nataniele – ché infatti la sua trasformazione infantile in una bambola-robot non annuncia che il compiersi definitivo della sostituzione, quella della “realtà” con il suo doppio “ideale” – ha successo solo per poco. Scrive infatti a Lotario, subito dopo, Nataniele: «Del resto è ormai certo che il mercante di barometri Giuseppe Coppola non è affatto il vecchio avvocato Coppelius. Io seguo un corso del nuovo professore di chimica che è arrivato da poco e che, come il celebre naturalista, si chiama Spallanzani ed è di origine italiana. Egli conosce Coppola già da molti anni, e per di più si sente benissimo dalla sua pronuncia che è veramente piemontese. Coppelius era tedesco, per quanto, come mi sembra, poco leale. Però non posso dire di essere completamente tranquillo». E infatti con Spallanzani si va preparando il seguito, o per meglio dire la “ripetizione” dell’esperienza di bambino. Spallanzani, come il padre di Nataniele un tempo, è il nuovo collaboratore di Coppelius-Coppola e l’infantile “vedersi” di Nataniele come un automa tra le mani del diavolo sta per maturare in un vero e proprio “diventare”, egli stesso, un automa. Come? Semplicemente innamorandosi. È l’innamoramento ad alzare il sipario sull’identità del giovane, trasformandolo e sostituendolo con un doppio “corrispondente” all’oggetto “amato”. Siamo solo a un anello più alto della stessa spirale e a quest’altezza Nataniele non può che innamorarsi, ebbro com’è di idealismo e romanticismo, dell’automa Olimpia. Ciò che Olimpia incarna all’“esterno” e nel “reale” è un’“interiorità” che accomuna tutti i principali personaggi della storia – Spallanzani, Coppola-Coppelius, Nataniele e il suo stesso defunto padre – raccogliendoli in una sinistra indistinzione, l’indistinzione della “tecnica”. Diversamente, nessun magnetismo avrebbe mai potuto avvolgere dapprima il bambino e infine l’adulto in quest’ininterrotto incantesimo. Curioso, poi, che il magnetismo torni sempre ad agire nel vantaggio di un velo, di un nascondimento. Nataniele adocchia per la prima volta Olimpia – questa bambola di legno, Holzpüppchen, cui sono stati incastonati occhi “umani” – di nascosto, da dietro una porta, trovandosi a frequentare casa del professor Spallanzani per via delle lezioni di chimica. Anche qui il magnetismo è dato in un vedere non visti, in uno “spiare”: «Ieri salivo le scale di casa sua e mi accorgo che una tenda la quale copre di solito completamente una porta a vetri, lasciava aperto uno spiraglio da una parte. Non so neppure io come mi sia venuta l’idea di gettare un’occhiata curiosa nella stanza. C’era seduta una figura di donna molto alta e snella, di proporzioni armoniose, vestita splendidamente, e teneva le mani giunte, le braccia appoggiate a un piccolo tavolino davanti a lei. Era seduta di fronte alla porta, sicché ho potuto vedere bene il suo viso angelico. Non mi è parso che si accorgesse di me, e anzi i suoi occhi avevano una strana fissità – quasi direi che non avevano forza visiva; pareva che la donna dormisse a occhi aperti […] Probabilmente c’è qualcosa che non va, forse è debole di mente, o qualcosa così». Quasi che questo insistere di Hoffmann sullo “spiare” andasse a connotare la peculiarità “isolazionistica”, unilaterale, monadica – e in definitiva autistica – in cui sembra nascere e consolidarsi la follia. Se Goethe parlava di un’unità di cuore e di sguardo, Hoffmann nell’affermarsi del vedere e della sua tirannia – la “prevaricazione dello sguardo” come l’ha chiamata giustamente Masini, sembra confermare l’imporsi filosofico di quella lacerazione tanto temuta dai filosofi. Ad ogni modo, con quelle parole di Nataniele su Olimpia termina l’ultima missiva e, con ciò, la triangolazione epistolare fra i tre. Nataniele infatti li raggiunge a casa, dall’Università, per un certo periodo. E da qui inizia a prender stabilmente parola la narrazione in terza persona, e onnisciente per il peggio, dello stesso autore. Il ritrovarsi di “persona” con Clara, Lotario e la madre sembra dissolvere, sulle prime, ogni malumore. Ma il destino ormai è segnato. Colpito dall’incontro con Coppelius come folgorato da un raggio, Nataniele è trasfigurato e come imbevuto di un’umore cupo, “fosco e trasognato”: «Diceva continuamente che tutti gli uomini, pur nell’illusione di essere liberi, servono al gioco crudele di oscure potenze» e, in particolare, che «Coppelius era il principio del male che si era impossessato di lui al momento in cui stava a spiare nascosto dietro alla tenda, e che questo sinistro demonio avrebbe orribilmente distrutta la felicità del loro amore». Di nuovo lo “spiare”. Hoffmann sembra metterlo a tema espressamente e indicarlo per di più come “il momento” in cui “il principio del male” si impossessa di Nataniele, quasi che il porsi stesso in questa prospettiva fosse qualcosa di “in sé” malefico. Ma il nodo, e ciò è per noi particolarmente interessante, viene al pettine proprio in ambito poetico. Infatti Nataniele era solito scrivere piccole composizioni dalle tinte vivaci che Clara ascoltava sempre volentieri, ma che ora, virate su tonalità più “fosche” e “informi”, le suonavano semplicemente noiose. Decide così di risvegliare il fantasma dell’odiato Coppelius, divenuto nel frattempo più pallido e remoto, per “accendere” Clara e, insieme, la sua ars poetica. Ne viene una poesia spaventosa, l’incubo della distruzione del loro amore a opera di Coppelius, messo nei più limpidi e levigati tra i versi: «Quando ebbe finalmente terminato e lesse la poesia ad alta voce si sentì rabbrividire per un cieco spavento e gridò: – Ma di chi è questa voce raccapricciante?, Wessen grauenvolle Stimme ist das? Scrive Hoffmann – di nuovo, come ne Gli elisir, il doppio “ideale” torna a farsi sentire, addirittura poetando, nel mondo “reale” – «ma subito dopo l’insieme tornò a fargli l’impressione di una poesia molto ben riuscita e si consolò pensando che avrebbe senza dubbio accesso l’animo gelato di Clara, sebbene non gli fosse chiaro perché Clara dovesse essere accesa e che scopo potesse avere spaventarla con quelle immagini orribili che presagivano una tremenda sorte, la rovina del suo amore». La reazione di Clara, che in un prevedibile spavento lo invita a “gettare nel fuoco questa favola assurda, pazzesca” fa scattare Nataniele, che sdegnato e vedendo ormai “doppio”, la accusa di essere un “maledetto automa senza vita” – informandoci che il processo di rovesciamento, e di ritorno a casa, della “realitas” in “idealitas” si è, come un ordigno a orologeria, messo irrevocabilmente in moto. L’incidente giunge all’orecchio del fratello di Clara: Nataniele è accusato di essere «un pupazzo trasognato, impazzito» – un romantico, Lotario invece «un miserabile, volgare borghese» – un filisteo. È deciso un duello, ma Clara riesce a sventarlo e la crisi rientra.


