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Accorsi all'altare del diavolo con una vittima da immolare, non si avvedevano di essere essi stessi le vittime (Cipriano, De lapsis)


Il 20 gennaio ricorre la memoria liturgica di San Fabiano papa e martire, il giorno in cui ”il suo corpo fu deposto a Roma sulla via Appia nel cimitero di Callisto” (Martirologio romano). Celebre la circostanza della sua elezione a Vicario di Cristo: la cattedra di S. Pietro era rimasta vacante per la morte di S. Antero e i fedeli stavano in orazione pregando lo Spirito Santo quando si vide una splendida luce discendere dal cielo e una colomba posarsi leggermente sul capo di Fabiano”, ricordando inequivocabilmente quel ”Hic est Filius meus dilectus, in quo mihi complacui” del Battesimo del Signore al Giordano. Nei quattordici anni del suo pontificato (dal 10 gennaio del 236 al 20 gennaio del 250) San Fabiano divise Roma in sette diaconie per l’assistenza dei poveri e con lui la figura del vescovo di Roma assunse tale prestigio da destare preoccupazione nell’imperatore Decio, che nel 249 aveva ucciso e detronizzato il rivale, l'imperatore Filippo l'arabo, che proprio Fabiano aveva convertito alla vera religione assieme al figlio. Decio avviò una politica di ritorno alla religione pagana con l'obbligo di un pubblico sacrificio agli dei – con l'editto del Libellus, dal nome dell'attestato che veniva rilasciato a controprova dell'avvenuto sacrificio. I cristiani naturalmente insorsero e tra questi Fabiano, che preferì il carcere e una morte di stenti; alcuni vacillarono fino a ”scivolare” (lapsi) nel paganesimo abiurando alla fede cristiano e compiendo il sacrificio richiesto dall'imperatore, altri, più benestanti, ottennero il libellus dietro pagamento senza compiere alcun sacrificio (i "libellatici").

Di seguito, un illuminante post de Il Pedante, De lapsis, pubblicato il 22 dicembre scorso.


 

Recedite, recedite; exite inde, pollutum nolite tangere; exite de medio ejus; mundamini, qui fertis vasa Domini – Is 52,11 (Partite, partite, uscite di là! Non toccate nulla d'impuro! Uscite di mezzo a lei! Purificatevi, voi che portate i vasi del Signore!)

Quando si scatenò la persecuzione di Decio, nel 250 d.C., i tempi delle catacombe erano lontani. Pur mal viste e occasionalmente bersaglio di attentati e soprusi, le comunità cristiane si erano diffuse ovunque nell'impero, prosperavano anche economicamente e contavano appartenenti in ogni ceto sociale. Fu perciò tanto più traumatica la decisione del nuovo sovrano di obbligare tutti i cittadini a rendere un sacrificio pubblico agli dei pagani sotto pena di subire la tortura, l'esilio, la spogliazione dei beni e, nei casi più gravi, la morte. Milioni di cristiani tra cui anche nobili, possidenti e alti funzionari dello Stato si trovarono così da un giorno all'altro costretti a scegliere se offendere la propria fede o perdere tutto.

Quella deciana non nasceva come una persecuzione. L'imperatore voleva allestire una consacrazione di massa agli idoli pagani per restaurare la pietas tradizionale e propiziare la vittoria militare contro i barbari che premevano ai confini. Le pene riservate ai riluttanti erano uno strumento di questo progetto, per la cui realizzazione ci si avvalse del poderoso apparato burocratico imperiale come mai era accaduto prima. Affinché nessuno sfuggisse al precetto, il sacrificio prescritto doveva svolgersi in presenza di testimoni e di un ufficiale pubblico incaricato di rilasciare un certificato (libellus) che ne attestasse il compimento. Senza libellus si era fuori dalla

società e dalla legge. Secondo gli storici e i contemporanei, fu tutto sommato esiguo il numero di coloro che in quei mesi persero effettivamente la vita per la fede, come toccò ad esempio al pontefice Fabiano. Alle autorità romane non sfuggiva il rischio di creare nuovi esempi di santità col martirio, sicché miravano piuttosto a indebolire e corrompere le comunità eterodosse per assimilarle. Molto più numerosi furono perciò i cristiani che per evitare le pene annunciate si piegarono a rendere omaggio alle divinità pagane. Fu quasi un'apostasia di massa che, una volta decaduto l'editto, lasciò una ferita profonda nel cristianesimo delle origini e sollevò il problema di come trattare i tanti che chiedevano di rientrare in seno alla Chiesa pur essendo «scivolati» (lapsi) nell'idolatria. Ne scaturirono diatribe, concili e anche i primi scismi di Novaziano e Felicissimo, che giudicavano rispettivamente troppo accomodante o troppo severa la posizione del papato.

