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Come gli attori, affinché il rossore della vergogna non appaia loro in volto vestono la maschera, così anch’io sul punto di salire su questa scena mondana, di cui fin qui fui spettatore, avanzo mascherato (larvatus prodeo) / Renato Cartesio (Cogitationes privatae)
(Anna Lamberg, Crypsys, Larvatus prodeo, 2012)

Incensato da Hegel come colui che aveva guadagnato al pensiero “la terraferma” (das feste Boden) dove metter piede dopo tanto tribolato navigare (i fondamenti della logica antica e medievale), e dato finalmente fondazione a una filosofia autonoma (selbständige philosophie) – quella moderna – rendendogli possibile una “dialettica dello spirito”, così come più avanti a Marx, rovesciandola, una “dialettica della materia” (il materialismo storico), Cartesio in realtà – ci aveva visto benissimo Nietzsche – col suo cogito aveva perpetrato «un attacco contro l'antico concetto di anima [...] un attentato al presupposto fondamentale della dottrina cristiana» per cui «la filosofia moderna», in quanto scepsi gnoseologica «è, apertamente o occultamente, anti-cristiana». Si assoggettò l'“anima intellettiva”, forma del corpo e condizione del discursus, ossia del pensiero razionale, a una non meglio identificata “cosa pensante”, appunto la res cogitans: «Una volta infatti», continua Nietzsche, «si credeva all'“anima” come si credeva alla grammatica e al soggetto grammaticale: si diceva “io” è condizione, “penso” è predicato e condizionato - pensare è un'attività per la quale un soggetto deve essere pensato come causa. Si tentò allora, con un'astuzia e una tenacia degne di ammirazione, se non ci si potesse trar fuori da questa rete, se non fosse forse vero il contrario: “penso” condizione, “io” condizionato, “io” dunque solo una sintesi, che viene fatta dal pensiero stesso» (Al di là del bene e del male, § 54). Ma chi era allora “il pensiero stesso”? Non si seppe mai. Nemmeno Hegel, che finì il lavoro iniziato da Cartesio in un Pensiero Assoluto, volle scomodarsi. È un processo storico immanente, progressivo, crediamo noi razionale, ma vattelappesca!

Certo è che l'anima intellettiva e razionale dall'alto fu spo(de)stata in basso e assoggettata all'astrazione (nella migliore delle ipotesi) di un imprecisato “spirito che pensa”, un “fondamento” ricavato da ragionamenti che si fatica a ritenere tali e su cui non pochi, fin da subito, ironizzarono, a cominciare da Hobbes che al suo cogito ergo sum contrappose un irridente “cammino dunque sono una passeggiata”? Cartesio del resto, per arrivarvi, finge astutamente di non esistere per scampare agli inganni di un ipotetico (?) genio maligno (1) o con pari astuzia «pone a fondamento della sua filosofia proprio la mancata distinzione tra sonno e veglia» e «dubita d'essere sveglio e vestito perché spesso ha sognato di esserlo e non si ritiene quindi in grado di cogliere la differenza». È questo «il campione della razionalità del XVII secolo e seguenti»? Per tacere la moltitudine di cantonate teoriche (la teoria dei vortici o le 7 leggi, tutte sbagliate, sull'urto dei corpi tanto per dirne due) e più in generale l'idea surreale che quand'anche l'esperienza ci dimostrasse il contrario, dobbiamo fidarci più della “ragione” assecondando una fermezza cieca e irragionevole, come sostiene la “seconda massima” del suo Discorso sul metodo (2).

Così, oltre ad aver preso il posto dell'anima intellettiva, immortale e davvero razionale del cosmo cristiano, il “nuovo fondamento” cartesiano si connota per il suo essere dis-incarnato (non è forma di alcun corpo), onirico (l'indistinzione dei piani in cui il sogno vale quanto la veglia), irragionevole (si fida più di “se stesso” che dell'esperienza) e che al pensatore nasconde certamente assai più di quanto non riveli (cfr. a riguardo il mio L'angelismo come verità teologica del cogito. Il peccato originale moderno in R. Bigini, Filosofia del diavolo)


Qui ci basti sapere che “moderno” è ciò che si sottrae perfino al suo pensatore poiché moderno è ciò che avanza senza farsi riconoscere, larvatus prodit, procede mascherato (il latino larvare significa più esattamente stregare e il suo participio stregato, tanto che nei Menecmi di Plauto significa ossesso). Diviene così necessario per il pensiero vedere ciò che si manifesta assieme a ciò che resta nascosto “nelle pieghe”, che perciò è com-plicato, cum-plicis (da com-plico, piego, avvolgo insieme) facendosi un tale pensiero “complottista” (identico etimo, da com-plicitum, il contrario di ex-plicitum), ossia che guarda nelle pieghe per s-piegarle ed es-plicitarle. Fidandosi dell'esperienza.