EDITORE – Nataniele torna quindi in città. Qui scopre che la sua casa è bruciata in un incendio, divampato dalla farmacia sottostante, ma che i compagni di studio sono riusciti a mettere in salvo le sue cose e a portarle in una nuova casa, proprio dirimpetto al professor Spallanzani. E dalla finestra di questa nuova casa ha, naturalmente, il voyeuristico vantaggio di poter osservare la sua Olimpia seduta immobile al solito tavolino, confessandosi di quando in quando «che non aveva mai veduto in vita sua un personale più bello». Ma si trattava solo di «un’occhiata alla bella statua – questo era tutto», precisa Nataniele. Quand’ecco, un giorno, che il temibile venditore di barometri Giuseppe Coppola torna a stanarlo anche qui, piombandogli direttamente in camera e dichiarando, con la sua voce rauca, di «Avere bei oci – bei oci!». Nataniele trasalendo dallo spavento, e già ostaggio della doppiezza che lo consacrerà alla follia grida, spaventato: «Pazzo, come puoi avere occhi? – Occhi? – Occhi?». Coppola inizia allora a disporre sul tavolino, estraendoli dalle capacissime tasche del cappotto, paia d’occhiali in gran quantità: «Sì, sì, – occhiali – lenti mettere sul naso, ecco mii oci – bei oci! – E intanto tirava fuori sempre più occhiali di tutte le qualità, in numero così grande che su tutto il tavolino le lenti incominciarono a scintillare e a brillare in modo strano. Migliaia d’occhi guardavano, sbattevano convulsamente, fissavano Nataniele. Quasi pazzo dal terrore, esclamò: – Fermati, fermati maledetto!», presentendo in questa diabolica “overdose” visiva l’arrivo stesso della sua stessa follia. In un attimo Coppola riafferra gli occhiali riponendoli in tasca ed estraendo, questa volta, una più modesta quantità di telescopi e cannocchiali grandi e piccoli. Tanto basta a rassicurarlo. Ripensando a Clara, Nataniele si persuade che Coppola doveva essere per davvero «un onorato meccanico e un bravo ottico, e non poteva essere in nessun modo il fantasma del maledetto Coppelius. Inoltre tutti i cannocchiali che Coppola aveva messo sul tavolo non avevano niente di speciale e tanto meno poi qualcosa di spettrale, e per riparare a tutto decise di comperare qualche cosa. Prese un piccolo cannocchiale tascabile molto ben lavorato – ein kleines sehr sauber gearbeitetes Taschenperspektiv scrive Hoffmann, e per provarlo guardò fuori dalla finestra», naturalmente in casa di Spallanzani e in direzione di Olimpia, seduta al solito tavolo con le mani giunte. Il piccolo cannocchiale gli fece scorgere finalmente “da vicino” il bel viso di Olimpia. Ma quella strana fissità dello sguardo notata già in precedenza e che sulle prime tornava a riapparirgli in questo avvicinamento “ottico” – «Gli occhi gli sembravano troppo fissi, senza sguardo e morti, starr und tot scrive Hoffmann – muta per incanto, proprio “insistendo” nella visione, nel suo esatto opposto: «Ma guardando sempre più acutamente attraverso il suo cannocchiale – wie er immer schärfer und schärfer durch das Glas hinschaute – gli parve che negli occhi di Olimpia si accendessero umidi raggi di mare. Era come se all’improvviso i suoi sguardi si fossero accesi e ora fiammeggiassero sempre più vivacemente. Nataniele rimase alla finestra come incantato, scrive nuovamente Hoffmann, wie festgezaubert – “incatenato all’incantesimo” traduce Masini, svolgendo la “fissità” contenuta nel prefisso “fest-”. È lo stesso verbo utilizzato nella descrizione del rapimento “visivo” del piccolo Nataniele quando, nascosto dietro la tenda, spiava per la prima volta il fantomatico orco, l’uomo della sabbia. Il senso è sempre quello di un “incanto” da cui, una volta entrati, è impossibile uscire: Nataniele è perciò sin dall’inizio dentro a un “saldo”, “ininterrotto” incantesimo.


BIGINI – Sì, unicamente a un livello più alto della spirale. Se nel primo “incantesimo” era Nataniele a esser sostituito da un automa, realizzando così la soggettività tipicamente moderna, cartesiana e lamettrieana dell’homme machine, nel secondo la sostituzione può allargarsi al mondo, che corrispondendo al nuovo fondamento del soggetto-idealità viene a costituirsi in “oggettività” e “realtà”: agli occhi divenuti “morti”, meccanici e automatici di Nataniele – che alla maniera gotico-romantica diventano appunto “i coppi” – Olimpia acquista “realtà” sostituendosi alla vita vera, la fidanzata Clara, accusata non casualmente di essere “un automa senza vita”. Il secondo incantesimo “accende” così il doppio mondo “oggettivo” e “reale”, la parte ancora sopita, “nascosta” e “in attesa” del puramente ideale, “davanti” al “soggetto” e a suo unico vantaggio. Ciò che significa: avremo “oggetti” solo di fronte a “soggetti” e “realtà” solo di fronte a “idealità”. È sempre ancora l’ideale, cioè, a nascondersi e trionfare dietro la parvenza di vita della cosiddetta “oggettività” e “realtà”1. E sempre, soprattutto, a spese di questa. Ciò detto, è facile intravedere la quidditas dell’inquietante – il fantomatico unheimlich – proprio nella frizione esplosiva di questa zona intermedia, tra le due opposte condanne a morte, per il mondo, dell’ideale e del cosiddetto “reale”. Per questo Masini parla di una “dimensione infernale dell’ambiguous”, per l’indistinzione mortifera in cui la vita di ciò che è familiare si rivela estranea, nascosta, come morta – «Nataniele aveva completamente dimenticato che a questo mondo esisteva una Clara che una volta aveva amato; – la madre – Lotario – tutti erano scomparsi dalla memoria», e allo stesso tempo qualcosa di veramente nascosto, il “non-morto” ideale-reale della vita “automatica”, mostra una parvenza di vita, di familiarità – «Viveva più solo per Olimpia con la quale passava giornalmente ore intere fantasticando del suo amore, della simpatia che si accende e diviene vita, dell’affinità fisica». Le ombre della caverna cioè, divenute nel frattempo più sofisticate, oggettive e “credibili” – “reali” – tentano l’assalto fuori dall’antro, tentando di sostituirsi, nella loro somiglinante doppiezza, al vero del mondo. Qui infatti è ovunque fondamentale, nel familiare come nell’estraneo, nel “reale” come nell’“irreale”, proprio il “nascondersi” del mondo. Se ne accorse Freud quando, dizionario dei fratelli Grimm alla mano, notava come l’aggettivo heimlich, dal doppio significato di “familiare” e “nascosto”, coincide in quest’ultima accezione proprio con il suo opposto unheimlich: «Nell’uso corrente, unheimlich è il contrario del primo significato, ma non del secondo». Come se proprio la “casa” del pensiero, cioè, nel suo cingere e proteggere ciò che è intimo e familiare, covasse entro la sua stessa calma, chiarezza e apparente “familiarità” un che di inquietante e sinistro. Il pericolo, in breve, che si nasconde in “casa”. Se come abbiamo visto, però, Hegel e Schelling riconducevano questo emergere di ciò che «avrebbe dovuto rimanere segreto, nascosto» e che «invece è affiorato» alla mancata mediazione “razionale-ideale” del “reale-naturale – «L’Assoluto», dicevano, «deve essere posto» – Hoffmann sembra denunciare, nella quasi totalità della sua opera, l’esatto e dialettico inverso: proprio il matrimonio tra idea e “realtà” è all’origine dell’affiorare della Follia e la tanto incensata Ragione nient’altro che una follia ancora nascosta, ritratta, acerba – il fiore, per così dire, di cui la Follia sarà il frutto avvelenato.