Cipriano, vescovo di Cartagine e futuro martire e santo, ci ha lasciato una testimonianza di quegli eventi nelle epistole che indirizzava alle comunità dei fedeli dal suo esilio segreto. Rientrato a Cartagine dopo la morte di Decio, affidò alla lettera pastorale De lapsis un commento e un giudizio sulle condotte tenute dai confratelli durante la persecuzione. Dopo avere reso grazie a Dio per la cessazione del pericolo e la sua breve durata, tanto da potersi dire una prova più che una vera persecuzione («exploratio potus quam persecutio»), tesse innanzitutto le lodi dei confessores, cioè di coloro che si erano apertamente professati cristiani al cospetto dei magistrati, affrontandone le conseguenze. L'omaggio che va reso a quei pochi e coraggiosi testimoni, aggiunge, vale anche per coloro che avessero infine ceduto sotto gli insopportabili tormenti. Essi avevano infatti peccato per necessità, non per volontà; si erano piegati al castigo, non alla prospettiva del castigo («nec excusat oppressum necessitas crimini, ubi crimen est voluntatis»).

In polemica con i rigoristi scismatici e il Tertulliano del De fuga, Cipriano ritiene che debbano essere glorificati anche i tanti renitenti («stantium moltitudo») che, «saldamente radicati nei precetti celesti» e senza temere i castighi promessi, avevano scelto di non presentarsi all'appuntamento fissato per il sacrificio, affermando così implicitamente la loro fedeltà a Cristo. Se infatti «la prima vittoria è di chi, caduto nelle mani dei gentili, professa il Signore, la seconda è di chi si ritira cautamente serbandosi a Dio». Chi non adempiva doveva darsi alla macchia, come fece anche Cipriano e come esorta a fare secondo l'insegnamento delle Scritture: «sì, bisognava lasciare la patria e subire la perdita del patrimonio» perché «è Cristo che non deve essere lasciato, è la perdita della salvezza e della dimora eterna che deve essere temuta». L'esilio non è una sconfitta, spiega, ma piuttosto una condizione per preparare e compiere la volontà divina, anche fino all'ultimo sacrificio. «Infatti, poiché la corona dipende dalla degnazione di Dio e non la si può ricevere se non nell'ora stabilita, chi se ne va restando in Cristo non nega la sua fede, ma attende il tempo. Chi invece cade per non essersene andato, significa che è rimasto per negare Cristo». Lo stesso Cipriano, dopo essere sfuggito alla prima persecuzione, sarebbe caduto martire alcuni anni dopo sotto Valeriano.

Nella parte centrale dello scritto, la più dolorosa e polemica, il vescovo stigmatizza i comportamenti degli apostati e registra inorridito la prontezza con cui la maggior parte dei fratelli («maximus fratrum numerus») si era precipitata all'appuntamento sacrilego. Eccoli «correre di loro iniziativa al foro, affrettare spontaneamente la loro morte [spirituale], quasi desiderassero farlo da tempo, quasi abbracciassero l'occasione che era loro offerta e che avevano ardentemente desiderato». Rimandati alla mattina seguente dai magistrati per mancanza di tempo, insistevano affinché li si ricevesse il giorno stesso. Accorsi all'«altare del diavolo» con una vittima da immolare, non si avvedevano di essere essi stessi le vittime («ipse ad aras hostia, victima ipse venisti») e che su quel braciere avrebbero consumato «la loro salvezza, la loro speranza, la loro fede».

