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Da diversi decenni la questione dei Santi all'interno della predicazione della Chiesa (non parliamo di quella dei mistici) sembra essere passata in secondo piano, per non dire quasi del tutto (e volontariamente) cassata, tutt'al più relegata a una dimensione puramente museale o storiografica e, come ogni “classico” che si rispetti, ridimensionata ad argomento di sola conversazione tra “specialisti” del settore. Niente, cioè, di vivo e palpitante ora nel Corpo Mistico, ma qualcosa, al massimo, di storicamente avvenuto, dunque di morto. E più volentieri avvenuto nel pensiero e nella “coscienza storica”, cioè più nell'interpretazione che non nella realtà dei fatti (di carne e sangue) che il cattolicesimo debole tende nietzscheanamente a sminuire. Dunque, in questa lenta ma implacabile rotazione dell'asse del Trascendente nell'immanente, ecco l'apparizione del sosia, il “Santo della porta accanto”, come ha ben visto Cristina Siccardi.

Ma questa sorta di allergia ai Santi e alla santità – allergia che certamente è un prodotto della secolarizzazione, del trionfo dello spirito della modernità, della comoda società della tecnica vissuta come la distruttrice di ogni fede nel Trascendente – vista più da vicino sembra rivelarsi purtroppo come un’allergia, direttamente, al Signore come segno di contraddizione. Parole Sue, queste ultime, pronunciate per bocca del profeta Simeone e da non prendere, come siamo soliti fare, tanto alla leggera: alla lettera, il Signore “è posto […] come un segno che parla-contro” (εἰς σημεῖον ἀντι-λεγόμενον). E contro chi altri, se non contro tutti noi? È un problema più vasto che interpella da sempre la coscienza cristiana e che passa proprio dal nostro rapporto con il Signore, che, sì, ci ama, ci salva e ci indica l'autentica destinazione, eppure anche “ci contraddice”, ci “parla contro”. Il Signore infatti ci mette, e non può non metterci con la sua stessa “semplice presenza” se viviamo davanti a lui, in cattiva luce (rivelando le ombre che oscurano la nostra anima), ossia in contraddizione con Lui o se si vuole con la nostra unione ipostatica con Lui, con la nostra vita perfetta – santa – come da Lui stesso pensata per noi dall'eternità e per l'eternità (la nostra “forma eterna”).


Come potrebbe del resto non apparirci problematica la vita se – anche solo per un attimo, con gli occhi dell’anima disincarnata – potessimo vedere il Signore vivo e vero, sempre costantemente presente a fianco a noi? Come potremmo non trovarci in imbarazzo, continuare a parlare, agire e pensare come siamo soliti fare, se dovessimo considerare che in ogni istante della nostra vita, attraverso l’Angelo custode che ci ha messo a fianco, il Signore è sempre pazientemente lì, di fianco a noi, a compiacersi ma molto più spesso a dispiacersi dei suoi figli?


Più banalmente, chi vive davvero davanti al Signore è posto continuamente in una santa contraddizione con Lui che ha la forma di un “appello”, che risuona nella coscienza. Questa posizione ovviamente può rimanerci indifferente – non interpellarci in alcun modo – se questo rapporto, quest'invisibile incontro con Lui è stato in qualche modo disinnescato e dislocato altrove, nella coscienza che ha già rinunciato al Trascendente per l'immanente, alla vera vita dello spirito per quella della carne o comunque per una vita tiepida, puramente formale e farisaica. Ciò accade quando il Signore, così si sente dire spesso rispetto al sacramento della Confessione, non ci fa gran problema: “io non ho mai peccati da confessare”, oppure “non so mai cosa confessare… rubare non ho rubato, ammazzare non ho ammazzato...” e come il pubblicano della parabola ci sentiamo giusti (abbiamo fatto tutti i compiti!) e ringraziamo il Signore di non averci fatto come quel pubblicano disgraziato che, come "il perdente" che è, pensiamo, si batte inutilmente il petto, dimenticandoci che fu proprio quest'ultimo ad andarsene giustificato. Perché il buono-buono, come ha detto padre Giuseppe Barzaghi, agli occhi di Dio non esiste. Il buono, agli occhi di Dio, è sempre un convertito, un cattivo che è diventato buono (e che resta pursempre in via...), è il peccatore convertito. Ancora, Padre Pio diceva che il penitente dispiaciuto dei suoi peccati è più vicino a Dio dell'uomo che si vanta delle proprie opere.