EDITORE – Ma tornando all’incantesimo. Nel primo incontro di “persona” tra Nataniele e Olimpia, in occasione della grande festa con cui Spallanzani introduce la “figlia” in società, è sempre la mediazione visiva a sostenere e ingannare Nataniele. Olimpia attacca a suonare il piano e a cantare con grande abilità mentre Nataniele, dalle ultime file, deve ricorrere al dispositivo di Coppola per poterla distinguere: «Allora si accorse che essa guardava con nostalgia verso di lui, che ogni nota si trasformava palesemente in uno sguardo innamorato che penetrava e accendeva il suo cuore». Senza sapere come, terminato il concerto le si ritrova accanto e, poiché nessuno l’ha ancora invitata a ballare, la prende per mano. Ma questa è fredda come il ghiaccio ed «egli si sentì attraversare da un terribile brivido di morte. Fissò Olimpia negli occhi – er starrte Olimpia ins Auge, scrive Hoffmann, si sentì colpito dai raggi dell’amore e della nostalgia e nello stesso momento gli sembrò anche che nella mano gelata incominciasse a battere il sangue e ad ardere il calore della vita». A nulla vale il seguito della serata in cui le effusioni romantiche di Nataniele, i suoi slanci e le dichiarazioni d’amore ottengono sempre la medesima risposta, i monosillabi «Ah – ah!». E a nulla valgono i sospetti dell’amico Sigismondo che, giorni dopo, prova a metterlo in guardia: «Ha un personale molto regolare, è vero ed anche un bel viso; potrebbe passare per una vera bellezza se i suoi occhi non fossero così senza vita, starei per dire senza sguardo. E poi cammina a passi misurati; ogni movimento che fa sembra che sia regolato dalle rotelle di un meccanismo. Quando suona, quando canta, ha lo stesso ritmo così sgradevole, preciso, senza spirito come una macchina cantante, e lo stesso si pensa quando balla. Insomma per noi questa Olimpia ha qualcosa d’inquietante – Uns ist diese Olimpia ganz unheimlich geworden, scrive Hoffmann – e non vorremmo avere nulla a che fare con lei». Anche qui, come nel caso di Medardo, è l’ubricatura egoica, il travaso di soggettività “letteraria” ciò che Hoffmann prende di mira. È «l’eccezionalità del proprio sentimento poetico», come ha visto Masini, ad accecare Nataniele, quel poetischer Gemüth di cui il cannocchiale non è che una “dichiarata” protesi e che “mostra” a Nataniele unicamente l’idea, anche qui, di donna. E la sua avvenuta trasformazione in automa, in un fantoccio tra le mani del diavolo, va di pari passo con la sua trasformazione in “magnetizzatore”. Come il maggiore danese con il vecchio barone e successivamente Albano con la figlia Maria, anche Nataniele è posseduto da un’identica violenza di “sguardo”: crede infatti di poter comprendere Olimpia, lui solo, «fino in fondo all’anima» e interpretarne «il vero geroglifico del mondo interiore». Risponde perciò all’amico Sigismondo: «Può darsi benissimo che per voi altre, creature fredde e prosaiche, Olimpia sia fredda e inquietante. Solo a un animo poetico si rivela un animo ugualmente ispirato. Solo verso di me è sceso il suo sguardo innamorato illuminando i miei sensi e i miei pensieri […] Parla poco, è vero; ma le poche parole che pronuncia si rivelano come autentici geroglifici di un mondo interiore pieno di amore e di alti pensieri, di una vita spirituale che contempla i mondi eterni». Quest’assoluto narcisismo poetico è confermato dalla messa a confronto tra l’automa e la fidanzata Clara: «Mai ancora in vita sua aveva avuto un’ascoltatrice così magnifica. Non ricamava e non faceva la calza, non guardava fuori dalla finestra, non dava il becchime agli uccellini, non giocava col cagnolino, non prendeva in collo il gatto, non rigirava fra le dita un pezzetto di carta o qualche altra cosa, non aveva bisogno di nascondere gli sbadigli con qualche leggero e provvidenziale colpo di tosse. Insomma per ore intere fissava senza batter ciglio gli occhi dell’innamorato, senza muoversi, né alzarsi, ed il suo sguardo diveniva sempre più acceso, sempre più vivace». Ma in questo riemergere della figura del magnetizzatore sembra finalmente e pienamente maturare, par di capire, quella direttiva dell’onniscienza che nel racconto omonimo, pur centrale, restava in qualche modo indietro. L’elemento letterario prettamente “gotico”, “sovrannaturale” e inspiegabile in cui l’onniscienza ne Il magnetizzatore era in qualche modo imprigionata sembra maturare, ne L’uomo della sabbia, nella sua stessa “evaporazione”. L’essere, il contenuto della conoscenza più profonda, si rivela nietzschanamente “l’ultimo fumo di una svaporante realtà”. L’onniscienza poetica, e segnatamente idealistico-romantica, di Nataniele urta violentemente, come stiamo per vedere, contro la verità del suo stesso essere – il mero bagaglio tecnico-scientifico dei costruttori di automi.