Molti, non contenti di avere distrutto sé stessi, si prodigavano per spingere il prossimo nella loro stessa rovina e, «affinché nulla mancasse al cumulo dei crimini», anche i bambini furono «obbligati o incoraggiati dai loro genitori a perdere ciò che avevano ricevuto» con il battesimo. Cipriano immagina le parole con cui questi innocenti si sarebbero discolpati nel giorno del giudizio, puntando il dito contro chi li aveva messi al mondo. Segue poi una descrizione delle tragiche reazioni patite da alcuni apostati, come il caso di un uomo divenuto muto «acciocché non potesse più implorare misericordia» o di una donna che, avendo subito approfittato della libertà concessale per svagarsi alle terme, vi aveva trovato la possessione e la morte. L'autore insiste molto sulla dimensione corporale del peccato: l'assunzione della vittima sacrificata è un'anti-eucaristia che ammorba l'anima penetrando gli organi, una reincarnazione del frutto dell'Eden, sicché gli è facile mettere in opposizione i «cibi scellerati» con i «cibi celesti», «il toccare la cosa immonda, il lasciarsi violare e insozzare dalle carni avvelenate» con la comunione eucaristica. Tra gli apostati che si erano riaccostati impenitenti al sacramento, riferisce, alcuni avevano trovato cenere o fiamme in luogo della particola, altri l'avevamo vomitata, altri erano collassati. Episodi isolati, è vero, ma avverte che nessuno doveva perciò presumersi impunito per sempre («nec hic esse sine poena possunt quamvis necdum poena dies venerit») perché «nel frattempo sono colpiti alcuni affinché gli altri siano avvertiti, la sciagura di pochi è un esempio per tutti».

Vi erano poi alcuni, detti libellatici, che per evitare le sanzioni senza commettere materialmente il sacrilegio si erano procurati il libellus da esibire alle autorità con la corruzione o mandando altre persone sotto falsa identità. Sappiamo dall'epistolario dell'autore che a questi espedienti avevano fatto ricorso anche diversi sacerdoti e persino dei vescovi. La loro condotta è meno grave, ma comunque esecrabile («hoc eo proficit ut sit minor culpa, non ut innocens conscientia»), perché «quel certificato è esso stesso una confessione di apostasia» e un atto di sottomissione a un decreto umano che viola le leggi di Dio. «Come può essere con Cristo chi si vergogna o ha paura di appartenere a Cristo?», si chiede.

Le parole più dure sono riservate agli apostati che, per iniziativa propria o perché traviati da cattivi pastori «il cui eloquio si diffonde come un cancro e la cui propaganda tossica e velenosa uccide più della stessa persecuzione», pretendevano di tornare in comunione con la Chiesa senza adempiere alle penitenze prescritte, dimostrando così di non tenere in alcun conto la gravità del peccato o addirittura presumendo di non averne commesso alcuno. Questa leggerezza rinnova e duplica il sacrilegio, spiega il cartaginese, perché chi aveva tremato davanti agli uomini ora non trema davanti a Dio e «quando doveva stare in piedi si è prostrato, quando dovrebbe invece prostrarsi e inginocchiarsi, resta in piedi». Implora perciò i fedeli di «aprire il cuore alla consapevolezza del crimine commesso senza disperare della pietà divina, ma anche senza pretendere il perdono istantaneo» dispensato dal clero deviato che propala «false promesse di salvezza». La durata e l'intensità della penitenza devono essere commisurate alla gravità del peccato («quam magna delinquimus, tam granditer defleamus») e riflettersi anche negli atti e nell'aspetto esteriore, affinché si dia piena «prova del dolore di un'anima contrita e pentita».

Nell'interrogarsi sulle cause di una disfatta così clamorosa Cipriano considera la «lunga pace» accordata ai cristiani che, ormai quasi dimentichi delle ultime grandi persecuzioni, si erano integrati nella società imperiale accumulando cariche e patrimoni. Al rilassamento dei rapporti con l'autorità statale si era accompagnato anche un rilassamento dei costumi, «nessuna devozione nei vescovi, nessuna integrità di fede nei sacerdoti, nessuna misericordia nelle opere, nessuna disciplina nei comportamenti». La fede si era «illanguidita, direi quasi addormentata» e le comunità si erano date ai traffici: «ciascuno si studiava di aumentare le proprie ricchezze» con «insaziabile cupidigia» e molti vescovi, abbandonati gli uffici divini, si dedicavano agli investimenti, all'usura e ad altre faccende secolari («divina procuratione contempta procuratores rerum saecularium fieri»).