Dunque tutti santi e che non sanno nemmeno di esserlo? O piuttosto quando il Signore non fa problema è segno certo che non siamo in rapporto con Lui, e questo è il problema di tutti i problemi? Quello di un’estraneità, assieme al peccato, non più avvertiti nemmeno come tali? Nemmeno i Santi, che di certo hanno vissuto la loro vita di fronte al Signore, hanno mai sperimentato una pura e semplice assenza di problemi. È sempre stato vero il contrario. E questo perché la vita di fede è sempre intrinsecamente problematica, sempre massimamente in “pericolo” e in qualche modo a un passo dallo “scacco”, sempre tentata dalla disperazione lungo i deserti e le notti che non sembrano mai finire. L'incontro con il Signore – quando riusciamo a udire la voce della sua chiamata – ci pone inevitabilmente di fronte all'accettazione di quella che padre Giovanni Cavalcoli ha chiamato una “misurata instabilità”, misurata perché accompagnata e corretta via via con gli strumenti della Grazia (la Confessione, la Comunione, la preghiera...), instabilità perché il nostro rapporto con il Signore, finché restiamo sulla terra, è posto dentro l'insuperabile mutevolezza e problematicità degli eventi che si danno nel tempo.


È risaputo ad esempio che Padre Pio si confessasse di frequente, più delle due volte settimanali previste dalla regola e approfittando, per la confessione, di quasi ogni prete che si trovava a passare da S. Giovanni Rotondo. Questi gli dicevano di non trovare, in quanto diceva il Santo, "alcuna materia di confessione. Questi non sono peccati". Ma Padre Pio rispondeva loro che "Gesù sapeva, e lo sapevo bene anche io, che in quella determinata circostanza potevo fare di più e meglio" perché, ecco il punto, "la confessione seve a migliorarci". Ad abitare con equilibrio e buona volontà questa santa e provvidenziale contra-dizione col Signore senza la quale saremmo perduti. Perché, se anche mantenendoci a distanza da Lui possiamo apparire giusti e perfetti agli occhi degli uomini, gli uomini non ci salveranno. Ed entrare e rimanere nella zona di contra-dizione e di pericolo, cioè al Suo cospetto, costa fatica, è uno sforzo e un farsi violenza che consegue degli effetti, da un punto di vista soggettivo, paradossalmente negativi: "È un fatto psicologico", scriveva il ven. Fulton J. Sheen, "che più noi serviamo il Corpo Mistico di Cristo, maggiore è lo scontento di noi stessi; più ci avviciniamo a Lui, più ci convinciamo di non saper far niente…" e viceversa, "più ci allontaniamo dall’ideale Divino più vantiamo le nostre perfezioni. Ma più ci avviciniamo a Cristo e più distinguiamo le nostre imperfezioni. Questo è il nostro tormento. Nessuno si sente sicuro della propria innocenza di fronte alla Purezza Assoluta, ma tutti chiedono con gli apostoli: “Sono forse io Signore? Sono io?”, cioè il traditore che non vive di fronte a Lui.


Più di due secoli fa, un poeta che "stava pensando di farsi cattolico" ma fu raggiunto prima dalla follia, Friedrich Hölderlin, aveva compreso poeticamente l'importanza di questa zona di confine, quando nel suo Inno intitolato Patmo scriveva che solo "dove cresce il pericolo", cioè per noi vivendo al cospetto del Signore, "cresce anche ciò che salva", ossia i meriti e il tesoro di misericordia accumulati qui per la vita eterna.


Vicino
e difficile da afferrare è il Dio.
Ma dove cresce il pericolo, cresce
anche ciò che salva
(Patmo)

Giuliano Diofili, senza titolo (1985)
Giuliano Diofili, senza titolo (1985)

L'episodio dell'adultera condotta a Gesù dai farisei, tramandata dal solo Vangelo di Giovanni (8,1-11), ci mette di fronte - senza spiegarlo - a quest'enigmatico quanto significativo scrivere di Gesù nella polvere, per terra (Jesus autem ... scribebat in terra). Mentre lo chiamano, non senza ipocrisia, "maestro", i farisei stanno allestendo una trappola per metterlo finalmente in stato d'accusa. Stavolta, credono, il "maestro" non avrà scampo: se infatti contesterà la lapidazione si mostrerà un trasgressore della Legge e passibile a sua volta di condanna; se la ammetterà, negherà invece quel principio di misericordia di cui si è fatto fin lì portatore, disgregando il suo magistero e disperdendo la folla dei suoi seguaci.