BIGINI – Sì, l’unica totalità pre-conoscibile e pre-vedibile è quella che riproduce la vita, doppiandola, nell’officina della “scienza” ed è solo la vuota tautologia al lavoro in questo officina, certamente attrezzabile e armabile all’infinito, che può essere conosciuta in anticipo. Il segreto dell’automa – e penso qui al racconto omonimo ne I confratelli di Serapione dove un “turco parlante”, come un mago fatto di metallo, sembra conoscere in anticipo l’«interiorità» degli avventori – deve essere sempre necessariamente, prima, il segreto della riduzione dell’umano all’automatico. Nataniele, come nel delirio infantile, deve prima sognarsi un automa. Solo così, dopo, l’onniscienza è possibile e un automa può “sapere” l’umano. Perciò non è nemmeno il fondo di se stesso ciò che Nataniele sta contemplando in Olimpia, ma un doppio fondo virtualmente infinito – e perciò un baratro, una spirale – su cui non ha né può avere mai alcun margine di manovra; la Ragione può solo indietreggiare nell’obsolescenza. Così, continua Hoffmann, «se anche Nataniele in qualche momento di lucidità, per esempio la mattina appena desto, si ricordava veramente della piena passività e delle poche parole di Olimpia, finiva lo stesso con l’esclamare: – Che cosa sono le parole? – Parole! – Lo sguardo dei suoi occhi celesti dice più di qualunque lingua su questa terra». Decide quindi di accennare a un suo legame con Olimpia al professor Spallanzani il quale, ben contento, dice che lascerà la figlia libera di decidere. Nataniele si precipita a casa in cerca dell’«anello che sua madre gli aveva dato al momento dell’addio» e in men che non si dica è di nuovo dal professore quand’ecco che, dalle scale, avverte un frastuono provenire dall’interno. Spallanzani e Coppelius – e non più “Coppola” – si stanno contendendo Olimpia tirandola l’uno per le spalle l’altro per i piedi. Nataniele è deciso a intervenire ma, nel giro di un attimo, resta impietrito. «Aveva visto anche troppo chiaramente: il viso di Olimpia, pallido come la cera, come la morte, non aveva più gli occhi, ma invece due occhiaie vuote e nere; – era una bambola inanimata, eine leblose Puppe, scrive Hoffmann. Coppelius intanto ha la meglio su Spallanzani che, colpito alla testa con la sua stessa bambola, è scaraventato sul tavolo delle fiale e delle serpentine in vetro e a terra, infine, ferito dalle schegge, mentre il rivale con la bambola in spalla si precipita sulle scale, guadagnando l’uscita tra risate orrende. Insanguinato, Spallanzani si volta verso Nataniele, gridandogli: «Corrigli dietro, corrigli dietro! Che aspetti! – Coppelius, Coppelius! – Mi ha rubato il mio automa migliore. – Venti anni di lavoro – la vita ci avevo messo! – Il meccanismo – la voce – il passo, mio, tutto mio! Gli occhi – gli occhi ti avevo rubato – Maledetto, dannato! – Corrigli dietro! – Riportami Olimpia! – Ecco gli occhi! – Allora Nataniele vide che due occhi blu insanguinati, ein Paar blutige Augen scrive Hoffmann – erano sul pavimento e lo fissavano; Spallanzani li afferrò con la mano che non era ferita e glieli gettò addosso colpendolo in mezzo al petto.

Allora la follia lo afferrò con artigli infuocati ed entrò nel suo intimo lacerandone la ragione e i pensieri – Sinn und Gedanken zerreißend, scrive Hoffmann. Anche qui c’è una ripetizione, l’inverarsi di un già visto. La scena infatti – il particolare del paio d’occhi che colpiscono il petto di Nataniele, riproduce il contenuto della poesia scritta per Clara e oggetto della famosa lite. La poesia rappresentava i due giovani congiunti in un amore fedele, «ma di quando in quando sembrava loro che un pugno nero penetrasse nella loro vita […] Finalmente, quando sono già all’altare delle nozze, appare Coppelius che tocca i dolci occhi di Clara; questi cadono sul petto di Nataniele come scintille sanguinanti e lo ardono, lo mettono in fiamme. Coppelius lo afferra e lo spinge in una ruota di fuoco che gira con la rapidità della bufera e lo trascina lontano nei suoi vortici». Quasi a dire, a riconferma della denuncia di prima, che è lo stesso venire a contatto di questi “occhi” col mondo ad appiccare il terribile incendio della follia; occhi che infatti, strappati e astratti dal corpo non diversamente da un componente o pezzo di ricambio, sia pure il principale, di un macchinario e così assolutizzati, altro non possono essere dal grado zero di quel vedere-spiare-pensare che nel cannocchiale si troverà “conservato” e “accresciuto” – quasi un ritorno elevato “a potenza” di questi occhi, ma che tradisce una volta di più la già avvenuta morte dell’umano, la sua, cioè, “automatizzazione”. E Nataniele è sotto il segno di questa morte sin dall’inizio; per questo, appena un bambino, può sognare la sua trasformazione in automa. Eccoci comunque arrivati alla “rivelazione che smarrisce”: la celeste “immagine” di Olimpia, che «gli appariva ovunque nell’aria, sbucava dai cespugli, lo guardava con gli occhi raggianti dall’acqua limpida del ruscello» svela avanti a sé un’orribile congegno automatico, un surrogato senz’occhi, un doppio – né vivo né morto – della vita, ma contemporaneamente mostra alle sue spalle la motilità nascosta, in forma di immagine poetica, di questa particolare modalità del vedere, il cerchio di fuoco: «Hop – hop – hop! Gira cerchio di fuoco, gira cerchio di fuoco!», prese allora a gridare Nataniele nel delirio della follia, «Su – su! Gira bambola di legno, gira bella bambolina!», associandolo, cioè, immediatamente alla bambola di legno. Come se Nataniele, avendoli ambedue presenti avanti a sé, li vedesse girare e vorticare, quando l’uno quando l’altra, su se stessi. È questa doppia visione il contenuto della rivelazione che smarrisce, la follia, che “brilla” nel “cortocircuito” in cui l’automa (Olimpia) si rivela all’automa (Nataniele).