Il santo, appartenente egli stesso a una famiglia facoltosa, non considera la sicurezza sociale e il benessere materiale come mali in sé. Essi diventano tali se oggetti di un attaccamento che dispone alla negazione di Dio. Ritiene perciò che con la persecuzione «il Signore ha voluto mettere alla prova la sua famiglia» e lanciare un monito la cui necessità si è dimostrata proprio nella risposta data dai credenti. Questi ultimi, spiega, sono caduti proprio a causa delle ricchezze che li tenevano incatenati al mondo e alle sue condizioni. La capitolazione dei lapsi assume così un chiaro senso didascalico:


Non potevano avere la libertà e la prontezza di ritirarsi coloro che si erano legati ai beni materiali. Questi erano i ceppi di chi è rimasto, queste le catene che hanno impedito la virtù, soffocato la fede, sopraffatto il giudizio e strozzato l'anima, affinché coloro che si aggrappavano alle cose della terra divenissero cibo e preda del serpente che Dio ha condannato a divorare la terra.

Cipriano non denuncia un calcolo, bensì un abbaglio, la follia di spendere l'eternità per comprare ciò che ci sarà comunque tolto («cui enim non nascenti adque morienti relinquenda quandoque?») e la sfiducia nella Provvidenza divina che per bocca di Cristo assicura «multo plura in hoc tempore» a chi lascia i tesori mortali per Dio (Lc 18,29-30, C. cita a memoria e scrive «septies tantum»). La lezione di ascesi è anche una lezione di logica: l'«indipendenza» economica è a conti fatti il suo opposto, una dipendenza da chi la può concedere, tutelare e revocare, dal padrone temporale che può anche metterla al prezzo della dignità, o dell'anima. Dal disordine della persecuzione emerge così l'essenza della dialettica cristiana, l'opposizione tra il passaggio mondano e la vocazione celeste, il non essere del mondo e perciò odiati dal mondo (Gv 17,14) e la conseguente certezza che gli omaggi terreni si scontano con la moneta reclamata da chi offriva invincibilità e sazietà nel deserto: «tutte queste cose io ti darò, se, prostrandoti, mi adorerai» (Mt 4,1-11).




Attraverso le parole di Elon Musk, l'autore coglie nella tendenza odierna alla realtà artificiale quello che nella storia del pensiero – e dell'arte, specie nel Novecento – è un fatto ricorrente: il capovolgimento di una posizione materialista estrema in una posizione spiritualista altrettanto estrema, e mai come oggi pericolosa, dato che «gli spiriti che vi si affacciano non sono affatto benevoli» e «Il disboscamento dei segni discreti della presenza di Dio ha spalancato le praterie dove il diavolo va a caccia... »



Elon Musk ha dichiarato che “con l’intelligenza artificiale stiamo evocando il demonio”, e aggiunto “come in tutte le storie, c’è un tizio con pentacolo e acqua santa sicuro di controllare il demonio, ma non funziona così”. A beneficio di chi non crede in quelle “storie”, ha rincarato via Twitter che l’A.I. è “peggio delle armi nucleari”.

Si può appendere la polemica alla guerra commerciale fra il Metaverso di Zuckerberg e la sua Neuralink, che ha già connesso un maiale ad un computer. In un’altra recente intervista, il padrone di Tesla e SpaceX ha ironizzato che mentre Meta ti mette nel naso un televisore – un simulacro di realtà creata da altri – Neuralink compie la traiettoria opposta espandendo il cervello nella realtà. Non so se Musk abbia letto Verso un’ecologia della mente dello psichiatra Gregory Bateson, uno dei padri della cibernetica.