Dovette essere una scena altamente drammatica e pericolosa: una folla di persecutori carichi di odio, e secondo loro portatori di una violenza giusta, trascinano la povera vittima prossima al macello, al cospetto un "maestro" a cui intendono far fare la stessa identica fine. Per ben due volte la risposta di Gesù, mentre costoro scaricano le loro accuse sull'adultera, si risolve in un silenzioso scrivere in terra sulla polvere, compiendo un gesto apparentemente senza senso, prima di recidere la questione con il famoso: “Chi tra di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra su di lei”.

Quel che accade qui realmente, cioè nascostamente, è preannunciato nel libro di Geremia in cui si dice: “recedentes a te, in terra scribentur”, coloro che si allontanano da te, sono scritti nella polvere. La tensione è massima perché, nonostante la vittima non sia innocente (come in genere nei miti), ma colpevole (il vangelo di Giovanni ce la presenta già come adultera), il meccanismo vittimario che "maneggiano” i farisei può funzionare solo via transfert, e cioè solo se la raccolta e il travaso - per così dire - dei peccati dei persecutori su un'unica vittima, riesce. Solo, cioè, se la vittima è giudicata a tutti gli effetti colpevole (in questo caso lo è) e immolata anche al posto di tutti, i farisei potranno liberarsi, a spese di quest'ultima, della propria violenza e dei propri peccati. Tornandosene poi a dormire il sonno dei giusti.


Ma qualcosa va storto, il Signore solleva il tema della colpevolezza dell'intera folla dei "giusti" d'Israele, il meccanismo vittimario non riesce ed entrambi, adultera e Figlio di Dio, non finiscono lapidati. Il tema sollevato dalle parole del Signore con quel "Chi di voi è senza peccato, scagli la prima pietra" è prodotto esattamente da quel gesto, ripetuto due volte, di scrivere per terra, nella polvere (Jesus autem inclinans se deorsum, digito scribebat in terra [...] Et iterum se inclinans, scribebat in terra).

È Maria Valtorta a soccorrerci e a riempire di significato l'indicazione data dall'autore biblico nel libro di Geremia. Alla raffica di accuse rovesciate dai giusti sull'adultera corrisponde una precisa sentenza di Gesù su ogni singolo che l'ha lanciata. È una specie di “anticipo” del “giudizio particolare”: coloro che si allontanano da te sono scritti nella polvere, ognuno col suo preciso capo d'imputazione... Scrive Valtorta:


“[...] «Maestro? Parliamo a Te. Ascoltaci. Rispondici. Non hai capito? Questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Nella sua casa. Nel letto dell’uomo suo. Ella lo ha sporcato con la sua libidine».
Gesù scrive.
«Ma è stolto quest’uomo! Non vedete che non capisce nulla e traccia dei segni sulla polvere come un povero folle?».
«Maestro, per il tuo buon nome, parla. La tua sapienza risponda al nostro interrogare. Ti ripetiamo: questa donna non mancava di nulla. Aveva vesti, cibo, amore. E ha tradito».
Gesù scrive.
«Ha mentito all’uomo che aveva fiducia in lei. Con bocca mendace l’ha salutato e col sorriso l’ha accompagnato alla porta, e poi ha aperto la porta segreta e ha ammesso il suo amante. E mentre il suo uomo era assente per lavorare per lei, essa, come una bestia immonda, s’è avvoltolata nella sua lussuria».
«Maestro, è una profanatrice della Legge oltre che del talamo. Una ribelle, una sacrilega, una bestemmiatrice».
Gesù scrive.
Scrive e cancella lo scritto col piede calzato dal sandalo e scrive più là, girandosi piano su Se stesso per trovare altro spazio. Sembra un bambino che giuochi. Ma quello che scrive non è parola di giuoco. Ha scritto successivamente: «Usuraio», «Falso», «Figlio irriverente», «Fornicatore», «Assassino», «Profanatore della Legge», «Ladro», «Libidinoso», «Usurpatore», «Marito e padre indegno», «Bestemmiatore», «Ribelle a Dio», «Adultero». Scritto e riscritto mentre sempre nuovi accusatori parlano.
«Ma insomma, Maestro! Il tuo giudizio. La donna va giudicata. Non può col suo peso contaminare la terra. Il suo fiato è veleno che turba i cuori».
Gesù si alza.
Misericordia! Che viso! È un balenare di lampi che si avventano sugli accusatori. Sembra ancor più alto, tanto tiene la testa eretta. Sembra un re sul suo trono, tanto è severo e solenne. Il manto gli è caduto da una spalla e fa un lieve strascico dietro a Lui. Ma Egli non se ne cura. Con volto chiuso e senza la più lontana traccia di sorriso sulla bocca e negli occhi, pianta questi occhi in volto alla folla, che arretra come davanti a due lame ben puntute. Fissa uno per uno. Con una intensità di indagine che fa paura. I fissati cercano di arretrare nella folla e di nascondersi in essa. Il cerchio così si allarga e sgretola come minato da una forza occulta.
Infine parla. «Chi di voi è senza peccato scagli sulla donna la prima pietra». E la voce è un tuono accompagnato da un ancor più vivo lampeggiare di sguardi. Gesù ha conserto le braccia sul petto e sta così, ritto come un giudice, in attesa. Il suo sguardo non dà pace. Fruga, penetra, accusa.
Prima uno, poi due, poi cinque, poi a gruppi, i presenti si allontanano a capo basso. Non solo gli scribi e i farisei, ma anche quelli che erano prima intorno a Gesù ed altri che si erano accostati per sentire il giudizio e la condanna e che, tanto quelli che questi, si erano uniti per insolentire la colpevole e chiedere la lapidazione. Gesù resta solo con Pietro e Giovanni. Non vedo gli altri apostoli.
Gesù si è rimesso a scrivere, mentre la fuga degli accusatori avviene, e ora scrive: «Farisei», «Vipere», «Sepolcri di marciume», «Menzogneri», «Traditori», «Nemici di Dio», «Insultatori del suo Verbo»… Quando tutto il cortile si è svuotato e un gran silenzio si è fatto, non rimanendo che il fruscio del vento e quello di una fontanella in un angolo, Gesù alza il capo e guarda. Ora il volto si è placato. È mesto, ma non più irato. Dà un’occhiata a Pietro, che si è lievemente allontanato appoggiandosi ad una colonna, ed una a Giovanni che, quasi dietro a Gesù, lo guarda col suo sguardo innamorato. Gesù ha un’ombra di sorriso guardando Pietro e un più vivo sorriso guardando Giovanni. Due sorrisi diversi. Poi guarda la donna, ancora prostrata e piangente ai suoi piedi. L’osserva. Si alza, si riaggiusta il manto come fosse in procinto di mettersi in cammino. Fa un cenno ai due apostoli di avviarsi verso l’uscita. Quando resta solo, chiama la donna. «Donna, ascoltami. Guardami». Ripete il comando, perché essa non osa alzare il viso. «Donna, siamo soli. Guardami». La disgraziata alza un viso su cui pianto e polvere fanno una maschera di avvilimento.