EDITORE – Perché, poi, Hoffmann ponga questa precisa simmetria, si direbbe quasi un’equivalenza, tra il cerchio di fuoco e la “bambolina”, possiamo solo supporlo. Ma lo rivedremo nel finale. In diversi intanto, attirati dal fracasso, accorrono nella stanza cercando di sottrarre Spallanzani alla furia di Nataniele, che fuori di sé continua a gridare: «Gira, bambola di legno, gira! Menando intorno a sé colpi all’impazzata. Finalmente in molti riuscirono a sopraffarlo, buttandolo per terra e legandolo. Le sue parole finirono ben presto in un urlo agghiacciante, bestiale. Così, in un orribile accesso di pazzia furiosa fu trasportato al manicomio». Si aprì un’istruttoria per “introduzione fraudolenta di un automa nella società umana”. Spallanzani fuggì. Coppola si era come dissolto. Nataniele invece, ben presto dimesso poiché ogni tratto di pazzia pareva completamente scomparso, si risvegliò nel letto della sua casa paterna, circondato dalle amorevoli cure della madre, di Clara e del fratello Lotario: «Sentì un indescrivibile senso di gioia che lo penetrava con soave, celeste tepore». La guarigione fu quasi immediata e la fortuna, finalmente, parve girare per il verso giusto: la morte improvvisa dello zio consegnò loro l’eredità di un piccolo patrimonio e una villetta non lontano dalla città in cui tutti e quattro, fissato il matrimonio tra i due giovani, decisero allegramente di stabilirsi. Ma il giorno del trasferimento, di nuovo a “mezzogiorno” tiene a farci sapere Hoffmann, accade il peggio. In città per alcune compere, Clara esprime il desiderio di salire sull’alta torre del municipio per godere un’ultima volta della splendida vista delle montagne. Lotario li aspetta da basso: «E così i due innamorati si trovano a braccetto sulla galleria più alta della torre spaziando con lo sguardo sulla distesa profumata dei boschi in fondo alla quale le montagne azzurre si elevavano come una città di giganti». È ancora una volta il cannocchiale di Coppola, in maniera del tutto analoga agli “elisir” del romanzo omonimo, a tradurre il soggetto nella “realtà” e “oggettività” di sé: Clara è sostituita da Olimpia, Nataniele da un folle: «Guarda un po’ quello strano ciuffo grigio che sembra venire direttamente addosso a noi! – esclamò Clara – Nataniele mise meccanicamente una mano in tasca e vi trovò il cannocchiale di Coppola. Se lo mise davanti agli occhi. Clara venne a trovarsi davanti alle lenti. – Immediatamente sentì come una convulsione nelle vene e nei polsi – cominciò a fissare Clara, pallido come un cadavere; ma ben presto nei suoi occhi assenti (lett. roteanti) si accesero come correnti di fuoco incandescenti». In un attimo, al grido «Gira, bambola di legno, gira!», non vedendo più Clara, cioè, ma l’automa che ne ha preso stabilmente il posto, Nataniele “la” afferra con forza e – nel circolo vizioso di questo uccidere il “reale” per vendicarsi dell’“ideale” – la spinge nel vuoto. Guardando dentro al cannocchiale, il cavallo di Troia di questo doppio mondo, Nataniele lascia entrare Olimpia e la realtà della sua stessa follia – quella “realtà” in cui Clara aveva già cominciato a sparire quand’egli, leggendole il suo “scritto”, la accusava di essere un «automa senza vita», credendo di scorgerle in viso addirittura «un’ombra di morte».


BIGINI – E d’altro canto nel contromovimento di questo ritorno non si compie, specularmente, che lo scambio precedente, quello che agli “occhi” di Nataniele faceva di Olimpia un “vivente” vero e proprio. All’animazione e “realizzazione” di Olimpia del secondo incantesimo corrisponde, nel ritorno, il contraccolpo in cui Clara è “inanimata” e schiacciata contro l’idealità fin quasi, come accadrà a Nataniele, a morirne. Non sorprende, poi, che questo “doppio scambio con sparizione del mondo” anticipi di un buon settantennio il breve componimento di Nietzsche Come il «mondo vero» finí per diventare favola, contenuto nel Crepuscolo degli idoli. Infatti una volta alzato il sipario sulla menzogna dell’ideale – una volta che «Abbiamo tolto di mezzo il mondo vero», come dice il filosofo – a Nataniele non resta affatto il mondo precedente. «Quale mondo ci è rimasto? Forse quello apparente?... Ma no!», conclude Nietzsche, «col mondo vero abbiamo eliminato anche quello apparente!». Pur, infatti, continuando a esistere e a farsi presente, il mondo “apparente” resta “sotto il tiro” della configurazione ideale-reale, e cioè ancor sempre nel cono d’ombra del divorare e dell’essere divorati. Deposta la verità più alta è deposto con ciò stesso anche il mondo: non c’è più nessuna Clara, ma la «bambola inanimata» con «due occhiaie vuote e nere» che Nataniele iniziava a intra-vedere in lei, come hai ricordato, nel lento sopravvenire del secondo incantesimo. Ridotti a residuali di un inganno, intimità, familiarità e umanità non esistono più, per Nataniele, se non come altrettanti doppi e “destinatari” della furia del cerchio di fuoco e della “sua” vendetta. Sono sempre Olimpia e il doppio mondo ideale, infatti, a sovrapporsi a Clara e al mondo presente occupandone d’ora in avanti il posto. Sono quelli, come testimoniano le parole del suo “delirio”, che Nataniele crede di afferrare e gettare per vendetta dall’alto della torre. E nemmeno a farlo apposta anche per Nataniele è mezzoggiorno, quel “momento dell’ombra più corta” che Nietzsche, sbagliandosi, intenderà come la “fine del lunghissimo errore” e che si rivelerà invece, per lui infinitamente di più che per Hoffmann, come il primo, consolidato inizio della follia.


EDITORE – Rimasta appesa, invece, a una balaustra Clara è salvata in extremis dal fratello Lotario mentre Nataniele, furioso, continua a smaniare e invocare il cerchio di fuoco sulla galleria, intanto che una folla di spettatori si raccoglie da basso, ai piedi della torre. Questa volta a metter fine all’attacco di follia, e alla sua stessa vita, sarà proprio l’apparizione dell’orco. Fra gli spettatori infatti «si ergeva gigantesca la figura dell’avvocato Coppelius, che era arrivato in città in quel momento dirigendosi senz’altro verso la piazza del mercato. Qualcuno voleva salire sulla torre per portare via il povero pazzo; ma Coppelius scoppiò in una risata e disse: – Ah, ah, aspettate, vedrete che viene giù da sé! – e continuò a guardare come gli altri, col naso per aria. Nataniele si arrestò d’un tratto come incantato; si chinò sulla balaustra, scorse Coppelius e con un grido atroce: – Ah, bei oci – bei oci! – saltò giù dalla torre. Nataniele rimase steso sul selciato della piazza con la testa sfracellata; nella confusione Coppelius scomparve». Freud ritiene che in questa scena sia «la vista dell’avvocato Coppelius a provocare lo scoppio della follia di Nataniele». Sappiamo che non è così. L’apparizione di Coppelius provoca certamente la peggior chiusura possibile, con il suicidio, della sua crisi di follia, ma non la crisi stessa. Sin dall’inizio infatti l’ha soggiogato spegnendone dapprima gli occhi – strappati nel lungo “spiare” l’ideo-realtà automatica della sua stessa “Bildung” – per sostituirli infine, adulto, con lenti più adatte alla miglior visione possibile dell’idea platonica: il cannocchiale. È questa, come sappiamo, la miccia. È all’inforcare del cannocchiale che Nataniele perde completamente il “lume”; è già un “altro”, e cioè il suo doppio ideo-automatico quando “mechanisch”, meccanicamente «si mise una mano nella tasca del cappotto e vi trovò il cannocchiale di Coppola. Se lo mise davanti agli occhi». Riandando poi alla scena seguente alla seconda visita di Coppola, dopo che questi, piombatogli per la seconda volta in camera gli rifilava per tre zecchini il famoso cannocchiale, Nataniele «lo sentì ridere forte sulle scale», pensando perciò di aver pagato troppo caro l’oggetto, seppure realizzi subito come sia strano, «ah, assai peggio che strano, che questo sciocco pensiero di aver pagato troppo il cannocchiale a Coppola mi faccia tanta paura; non posso comprenderne il motivo». Infatti non è per questo che Coppelius ride, ma perché sa, con il dono avvelenato del cannocchiale, di averlo definitivamente assoggettato al “male”, alle illusioni divoratrici del doppio mondo. Se “il diavolo” fin dall’inizio, come dice Hoffmann del don Giovanni, gli ha gettato “il laccio intorno alla gola”, è proprio col cannocchiale che questo laccio viene per Nataniele, al guardarci dentro, inesorabilmente stretto, sino all’asfissia e alla morte.