Bollato come eretico quando postulò che la mente fosse l’espressione della relazione fra intelletto e ambiente, in seguito espulso dalla ciber-comunità che aveva iniziato, Bateson fa parte di quei saturni che divorano i propri figli, capaci cioè di conversioni profondamente indigeste ai seguaci. Musk è certamente più ridondante di Bateson nello smentire se stesso: a settembre aveva seccamente preso le distanze dal vaccino, dichiarando che né lui né i suoi figli lo avrebbero fatto, salvo poi pentirsi vaccinandosi e vaccinando i figli, protestando però come l’obbligo vaccinale rappresenti un’erosione della libertà. Il tempo dirà se seguirà le orme di Bateson o troverà un equilibrio ponendo fine ai propri tormenti, e a quelli degli investitori.

In principio fu Steve Jobs. Musk è un esponente di spicco della generazione di imprenditori semidei visionari multimiliardari che alligna Zuckerberg, Bezos, Gates, il duo Brin e Page e fino a qualche mese fa Jack Ma, stritolato nelle spire di un dio più potente di lui: la Cina. Uomini che coniugano enormi patrimoni con un’idea di mondo sconfinato, e li fondono nel crogiolo della volontà di potenza. Potenza della volontà, forse in misura maggiore potenza della noia che prende quando hai vissuto tutto tranne l’essenziale, in largo anticipo sulla tua morte.

Il denominatore comune che lega queste personalità è il fatto che i loro seguaci sono più numerosi dei loro clienti. Si può dire che buona la loro fortuna dipenda dall’essere anzitutto degli sherpa spirituali. Grazie a loro e al loro servizio, sono entrate nel linguaggio comune espressioni come “evangelista digitale”, “guru”, “entusiasta”, “seguace”, “apostolo”. Si diventa adepti di questi guru per realizzarsi in proprio: credere in se stessi è il leit-motiv che fa da quinta al teatro del mondo. Intorno agli anni ’20 del secolo scorso G.K. Chesterton, passeggiando non lontano da un manicomio col suo editore, osservava come quello fosse il luogo delle persone che credono in se stesse più di chiunque altro, al punto di qualificarsi come Napoleone, Giulio Cesare o Gesù Cristo.

La nostra epoca è segnata da una foga millenarista non diversa da quella descritta da Georges Duby nel suo Anno Mille: storia religiosa e psicologia collettiva. I tempi bui cui guardiamo con sarcasmo ce li siamo portati dietro, e forse dentro. Hanno a che fare con la natura umana? Allora a che pro affannarsi a cambiarla? Su cosa poggia la certezza di vivere nel migliore dei mondi possibili, o di essere più evoluti di chi è venuto prima?

La funzione salvifica della Scienza tramite il Vaccino, il timore della fine dei tempi, il progresso che scatena forze infere, l’attesa degli alieni, l’impulso scomposto a rendere decidibili evidenze biologiche come il sesso, l’identità frullato di natura, civiltà e cultura (o danza dionisiaca da un piano semantico all’altro, secondo l’ubbìa del momento), il catastrofismo ecologista, il dovere prono della dematerializzazione, il determinismo linguistico che si palesa nel politicamente corretto con infinite nomenclature sorvegliate da sbirri psicotici, lo sturbo del pensiero unico e gli autodafé furibondi con cui si gettano gli eretici tra fiamme per il momento immaginarie: tutte tessere di un mosaico poco propizio, un Kraken ignaro del principio di indeterminazione di Heisenberg – c’è un punto impenetrabile all’uomo in cui le leggi naturali violano se stesse e accade l’impensabile – che potrebbe per eterogenesi dei fini schiantarsi violentemente contro il futuro dal quale fugge. La lista delle distorsioni cognitive sarebbe lunga, in compenso il tema investe tanto i positivisti quanto i negazionisti.

È affascinante come il materialismo estremo si stia rapidamente sciogliendo nello spiritualismo estremo, e come gli spiriti che vi si affacciano non siano affatto benevoli. Il disboscamento dei segni discreti della presenza di Dio ha spalancato le praterie dove il diavolo va a caccia.