Pertanto, a meno di non guardare “all'avvenire come le mucche guardano passare un treno”, come diceva Bernanos, l'ultimo biennio dovrebbe averci aperto gli occhi sulla processione mascherata in grande stile dell'epoca presente (un'epoca solo al suo inizio e che verosimilmente durerà assai poco), dove, come ha scritto il Pedante, «il più vasto esercizio di idolatria della storia umana a noi nota (ricordiamo che la pozione redentrice è adorata e somministrata anche nelle chiese, accompagnata da danze tribali, pubbliche abiure, professioni di fede)», assieme a «un dispositivo di apartheid che impedisce ai figli di Dio di accedere dove sono ammessi anche i cani», assieme «alla menzogna, all’odio del prossimo istigato dalle istituzioni, alla violazione generalizzata della legge naturale e morale, alla sozzura della liturgia con riti e travisamenti mondani», e non da ultimo «all’imposizione di un marchio necessario per vendere e comprare (ricorda qualcosa?)» con «l’oppressione dei più ricattabili (terzo peccato che grida vendetta a Dio)», ebbene, «tutto ciò è solo una questione medica». Ma «allora anche le persecuzioni razziali», prosegue provocatoriamente il Pedante, «sono solo una questione genetica, l’aborto una questione di salute riproduttiva, la fornicazione di benessere affettivo, l’interdizione delle sante messe di igiene e, per non farsi mancar nulla, le privazioni prossime venture in nome delle idee green di fisica dell’atmosfera. Il mascheramento di ogni cosa, e specialmente delle cose spirituali e morali sotto le etichette neutre della “razionalità scientifica”», conclude, «è la cifra inconfondibile della modernità».


Il mascheramento, lo stiamo iniziando a capire, è necessitato oggi come non mai dalla «violenza tracotante, idolatrica e persecutoria» che si sta infliggendo a miliardi di persone e che, ovviamente, non può essere presentata in quanto tale; il procedere mascherato e stregato lavora sempre nel senso di una scristianizzazione che, «come aveva già intuito Robespierre, è tanto più trionfante quanto più si nega allo scontro diretto con Cristo e lavora in disparte per spodestarlo coi surrogati del progresso sociale, del relativismo e, appunto, della scienza», sostituendo l'Instaurare omnia in Christo di San Pio X con il progetto satanico e «babelico della fraternité universale».


Possiamo ben dire allora con René Girard che il linguaggio in uso nel “discorso pubblico” della politica, dei media, e più in generale delle istituzioni, purtroppo anche religiose, è un linguaggio mitico, ossia di copertura e dissimulazione della violenza dei processi sacrificali in atto (è un quotidiano fiorire di capri espiatori) protèsi alla rivoluzione finale del great reset, ossia al “riassetto” di un mondo alla rovescia, senza Dio e senza l'uomo a sua immagine, ossia libero.


«Se, strappando la maschera alla rivoluzione, le chiedete: “Chi sei tu?”», si domandava Monsignor Jean Joseph Gaume, «Ella vi dirà: [...] Io sono l'odio di ogni ordine religioso e sociale che l'uomo non ha stabilito e nel quale esso non è re e Dio tutt'insieme: io sono la proclamazione dei diritti dell'uomo contro i diritti di Dio [...] sono la fondazione dello stato religioso e sociale sulla volontà dell'uomo in luogo della volontà di Dio; in una parola, io sono l'anarchia; perché io sono Dio spodestato, surrogato dall'uomo. Ecco il motivo per cui mi chiamo Rivoluzione, cioè sconvolgimento, perché io colloco in alto chi, secondo le leggi eterne, dovrebbe stare in basso; e metto al basso chi dovrebbe stare in alto». Ecco perché resto cattolico, contro-rivoluzionario, anti-cartesiano e complottista.