BIGINI – Sì la sue due crisi di follia – in cui come abbiamo detto egli nietzscheanamente elimina dapprima il mondo “vero”, scoprendo la menzogna dell’ideale “Olimpia”, per poi lasciare che questo doppio mondo deposto venga a ritorcersi, attraverso il cannocchiale, contro quello “apparente” – non fanno che dare forma, oltre alla futura sentenza nietzscheana, al lungo apprendimento del vedere-spiare-pensare del “soggetto”, rivelandone il fondamento “filosofico”. Ora, Freud ha una certa ragione quando rivendica contro Jentsch il ruolo centrale dell’orco: «Coppola è realmente l’avvocato Coppelius e quindi anche l’orco della sabbia», legando l’inquietante, più che al baluginare della doppiezza, «all’idea di vedersi sottratti gli occhi», ma ha torto – oltre che a vedere in questi un equivalente dei “genitali” e nell’inquietante il palpitare del «complesso di evirazione infantile» – a relegare l’automa a un contesto esclusivamente “infantile”: «Si vede subito», dice Freud, «come con le bambole non ci allontaniamo troppo dal mondo infantile» e perciò come Olimpia, «questa bambola automatica non possa essere altro che la materializzazione dell’atteggiamento femminile di Nataniele verso il padre nell’infanzia», padre dal quale, attraverso gli alter-ego di Coppola, Spallanzani e Coppelius, «ci si aspetta l’evirazione». Ha torto perché l’automa, pur marginale in un’economia psicanalitica, non lo è in quella del racconto e del cosmo poetico-filosofico hoffmanniano, aggiungerei, più in generale. La chiave freudiana è già inservibile, ad esempio, nell’altro racconto a cui accennavo prima Die Automate, Gli automi. Qui un analogo di Coppelius, un certo Professor X, fornisce all’artista che espone un suo automa in città, inizialmente con scarso successo, un qualche segreto o misterioso ingrediente che rende il “turco parlante” in grado di insinuarsi «nel profondo dell’animo di chi lo interroga, in die Tiefe des Gemüts des Fragenden e di produrre risposte, alle domande degli avventori, in cui dominano «una forza di penetrazione e insieme una spaventosa ambiguità che le rendono dei veri e propri oracoli, eine Kraft des Scharfsinns und zugleich ein grausenhaftes Helldunkel in den Antworten, wodurch sie zu Orakelsprüchen im strengsten Sinn des Worts werden, scrive Hoffmann. Dunque, di nuovo lo sguardo onnisciente del magnetizzatore nella spaventosa unione a un che di meccanico, ma soprattutto autonomo, che ha in sé il principio del movimento, e perciò uno sguardo “automatico”. L’automazione, in definitiva, in rapporto alla scienza e alla conoscenza di sé.


EDITORE – Per contro Walter Scott, ad esempio, leggendo L’uomo della sabbia volle intendere la presenza di Olimpia addirittura «un fatto stravagante, sintomatico della pazzia del protagonista, niente di più di un particolare incomprensibile nell’economia del racconto», là dove invece è chiaro non solo che l’automa non può essere un “particolare incomprensibile” ma neppure essere inteso come un semplice “oggetto”, un prodotto “neutro”, cioè, della scienza tecnica, ma invece altrettanto decisamente come un soggetto, come un qualcosa che per “esistere” ha bisogno di esser voluto dall’uomo e del sacrificio, sopra ogni cosa, del suo “quid” umano. La storia di Nataniele non è che la storia del suo stesso lungo morire al doppio ideale-automatico del mondo – la storia dello “sviluppo”, cioè, di un “essere filosofico”. Solo avendo già rinunciato alla vita, nell’ipnosi visiva, Nataniele può trasformarsi in automa e successivamente, dunque, innamorarsene; e soprattutto è la sua umanità – condensata e ridotta nella metonimia filosofica degli “occhi” – ciò che va anticipatamente sacrificato, sull’altare della scienza, alla produzione dell’automa, e più in generale a questa che possiamo già intendere come l’auto-fabbricazione dell’uomo. Freud ad esempio, nella scena in cui Spallanzani incita Nataniele a rincorrere Coppelius, rivolgendosi contemporaneamente a questi e al giovane, e generando così l’ambiguità di un doppio destinatario, di un doppio “tu”, interpreta l’enunciato “die Augen dir gestohlen”, che alla lettera dice soltanto “gli occhi a te rubati” sostituendo l’Io-tu Spallanzani-Coppola – «Ti avevo rubato solo gli occhi [che servivano al mio automa]» – con il Lui-te Coppelius-Nataniele – «Gli occhi – Coppelius ti ha rubato gli occhi» e dunque, per questo motivo, «rincorrilo!». La costituzione stessa dell’“oggetto” necessita cioè, in cambio, degli occhi del “soggetto”. Senza, nessun oggetto, nessun “automa” è mai possibile. È questo il prezzo – o meglio, la prima voce di un conto, di un debito, che si rivelerà ben presto infinito – da pagare al mondo ideale, qui dove gli occhi di Nataniele vengono sin dall’inizio saldamente impiantati.