Quando papa Benedetto XVI invitò tutti a vivere etsi Deus daretur, come se Dio ci fosse, stava donando un’indicazione di salvezza e progresso laico autentici, un po’ troppo sbrigativamente accantonata. L’attuale pontefice ha una sensibilità diversa che lo porta a sperticarsi nell’elogio dei fagioli, “alimento umile e privo di orgoglio” (immacolata concezione del borlotto?). L’accostamento impervio fra le due citazioni depurate dal contesto e dai suoi autori, non da ruolo ricoperto e bersaglio retorico, sul piano simbolico proietta in altissima definizione la profondità del baratro di mucillagine intellettuale, altrimenti detta demenza, in cui ci siamo gettati. Torcendo Sartre, l’inferno siamo noi.

Questo breve insieme di echi illumina in modo diverso le parole di Elon Musk. Come ogni boutade azzeccata, rivela più di molti ragionamenti salmastri. Visto che non possiamo andare in paradiso, benvenuti nell’inferno del sedicente progresso umano, dove non saremo noi a regnare. A meno che non giunga sino a noi “la parola rivelata del dio”, come intuiva Platone nel Fedone e come accade ogni Natale. L’uomo non si salva da solo.



“ Una firma qui... bene... ecco! ...E con l'anima, ha perso anche i diritti connessi al suo, ormai ex, DNA...!“. Può sembrare uno scherzo ma dopo l'iperbole (ma solo fino a un certo punto) di Maurizio Blondet sulla questione del libero assenso alla somministrazione del vaccino (“vogliono ammazzarci con il nostro consenso, cioè vogliono la nostra anima, la nostra firma come il Dottor Faust che firma il patto col diavolo" - https://www.byoblu.com/2021/11/25/il-consenso-informat o-e-come-il-patto-del-dr-faust-maurizio-blondet/), apprendiamo di una sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti che nel 2013 [https://www.supremecourt.gov/opinions/12pdf/123 98_1b7d.pdf] ha legiferato circa la brevettabilità – non ovviamente del DNA in sé, "creazione della natura" – ma del DNA sintetico che può essere creato da una singola molecola di mRNA (di cui i vaccini sono notoriamente fatti), il cosiddetto cDNA. Con tutte le implicazioni giuridiche, e non solo morali, che questo comporta...


 

[...] A partire dal 2013 la Corte Suprema degli Stati Uniti ha gettato le basi per equipaggiare legalmente le aziende per le conseguenze che i vaccini mRNA avranno su tutti individualmente, socialmente e globalmente. C’è il parere della Corte Suprema degli Stati Uniti n. 12-398 del 13 giugno 2013, parere di 22 pagine della Corte Suprema degli Stati Uniti intitolato “ASSOCIATION FOR MOLECULAR PATHOLOGY et al. contro MYRIAD GENETICS,INC. et al. secondo cui un essere umano che viene vaccinato in futuro con un vaccino mRNA viene mutato e cessa di essere considerato un essere umano come lo era prima, con tutto ciò che questo implica per il suo essere fisico, e per estensione, per i suoi diritti. Si ritiene che sia mutato in modo permanente e che ora sia di proprietà dell’azienda che ha fatto il vaccino, e quindi appartiene ai proprietari delle aziende di vaccini.


Il parere è arrivato dopo una disputa legale tra le due società (MOLECULAR PATHOLOGY e MYRIAD GENETICS,INC.) sulla registrazione di brevetti sul tema dell’alterazione del DNA umano con vaccini mRNA. La decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti è già pubblicata e può essere letta da chiunque, con tutte le cose tremende e terribili che sono elencate.

Alle pagine 1 e 2 apprendiamo che MYRIAD GENETICS, INC. ha diversi brevetti perché ha scoperto la posizione esatta e la sequenza dei geni BRCA1 BRCA2 (BReast CAncer, Breast Cancer 1 e 2) le cui mutazioni possono aumentare drammaticamente il rischio di cancro al seno e alle ovaie (così, di conseguenza, possono curarlo! ) e che il DNA umano come prodotto della natura non può essere brevettato, cioè brevettato, mentre il cDNA può essere brevettato perché non è un prodotto della natura secondo il § 101.

Ora vedremo subito cos’è questo cDNA.


A pagina 6 si afferma che una singola molecola di mRNA può creare un DNA sintetico. Questo DNA sintetico è una conquista di laboratorio ed è noto agli scienziati come DNA complementare o DNA complementare o come viene simbolizzato “cDNA”. La mutazione del DNA umano può variare in grado e alcune mutazioni possono essere innocue, altre possono causare una malattia e altre ancora possono aumentare il rischio di una malattia.