«Dove sono, o donna, quelli che ti accusavano?». Gesù parla piano. Con serietà pietosa. Tiene il volto e il corpo lievemente piegati verso terra, verso quella miseria, e gli occhi sono pieni di una espressione indulgente e risanatrice. «Nessuno ti ha condannata?». La donna, fra un singulto e l’altro, risponde: «Nessuno, Mae­stro». «E neppure Io ti condannerò. Va’. E non peccare più. Va’ alla tua casa. E sappi farti perdonare. Da Dio e dall’offeso. Non abusare della benignità del Signore. Va’». E la aiuta a rialzarsi prendendola per una mano. Ma non la benedice e non le dà la pace. La guarda avviarsi, a capo chino e lievemente barcollante sotto la sua vergogna, e poi, quando è scomparsa, si avvia a sua volta coi due discepoli.
Dice Gesù: «Quello che mi feriva era la mancanza di carità e di sincerità negli accusatori. Non che mentissero nell’accusa. La donna era realmente colpevole. Ma erano insinceri facendosi scandalo di cosa da loro commessa le mille volte e che unicamente una maggior astuzia e una maggior fortuna avevano permesso rimanesse occulta. La donna, al suo primo peccato, era stata meno astuta e meno fortunata. Ma nessuno dei suoi accusatori ed accusatrici – perché anche le donne, se non alzavano la loro parola, la accusavano in fondo al cuore – erano scevri di colpa. Adultero è chi trascende all’atto e chi appetisce all’atto e lo desidera con tutte le sue forze. La lussuria è tanto in chi pecca che in chi desidera peccare. Ricordati, Maria, la prima parola del tuo Maestro, quando ti ho chiamata dall’orlo del precipizio dove eri: “Il male non basta non farlo. Bisogna anche non desiderare di farlo”. Chi accarezza pensieri di senso, e suscita con letture e spettacoli cercati appositamente e con abitudini malsane sensazioni di senso, è ugualmente impuro come chi commette la colpa materialmente. Oso dire: è maggiormente colpevole. Perché va col pensiero contro natura, oltre che contro morale. Non parlo poi di chi trascende a veri atti contro natura. L’unica attenuante di costui è in una malattia organica o psichica. Chi non ha tale scusante è di dieci gradi inferiore alla bestia più lurida.
Per condannare con giustizia occorrerebbe essere immuni da colpa. Vi rimando a dettati passati, quando parlo delle condizioni essenziali per esser giudice. A Me non erano ignoti i cuori di quei farisei e di quegli scribi, non quelli di coloro che si erano uniti ad essi nell’inveire contro la colpevole. Peccatori contro Dio e contro il prossimo, erano in loro colpe contro il culto, colpe contro i genitori, colpe contro il prossimo, colpe, soprattutto numerose, contro le mogli loro. Se per un miracolo avessi ordinato al loro sangue di scrivere sulla loro fronte il loro peccato, fra le molte accuse avrebbe imperato quella di “adulteri” di fatto o di desiderio.
Io ho detto: “È quello che viene dal cuore che contamina l’uomo”. E, tolto il mio cuore, non vi era alcuno fra i giudici che avesse il cuore incontaminato. Senza sincerità e senza carità. Neppure l’esser simili a lei nella fame concupiscente li induceva a carità. Io ero che avevo carità per l’avvilita. Io, l’Unico che ne avrei dovuto aver schifo. Ma ricordatevi però questo: che quanto più uno è buono e più è pietoso verso i colpevoli. Non indulge alla colpa per se stessa. Questo no. Ma compatisce i deboli che alla colpa non hanno saputo resistere.
L’uomo! Oh! più che canna fragile e vilucchio sottile è facile ad esser piegato dalla tentazione e portato ad avvinghiarsi là dove spera trovare un conforto. Perché molte volte la colpa avviene, specie nel sesso più debole, per questa ricerca di conforto. Perciò Io dico che chi manca di affetto per la sua donna, ed anche per la figlia sua propria, è per novanta parti su cento responsabile della colpa della sua donna o della sua creatura e ne risponderà per esse. Tanto l’affetto stolto, che è soltanto stupido schiavismo di un uomo ad una donna o di un genitore ad una figlia, quanto una trascuratezza d’affetti, o peggio una colpa di propria libidine che porta un marito ad altri amori e dei genitori ad altre cure che non siano i figli, sono fomite ad adulterio e prostituzione e, come tali, sono da Me condannati.
[...] Alla colpevole indico la via da seguirsi per redimersi. Tornare alla sua casa, umilmente chiedere perdono e ottenerlo con una vita retta. Non cedere più alla carne. Non abusare della bontà divina e della bontà umana per non scontare più duramente di ora la duplice o molteplice colpa. Dio perdona, e perdona perché è la Bontà. Ma l’uomo, per quanto Io abbia detto “Perdona al fratello tuo settanta volte sette”, non sa perdonare due volte.”