 

(1) I meditazione metafisica: «Io penserò che il cielo, l'aria, la terra, i colori, le figure, i suoni e tutte le cose esterne che vediamo, non siano che illusioni e inganni [...] Considererò me stesso come privo affatto di mani, di occhi, di carne, di sangue, come non avente alcun senso, pur credendo falsamente tutte queste cose [...] Baderò accuratamente a non accogliere alcuna falsità, e preparerò così bene il mio spirito a tutte le astuzie di questo grande ingannatore, che, per potente ed astuto ch'egli sia, non mi potrà mi imporre nulla»


(2) « ...agire con quanta più ferma risolutezza possibile e seguire le opinioni più dubbie come se fossero state certissime. Mi attenevo in questo all'esempio dei viandanti che, smarriti in una foresta, non devono andare in giro errabondi ora in una direzione ora in un'altra, o peggio che mai fermarsi da qualche parte, ma devono andare sempre nello stesso senso seguendo un cammino quanto più è possibile diritto, non scostandosene mai per futili motivi anche se all’inizio solo il caso avesse determinato la scelta»









Come se non fossero bastate le intensissime opere di René Girard che sto divorando da qualche settimana, una combinazione ha voluto che leggessi anche un altro volume dall'esplicita ispirazione e impostazione girardiana: Filosofia del diavolo - Una breve storia dell'essere (laddove “essere” è barrato con un crocesegno) di Roberto Bigini.



Il libro parte dall'analisi di un testo di E.T.A. Hoffmann, Ignazio Denner per dimostrare come lo stesso denunci (e non esalti) il rapporto fra l'umano e il demoniaco, nel modo in cui l'uomo si pone davanti alla signoria e a ciò che essa rappresenta, la divinità. Andrea è un guardiacaccia che vive con la moglie Giorgina nel podere del conte Vach. Un giorno nella loro vita di stenti, entra il misterioso Ignazio Denner, il quale si insinua nella vita dei due, guarendo la salute malferma di Giorgina e offrendo del denaro alla coppia. In cambio, istiga Andrea ad uccidere il suo signore, il conte, dipingendolo come la causa di tutte le sue difficoltà. Andrea non cede, neanche alle offerte di ricchezza e fortuna di Denner. Costui si rivela dapprima un ricercato, in seguito il figlio dell'alchimista napoletano Trabacchio e, alla fine, il padre di Giorgina, il cui scopo però non era quello di riabbracciare la figlia, ma di compiere l'orribile destino-desiderio del proprio avo: rimanere in vita per sempre, bevendo i sangue dei suoi figli (o dei suoi discendenti), sgozzati all'età di nove settimane. Andrea salva il proprio figlio, appena nato, uccidendo Denner prima che egli possa compiere l'immondo rituale.

L'analisi di quest'opera è l'incipit dal quale Bigini parte per un breve ma intensissimo viaggio all'interno della filosofia moderna, volto a smascherare, a rivelarne i tratti satanici (anche girardianamente intesi: come espressioni delle rivalità mimetiche e del sacrificio rituale). Le chiavi di lettura sono prese dal testo e ruotano attorno al concetto di libertà dalla signoria, intesa come rivolta hegeliana dello spirito rispetto alla natura e, prima ancora, come sganciamento dall'essere del pensiero umano, attraverso il passepartout cartesiano. L'uomo inizia così, pensandosi, a porsi come altro da sé, come essere divinizzato (o da auto-divinizzare), come immagine-scopo di sé stesso, sganciandosi da ogni prospettiva di subordinazione, di creaturalità. In realtà l'uomo (e la filosofia) finiscono in questo modo per entrare in un infinito e sfiancante vortice dialettico in cui il posto della divinità (e l'apparente posto dell'uomo-obiettivo, dell'uomo “nuovo”, dell'uomo “finalmente-liberato”, che si presume sostituito a un Dio tiranno, padrone) è assunto – sia pure, as usual, nascostamente – proprio da satana che, nel suo fare e disfare ogni prospettiva filosofica, ideologica e di vita, ogni finto “umanesimo”, si rende parassita dell'uomo, lo macchinizza, rendendolo il doppio di se stesso.