BIGINI – E questo “saldamente” è la fissazione della follia – come abbiamo visto ne Gli Elisir e in Serapione attraverso Heidegger – tipica del pensiero moderno. È lo sguardo rivolto, bloccato e rapito in questa sola direzione – l’unica, per altro, sbagliata – che rende possibile il compenetrarsi di umano e “meccanico” in Nataniele, prototipo letterario degli androidi contemporanei. Ma se questi “oggetti” auto(no)mi e antropomorfi vanno pensati altrettanto decisamente come soggetti, come umani che si abbandonano, volendolo, al corso ideale-automatico degli eventi, allora anche l’interpretazione strumentale della tecnica, quella ancora oggi vigente che la ritiene un “prodotto” umano, qualcosa di cui l’uomo può servirsi e deporre a piacimento, è da considerarsi obsoleta, o quantomeno un miraggio proiettato dal Coppelius di turno. E in ogni caso, posto anche che la vita vera, la “più alta”, abiti proprio in questa linea tesa tra l’automa e il cerchio di fuoco, da cui Hoffmann mette sistematicamente in guardia, è pur sempre necessario e fondamentale a tutto ciò l’assenso dell’uomo – lo Jasagen zum Leben, come formalizzerà più tardi Nietzsche – e cioè ch’egli dica anticipatamente sì a “questa” specifica “forma” di vita. Vita “complessa”, come si usa dire nell’odierno linguaggio scientifico. Basta un qualunque documentario sulla “natura”, e sul “pianeta terra” in particolare, per rendersi conto del predominio, attraverso il linguaggio, di queste cosiddette “forme di vita complesse”. Una dizione apparentemente neutra, “oggettiva” – chi non concorderebbe nel dire che un albero, un animale e a maggior ragione un essere umano sono “forme di vita complesse”, e cioè hanno bisogno di determinati “parametri” ambientali, chimico-fisici, per esistere? Eppure dietro l’innocua parvenza scientifica di questa dizione parla e spadroneggia di già, irriconosciuto, il linguaggio nietzschano del riassestamento dell’umanità, e dell’essere dell’ente più in generale, sulla tragica linea “volontà di potenza”–“eterno ritorno dell’uguale” – di cui gli hoffmanniani “automa” e “cerchio di fuoco” sembrano anticipazioni e premonizioni letterarie. Nietzsche ne parla nella sua famosa definizione di “valore”, Wert, quando lo definisce una “condizione di conservazione e accrescimento” proprio degli enti mondani pensati come «formazioni complesse di relativa durata della vita, komplexe Gebilde von relativer Dauer des Lebens, scrive Nietzsche – “formazione complesse” che, naturalmente, si trovano all’altro capo di un vedere “prospettico”, ein perspektivisches Sehen, spiegherà a suo tempo Heidegger. Il valore infatti, non essendo che il surrogato finale dell’idea, è essenzialmente “punto di vista”, Gesichtspunkt e dunque, più esattamente, «Il punto di vista delle condizioni di conservazione-accrescimento in ordine a formazioni complesse di relativa durata della vita in seno al divenire, Der Gesichtspunkt des “Werts” ist der Gesichtspunkt von Erhaltungs-Steigerungs Bedingungen in Hinsicht auf komplexe Gebilde von relativer Dauer des Lebens innerhalb des Werdens, scrive Nietzsche.


EDITORE – E cos’altro infatti, più di un automa, può essere pensato come una “forma di vita complessa”? Riassestandosi sulla nietzschana “rivelazione che smarrisce” tutto l’essente – «guardando sempre più acutamente dentro il cannocchiale» del suo proprio vedere-spiare-pensare – è tradotto nel doppio mondo ideo-reale dove è “atteso” e fatto progressivamente emergere come un che di meccanicamente “fatto” e altrettanto meccanicamente “sussistente”. Per questo nella scena finale della torre Hoffmann ci fa sapere che Clara, agli occhi di Nataniele, è regredita a fantoccio di legno, a parvenza – cioè – dell’automa Olimpia, a sua volta parvenza di donna. Come se scienza e poesia, negli alter-ego di Coppola, Spallanzani e Nataniele, si trovassero a realizzare l’incubo platonico della “copia di copia”, e cioè proprio la massima distanza – attraverso il pensiero idealistico-visivo che dovrebbe condurvi – dalla verità dell’“idea”. Clara è schiacciata sulla rappresentazione dell’automa, è “attesa” come una copia di copia, come un che di meccanicamente fatto.


BIGINI – È proprio così. Il fare, di base, diviene un “macchinare”. Anche laddove il vivente è concepito come “organismo” il fondamento resta sempre quest’ideo-realtà automatica: «L’idea di “organismo” e di “organico”», spiega ancora Heidegger, «è un concetto puramente moderno, meccanico-tecnico, per cui anche ciò che cresce naturalmente da sé è interpretato come un artefatto che fa se stesso» – come il costruirsi di un soggetto-oggetto. Ed è proprio questa, dopo le disquisizioni di La Mettrie e Cartesio sull’homme machine, la quintessenza e la definizione finale di “automa” formulata da Diderot e D’Alambert nell’Enciclopedia: «Una macchina che porta in sé il principio del proprio movimento» e che dunque, in questa misura, fa se stessa. È qui che l’interpretazione “organica” della cosiddetta “natura” ha il suo fondamento e prototipo. Pur avendone le “sembianze”, pur simulando l’“aspetto” di ciò che si manifesta e appare da sé – quel che i greci chiamarono un tempo Physis – è sempre e soltanto Techne a imporsi e predominare da tempo in ogni ambito. È questo sinistro aggiornamento della Physis la vera e propria sostituzione. Si tratti dunque di un vivente o di un automa, a questo punto, non importa. Infatti la forma di vita complessa si rivela al fondo, in ambo i casi, una forma di vita “idealizzata”, e cioè fondata sull’eterna incognita – la famigerata “x” – del «punto di vista» della soggettività, quella soggettività, come disse Heidegger, «che punta e che calcola in base a punti». È così che il mondo può ritirarsi e scomparire via via in quella che abbiamo chiamato “ideo-realtà”. Quanto più decisamente è spinta verso l’idealità, verso la “x” di questo vedere in grado di “perforare” lo spazio-tempo – si parla giustamente, nelle scienze, di mondi micro e macro “scopici” – tanto più la vita “reale” è attesa, preparata e imprigionata nel tragicomico, automatico destino dell’automa.


EDITORE – Non è un caso pertanto che i sentimenti più o meno letterari dell’orrore e dell’inquietante emergano con l’imporsi dell’industrialismo, generalmente collegato, invece, a un rassicurante “benessere” – perché l’orrore tiene il posto di questo sopravvenire e lasciarsi andare alla sostituzione, benché qui, diversamente che nel phobos, nell’orrore aristotelico del tragico antico, non vi sia alcuna catarsi, ma solo un ghigno da “osservatore” sulla strada di casa, la strada, l’abbiamo visto, del manicomio. Eppure la modernità è costretta a conservare il tragico se è vero che le situazioni “impossibili” non solo non mancano, ma anzi aumentano, benché sia sempre più chiaro all’altro capo, come evidente ne L’uomo della sabbia, un svuotamento tale dell’idealità – nel suo riversarsi e inverarsi nell’“oggettività” e “realtà” dell’automa – da sgonfiare per sempre la materia prima di ogni possibile catarsi. Resta cioè l’impossibilità, unicamente, di una situazione che è senza-salvezza in senso essenziale, che si trova “al di là” per definizione da ogni possibilità di essere “salvata”. Se dunque il cerchio di fuoco del divorare ed essere divorati resta operante sullo sfondo, avanzando e rivelandosi a volte sull’avanscena, come nel caso di Nataniele, è chiaro altresì che il tragico sopravvive più solo come un guscio vuoto, tanto, almeno, quanto l’automa deve considerarsi un guscio vuoto “dell’idea” di uomo, e cioè dell’uomo e della donna in quanto “ideali”. Nell’automa, in altre parole, “uomo” e “idea” sono sì ambedue presenti e unificati, ma solo in quanto assenti, in quanto “nascosti”. Smascherando sapientemente il vuoto “automatico” della moderna tragedia, Hoffmann può mostrare così da una parte la ridicola illusorietà delle scienze – letterarie in primis – e delle loro pretese conoscitive; dall’altro lato indicarne per così dire il “pilota”, quest’uomo “della sabbia” la cui valenza, in quanto anche e soprattutto uomo dei coppi, è duplice: colui che toglie, che strappa gli occhi all’uomo impossessandosi di lui attraverso una qualunque visione e assegnandolo poi al turbinìo ideo-reale, dove le cose, come sabbia, perdono contorno, scivolando senza scampo in una doppiezza infinita. Addormentato in questo sonno, l’uomo non può inverarsi e storicizzarsi che nel volto, via via, di “nessuno”.