L'adultera è congedata ed esortata a cambiar vita, a non peccare più, ma non perdonata perché – diversamente da Maria di Magdala – interiormente è ancora indisposta ad accogliere la Verità nella sua vita con cuore puro; lei che probabilmente, come dice il Signore, alla fine non s'è salvata:


“ Non le do pace e benedizione perché non era in lei quella completa recisione dal suo peccato che è richiesta per esser perdonati. Nella sua carne, e purtroppo nel suo cuore, non era la nausea per il peccato. Maria di Magdala, sentito il sapore del mio Verbo, aveva avuto disgusto per il peccato ed era venuta a Me con la volontà totale di essere un’altra. In costei era ancora un ondeggiamento fra le voci della carne e dello spirito. Né ella, nel turbamento dell’ora, aveva ancora potuto mettere la scure contro il ceppo della carne e reciderla per andare mutilata del suo peso bramoso al Regno di Dio. Mutilata di ciò che era rovina, ma accresciuta di ciò che è salvezza.
Vuoi sapere se si è poi salvata? Non a tutti fui Salvatore. Per tutti lo volli essere, ma non lo fui perché non tutti ebbero la volontà d’esser salvati. E questo è stato uno dei più penetranti strali della mia agonia del Getsemani».”

Tra i lockdown globali del COVID del 2020 e le dislocazioni economiche che ha causato, Klaus Schwab, un fondatore precedentemente di basso profilo di un forum economico con sede in Svizzera, è emerso sulla scena mondiale chiedendo quello che ha definito un grande reset dell’intera economia mondiale, usando la pandemia come motore. Ha persino pubblicato un libro nel luglio 2020 che delinea il suo progetto. È stata giustamente definita una società tecnocratica con una pianificazione centralizzata dall’alto verso il basso. Schwab usa i timori del riscaldamento globale e la difficile situazione dei poveri del mondo per giustificare quello che è in effetti un piano per il totalitarismo globale in cui, come dice il sito web di Davos, nessuno possiederà nulla. Quello che non è noto è il fatto che l’ispirazione per i piani distopici di Schwab venga da un vescovo cattolico che ha incontrato in Brasile negli anni ’70.


Lontano da un tradizionale prete cattolico, questo vescovo era conosciuto come il «Vescovo Rosso» e sosteneva il modello Cuba di Castro, così come la Rivoluzione Culturale di Mao in cui milioni di cinesi furono uccisi o distrutti durante un’epurazione dei nemici di Mao. Il suo nome era l’arcivescovo del Brasile Dom Helder Camara, la prima figura di spicco nella diffusione del movimento della Chiesa noto come «Teologia della liberazione» negli anni ’60 e ’70.

Da nazista a comunista?

Helder Camara ha compiuto una transizione dai due estremi dello spettro politico. Nel 1934 Camara era una figura di spicco in un movimento fascista clericale brasiliano pro-Mussolini, l’Azione Integralista Brasiliana o Acao Integralista Brasileira (AIB).

Non è stato un coinvolgimento casuale. Da giovane sacerdote cattolico padre Camara entrò a far parte del Consiglio Supremo dell’AIB. Nel 1936 Camara era diventato segretario personale del fondatore dell’AIB, Plinio Salgado, e segretario nazionale dell’AIB.

Simile alle camicie nere fasciste di Mussolini o alle camicie brune di Hitler negli anni ’20, l’AIB del Brasile erano le camicie verdi, che schieravano gruppi paramilitari che attaccavano attivamente e violentemente i comunisti per le strade durante gli anni ’30 in Brasile. Quando Camara fu ordinato sacerdote nei primi anni ’30, si dice che indossasse la camicia verde sotto la tonaca. Più tardi, quando un autore brasiliano scrisse una biografia di Camara, ormai un vescovo, Helder Camara e la Chiesa intervennero per vietare di menzionare l’ormai famoso esponente di sinistra come un precedente attivista filofascista, una delle tante parti curiose della storia di Camara.

Alla fine della guerra, nel 1946, Helder Camara era riuscito in qualche modo a passare dal fascismo filomussoliniano e pro hitleriano dell’AIB a un «progressismo» filomarxista come assistente generale dell’Azione cattolica brasiliana, il cui gruppo giovanile, JUC, abbracciò apertamente la Rivoluzione Castro Cubana nel 1959.

Nel 1963 una fazione della JUC con cui Camara era favorevole, l’Ação Popular (AP), si definiva socialista e dichiarava il proprio sostegno alla «socializzazione dei mezzi di produzione».