[...]


Alle pagine 19 e 20 del documento è scritto il testo, improbabile o impensabile per le persone normali: Il cDNA non presenta gli stessi problemi di brevettabilità del DNA normale, che è una creazione della natura. Il cDNA è stato creato dall’mRNA. […] il tecnico di laboratorio crea qualcosa di nuovo quando crea il cDNA ed è diverso dal DNA, quindi il cDNA non è un “prodotto della natura” e quindi può essere brevettato!


Un coraggioso professore di medicina, David Martin, analizzando quanto sopra ha detto: «Non si può brevettare qualcosa che esiste in natura. L’unico modo legale è un virus ingegnerizzato brevettato. Una volta che quel virus è stato prodotto, allora abbiamo una violazione dei trattati di guerra biologica e chimica».

Passando ad altri rapporti di vari analisti che hanno studiato questa decisione del tribunale, ne consegue che una volta che qualcuno ha fatto l’mRNA è stato mutato in un “trans–umano” ed è di proprietà della società di vaccini che lo ha fatto. Come se ora fosse una cosa, un oggetto, un prodotto, un prodotto brevettato. (Ecco perché non volevano lo Sputnik).


Quindi, dato che queste persone, i vaccinati, sono stati mutati dalla loro firma, cioè dalla loro volontà, “l’identità umana” non si applica a loro, quindi non hanno più diritti umani. Né i diritti umani, né i diritti che avevano in uno stato. Questo perché i diritti dei “trans umani” non sono previsti dalla legge. Non hanno diritti in nessuna parte del mondo. Questo non ha ancora cominciato a materializzarsi. E quando le élite avranno finito il loro programma malvagio, allora cominceranno a categorizzare gli unici “umani” simili agli umani di adesso.

E dato che non possiedono i loro corpi mutati, siediti e pensa a cosa significa ora essere un donatore di organi. Le mie pecore innocenti. È tutto fatto con ordine e con incredibile malvagità dai “satanisti”. Ma un essere umano può diventare un bene in virtù di un brevetto? La risposta è sì. C’è un precedente. Le piante e gli animali che sono già stati mutati sono di proprietà delle aziende che detengono il brevetto della mutazione. Ecco perché quando i contadini usano semi mutati non sono autorizzati a trapiantarli.

Molti sostengono che il reimpianto di tali semi ha poco rendimento. Sì, ma c’è un segreto. Se questo processo, di piantagioni successive, viene ripetuto i semi torneranno al loro stato normale, ma se lo fai tu sei considerato un ladro. E gli animali sono controllati nella loro riproduzione. Dopo la mutazione delle piante e degli animali, è il turno dell’uomo. Evoluzione naturale secondo le menti malate che dirigono il pianeta.

A titolo informativo, nel mondo dei brevetti USA, sono stati registrati brevetti per trattamenti di varie malattie come l’AIDS, H1N1, SARS, EBOLA CORONAVIRUS, ecc. Il brevetto per il trattamento del coronavirus è il numero 10130701 che è stato pubblicato nel mio precedente articolo. Così come ci sono brevetti di fabbricazione registrati per virus come l’AIDS, ecc.

Quindi quello che stiamo vivendo non è un esperimento come alcuni pensano. È un’applicazione di scoperte scientifiche che non ci sono mai state fatte conoscere. Basta considerare che il brevetto per il test covid-19 numero US-2020279585-A1 è stato brevettato il 13 ottobre 2015(!) ed è di proprietà, dove altro, dei Rothschild.


[...]


La Corte Suprema degli Stati Uniti dal 2013 ha fatto in modo di coprire i piani malvagi dell’élite perché all’epoca nessuno avrebbe potuto immaginare cosa stavano facendo i colossali figli di Echidna a immagine e somiglianza delle creature di Dio. Nessuno immaginava che volessero mutare le persone. Che fallirebbero è certo; è incerto fino a che punto arriverebbero.

Dopo tutto, il nome del virus “Covid-19” potrebbe derivare da “Convert ID 2019”.




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