BIGINI – Un’autentica Odissea! (ridono). Così, l’inquietante e l’orrore di fronte all’automa diventano tali nella misura in cui l’automa, l’oggetto dell’orrore è altrettanto decisamente un soggetto, un “noi”, cioè, in cui il profilarsi di questo sinistro, esclusivo destino di dissolvimento, ci tiene sotto scacco in quanto l’unico e inevitabile. In nessun altro modo, se no, potrebbe toccarci e inquietarci sino all’orrore. L’automa non è perciò un oggetto fatto a immagine e somiglianza dell’uomo, una “forma” condotta a fattezze umane, ma al contrario, come in “androide”, un uomo, anér, condotto alla forma originaria dell’eidés – alla forma “che dà” forma – all’idea. Automa e androide dicono dunque dell’uomo portato all’idea. L’uomo della sabbia sviluppa proprio questo sottotesto “ideale” della questione “automa”, sbozzato circa un anno prima da Hoffmann nel già citato Gli automi. Qui, dopo aver fatto visita al professor X e assistito a un suo piccolo concerto accompagnato da alcuni automi musicisti – chi al piano, chi al flauto, chi al tamburo e al triangolo – i due amici Luigi e Ferdinando hanno questo scambio: «In compenso, – disse Ferdindando, – abbiamo visto autentici capolavori di meccanica, notevolissimi anche dal punto di vista musicale... Il suonatore di flauto è evidentemente una applicazione della famosa macchina di Vaucanson, e lo stesso meccanismo doveva muovere anche le dita della donna su quel curioso strumento dalla sonorità veramente piacevole... Il coordinamento di tutti quei congegni, per conto mio, è meraviglioso. – E proprio quello, – esclamò Luigi, – proprio quello mi ha reso pazzo di rabbia!... Tutta quella musica meccanica – compresa l’esecuzione pianistica del signor professore – mi ha schiacciato, strizzato, fatto a pezzi... Me la sento ancora nelle ossa... e non me ne libererò tanto presto... Già, per me vedere un uomo mettersi a fare le stesse cose che fanno dei pupazzi senza vita, costruiti per scimmiottare la figura, i movimenti umani, è una cosa deprimente, macabra, orribile... Sarà anche possibile, suppongo, riuscire a far ballare alla perfezione un automa mediante opportuni congegni nascosti: ma se tu dovessi vedere degli uomini vivi ballare e piroettare insieme a degli automi, vedere, ad esempio, un giovanotto in carne e ossa prendere per la vita una ballerina di legno e trascinarla nella danza, potresti resistere per un solo istante a un simile spettacolo senza provare un brivido di raccapriccio?». Proprio ciò che Hoffmann, come sappiamo, porta sulla pagina con la storia di Nataniele. Ma se in questa prima trattazione della materia egli si limita a tratteggiare velocemente l’aspetto “raccapricciante” dell’unificazione uomo-macchina, ne L’uomo della sabbia, scendendo al fondo e in qualche modo rivelando la menzogna idealistica che vi si nasconde, Hoffmann va a metterne a fuoco l’aspetto, a meglio vedere, “ridicolo”. Ora se questa pre-comprensione “tecnica” del vivente – che vede all’opera in ogni ambito della natura e dello spirito una soggettività che “fabbrica” e “costruisce” se stessa, Hoffmann la accenna anche ne La chiesa dei gesuiti di G. – alla fine di una lunga sequenza di errori, come abbiamo visto, il pittore Bertoldo formulava così la sua personale “filosofia di vita”: «Le bestie e noi stessi siamo macchine ben costruite per elaborare certe materie e imbandirle sulla tavola di un sovrano sconosciuto» – è solo ne L’uomo della sabbia che egli può mostrarne, tirando i fili del ragionamento idealistico nel realizzarsi “robotico” e “automatico”, l’aspetto definitivamente ridicolo.


EDITORE – Svestendola così anche, allo stesso tempo, dei panni esclusivamente estetico-letterari tipici della fruizione e del cliché “gotico”. Proprio questo risvolto comico del tragico, poiché legato all’inconsistenza di un’idealità che si “realizza” nel girare a vuoto dell’automa, dà un margine di spiegazione al finale del racconto – considerato spesso, invece, un’aggiunta, un’appendice stranamente fuori fuoco nel climax perfetto del racconto. In bilico tra un’ulteriore sguardo ironico e la saggezza di una vera e propria morale finale, scrive Hoffmann, chiudendo, subito dopo la scena della torre: «Si racconta che parecchi anni dopo Clara sia stata vista in una lontana località, seduta davanti alla porta di una bella casa di campagna mentre teneva fra le sue mani quelle di un uomo simpatico, guardando giocare davanti a lei due bei bambini. Si dovrebbe concludere che Clara era riuscita lo stesso a trovare quella tranquilla felicità domestica che si addiceva al suo animo sereno e vivace e che a lei Nataniele, dilacerato nel più intimo – im Innern zerrissene Nathanel scrive Hoffmann, non avrebbe mai potuto offrire». L’indicazione sembra essere qui l’imperturbabilità – non tanto e non solo, se non capisco male, del filisteismo borghese tratteggiato in questa tipica scena da idillio familiare campestre, sottoposta a sua volta allo sguardo ironico dell’autore – ma anche della vita non ancora fissata nell’immagine, in cui il ciclo del chiudersi e dell’aprirsi, del nascere e del morire continua ancor sempre il suo corso, incurante di questo antico e moderno “macchinare”.


BIGINI – Ricambiando cioè in qualche modo, pur rimanendo “intatto”, il suo stesso autismo. Mi ricorda la consapevolezza, e con ciò chiudiamo, espressa in una considerazione fatta da Heidegger durante il suo soggiorno in Grecia, là dove dice: «Come un’immagine del destino appare il mare notturno; il moto antichissimo delle sue onde, incurante del moderno motoscafo, è sempre governato dalla stessa legge». A tutt’oggi, aggiungerei soltanto, incompresa.

©2021 Laportastretta(Lc13,24)
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