Il gruppo cattolico AP adottava statuti che contenevano lodi per la rivoluzione sovietica e il riconoscimento dell’«importanza cruciale del marxismo nella teoria e nella prassi rivoluzionarie».

Dom Helder è diventato arcivescovo di Olinda e Recife nel nord-est del Brasile dal 1964 al 1985.

Un fondatore della Teologia della Liberazione

Helder Camara è stato una figura strumentale in un movimento che presto si è diffuso in tutto il mondo non solo nella Chiesa cattolica ma anche tra le altre chiese. In seguito fu chiamata Teologia della Liberazione dal sacerdote peruviano Gustavo Gutierrez.

La «liberazione» si riferiva a ciò che i sacerdoti sostenevano fosse il messaggio del cristianesimo secondo cui «Dio ama preferenzialmente i poveri».

Il movimento ha affermato che il ruolo della Chiesa dovrebbe essere impegnato nel processo di liberazione nella terra oppressa e sfruttata del Terzo mondo. Il movimento ha segnato un cambiamento radicale nella posizione della Chiesa cattolica. I preti iniziarono a legittimare la violenza contro dittatori come Somoza in Nicaragua, anche se alcuni di loro presero le armi e si unirono ai sandinisti e ad altri gruppi marxisti negli anni ’70.

Gustavo Gutierrez ha esplicitamente chiamato «ad abolire l’attuale situazione ingiusta e a costruire una società diversa, più libera e più umana».

Per usare un eufemismo, questa è stata una partenza radicale in cui la Chiesa doveva concentrarsi sulla liberazione dei più poveri della società nel mondo in via di sviluppo con la forza, se necessario, e ridistribuire la ricchezza.

I movimenti di guerriglia sostenuti dai comunisti nei paesi prevalentemente cattolici si sono affrettati a vedere l’utilità dei preti che danno alle loro guerre una legittimità sociale al di là della dottrina marxista. Gutierrez diceva: «La teologia della liberazione è radicata in una militanza rivoluzionaria». Un collega brasiliano sostenitore dell’attivismo sociale per la Chiesa di Helder Camara, padre Leonardo Boff, ha dichiarato: «Quello che proponiamo è il marxismo, il materialismo storico, in teologia».

Boff e altri da allora sono passati dal sostenere una riforma agraria radicale, prendere la terra dai grandi proprietari e darla ai contadini poveri, al sostenere programmi di riscaldamento globale radicale come parte del loro programma di liberazione. Da allora il movimento si è diffuso dall’America Latina all’Africa e all’Asia, dallo Zimbabwe allo Sri Lanka.

In sostanza, la Teologia della Liberazione di Helder Camara ha creato il clima sociale e ha favorito la diffusione attraverso la società dell’ideologia della «vittima» [più esattamente del “vittimismo“, ndc] dei diffusi movimenti odierni da ANTIFA a BLM e l’intero movimento dell’Agenda Verde.

Il vescovo rosso incontra Schwab

In recenti dichiarazioni pubbliche Klaus Schwab, fondatore mezzo secolo fa del World Economic Forum di Davos, ha citato due uomini che, secondo lui, gli hanno cambiato la vita. Uno era Henry Kissinger che era il suo mentore quando Schwab era ad Harvard alla fine degli anni ’60. L’altro, sorprendentemente, era il Vescovo Rosso, Dom Helder Camara. Fu Kissinger che, come Segretario di Stato di Nixon, complottò per assassinare i governi di sinistra in Cile, Argentina e altrove, sostituendoli con brutali dittature militari come Pinochet, mentre Helder Camara lavorava dall’altra parte, mobilitando i poveri contro lo Stato.

Nel 2010 il World Economic Forum di Schwab ha pubblicato un libro di autocelebrazione intitolato «The World Economic Forum: A Partner in Shaping History-The First 40 Years 1971-2010». Lì Schwab descrive il ruolo centrale svolto da Kissinger fin dall’inizio nella selezione dei relatori e degli ospiti per gli incontri d’affari d’élite di Schwab.