Approdo di un simile “viaggio” del pensiero umano non può che essere la sfida-rifiuto del Cristianesimo in quanto tale di Nietzsche, il quale vede ed abbraccia, caldeggia e propaganda esattamente il rifiuto del sacrificio, di ogni rinuncia a sé, e – quindi – ogni volontà di potenza fine a se stessa, non giustificata né sentita in dovere di giustificarsi con nessuno, per o con nessuno motivo. Quella “religione di schiavi” che è, secondo Nietzsche, quella nata dai Vangeli, lo è non solo perché nata in epoca di schiavitù, ma perché essa presuppone – per lui – la schiavitù dell'umano al divino. Ma il rifiuto di ogni schiavitù implica sempre il sacrificio dell'altro-ostacolo e dello stesso sacrificio umano (ritualizzato in modo nuovo, ma sempre ritualizzato, come nei culti ancestrali ed antichi) in funzione della “salvezza” della specie, del gruppo, della società, dell'umanità. E la volontà di potenza nicciana sembra davvero oggi, nel suo manifestarsi per ogni dove, in ogni arbitrarietà sempre più goffamente camuffata o addirittura sfacciatamente esibita in quanto imposta ed imposta in quanto esibita, il capolinea del pensiero e dell'agire umano. L'humus anticristico in cui va apparendo, a poco a poco, un uomo, sempre più orgogliosamente, iniquo.


31 Agosto 2019




Iersera ho terminato questo libro, dopo averlo letto a un ritmo dalla non consueta lentezza, almeno per me, dato che sin dalle prime pagine ci si accorge che non è un testo meritevole né di uno sguardo frettoloso e superficiale né di una lettura bulimica, da notte prima degli esami, ma che ha bisogno di essere gustato, assaporato - come, d'altronde, succede di regola con i testi veramente buoni. È solo quando l'ho chiuso, però, che ho capito di aver appena terminato, forse, uno dei migliori saggi filosofici in lingua italiana di questi primi vent'anni del secolo. Anzi, più che di filosofia strictu sensu io non esiterei a parlare di metafisica;

e quando si ardisce tirar in ballo la "philosophia prima", la mente di chi ama un certo tipo di letteratura non può non correre a un autore - da sempre a me caro, en passant - quale il torinese Elémire Zolla, e nella fattispecie al suo capolavoro del 1971, Che cos'è la Tradizione, e più in dettaglio al quarto capitolo della Seconda parte, "Che cos'è il satanismo", cui, senza tema di esagerazione, Filosofia del diavolo può essere tranquillamente accostato, sia per il valore intellettuale e la qualità di scrittura che per i temi affrontati. Appunto: di cosa tratta questo libro? L'avvio del medesimo è una recensione, anzi una replica puntuale (e puntuta) a una vecchia recensione del '79, a firma del marxista tedesco Franz Fuhmann (1922-1984), di una delle novelle fantastiche di Ernst T. A. Hoffmann, Ignazio Denner [1814]. Da qui, lo sguardo dell'autore s'inoltra nel background hegeliano dello stesso Fuhmann per azzardare una critica originalissima a una delle più note (e discusse) "figure" della Fenomenologia dello spirito, la dialettica servo-padrone, cui - grazie anche agli studi sulla nascita delle società arcaiche del filosofo e antropologo francese René Girard e alle intuizioni di uno dei principali filosofi cattolici del secolo scorso, Jacques Maritain - viene impressa una torsione teologica che ne mette in crisi la supposta essenza logico-razionale e ne smaschera, anzi, il retroterra speculativo impregnato di occultismo, esoterismo, in ultimo satanismo, eredità culturale pesantissima destinata a gettare una luce più che sinistra sulla natura della volontà di potenza di Nietzsche e le cui radici affonderebbero niente meno che nel primato razionale del sacro e indiscutibile "cogito" cartesiano, sul quale poggia la stessa dialettica hegeliana e, com'è noto, l'impalcatura tutta della moderna filosofia post-cristiana. L'opera, dunque, si colloca esplicitamente sulla falsariga - tanto da potersi ritenere un seguito ideale, ma con un quid di ulteriore ardimento! - del capolavoro del 2001 firmato da Glenn Alexander Magee, Hegel e la tradizione ermetica, che ha rivoluzionato gli studi sul filosofo tedesco, non solo nel mondo anglosassone, ma di cui ben poco si è parlato in Italia a causa degli stranoti condizionamenti politico-culturali su cui non c'è né il tempo né lo spazio - né, tanto meno, la voglia - di soffermarsi.

Nell'attesa di recensirlo come Dio comanda, in un futuro che mi auguro non troppo remoto, posso soltanto rivolgere un grazie al suo autore, Roberto Bigini, per aver scritto uno dei libri non solo più belli ma più fondamentalmente necessari degli ultimi tempi - una qualità che, in tempi di sovrapproduzione editoriale e connessa perdita del senso critico, oltre che estetico, davvero non può riconoscersi a cuor leggero.


18 Gennaio 2019


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