Per l’anno 1974 Schwab scrisse: «Al Simposio di gestione europea del 1974 (oggi WEF), Dom Hélder Câmara, l’arcivescovo cattolico di Olinda e Recife, in Brasile, ha fatto un’apparizione notevole, rafforzando il ruolo del Forum come piattaforma per voci provocatorie ma vitali. Câmara era stato invitato a Davos nonostante fosse considerato persona non grata da molti governi e imprenditori. Si era soprannominato «il portavoce di quei due terzi dell’umanità che soffrono per l’ingiusta distribuzione delle risorse della natura».

Il racconto di Schwab continuava: «Dom Hélder prevedeva che un giorno i Paesi in via di sviluppo avrebbero potuto sfidare e scontrarsi con le principali potenze economiche. Ha criticato le multinazionali per aver mantenuto così tanta umanità in condizioni spaventose. Ha chiesto una maggiore responsabilità sociale, prosperità per tutte le persone».

Schwab in un video ha dichiarato: «un esempio che per me è stato probabilmente un momento cruciale della mia vita. Ho viaggiato per la prima volta in Brasile, ho incontrato un sacerdote che a quel tempo era conosciuto come il sacerdote dei poveri, si chiamava Dom Hélder Câmara».

WEF e Papa Francesco

In una visita del 2013 in Brasile all’inizio del suo pontificato, Francesco ha nominato Dom Helder Camara come qualcuno che ha segnato indelebilmente il «cammino della Chiesa in Brasile».

Nello stesso anno, nella sua Evangelii gaudium, Francesco dichiarò nel linguaggio della Teologia della Liberazione di Helder Camara e altri: «Senza l’opzione preferenziale per i poveri, l’annuncio del Vangelo… rischia di essere frainteso o sommerso». Il termine «opzione preferenziale per i poveri» è fondamentale. Sembra nobile, ma cosa significa in realtà?

In particolare, nel 2014 Klaus Schwab ha esteso un invito personale a Papa Francesco a parlare all’incontro di Davos. Da allora Francesco ha scritto numerose lettere di questo tipo a Schwab ed è elencato dal World Economic Forum come Agenda Contributor.

Nell’ottobre 2020, il sito web ufficiale del WEF di Davos ha scritto: «In una sorprendente enciclica di 43.000 parole pubblicata domenica scorsa, il papa ha messo il suo marchio sugli sforzi per plasmare quello che è stato definito un Grande Reset dell’economia globale in risposta a la devastazione del COVID-19».

Nel 2015 Francesco, che si atteggia a guardiano speciale dei poveri, aveva dato la sua approvazione all’avvio del processo ufficiale, da parte della Congregazione per le Cause dei Santi, per iniziare un processo di «beatificazione» di Helder Camara.

Da allora l’attuale Papa ha preso posizioni politiche senza precedenti per le misure dell’agenda verde sul riscaldamento globale, i vaccini contro il COVID, il sostegno all’uguaglianza di genere, la migrazione, la ridistribuzione della ricchezza dai ricchi ai poveri e altre azioni sociali che hanno dominato il suo controverso papato.

Ottimo reset

La domanda rilevante da porsi è perché il fondatore del forum sulla globalizzazione aziendale più influente del mondo, Klaus Schwab, avrebbe abbracciato il fondatore della Teologia della Liberazione e l’attuale papa liberale Francesco, il primo papa gesuita che oggi fa rivivere astutamente quelle idee?

Sicuramente non è che Klaus Schwab stia abbracciando il marxismo. Schwab è il «padrino della globalizzazione». La fusione delle ideologie di Francesco e Schwab è un modo intelligente per creare un sostegno di massa, soprattutto tra i più giovani e i più poveri di tutto il mondo, per l’attacco in massa alla proprietà privata e a una borghesia stabile necessaria per il Grande Reset corporativo globale, un fascismo tecnocratico globale dall’alto.

Nel novembre 2020, Papa Francesco ha dichiarato che è necessaria una nuova «giustizia sociale», e che la proprietà privata non è cosa scontata nel cristianesimo: «Costruiamo la nuova giustizia sociale e ammettiamo che la tradizione cristiana non ha mai riconosciuto il diritto alla proprietà privata come assoluto e inamovibile», ha detto Francesco. Non ha spiegato la cosa. Nell’ottobre 2020 il papa ha emesso una lettera enciclica, Fratelli Tutti, in cui perseguiva la proprietà privata.

Scrive: «Le capacità imprenditoriali, che sono un dono di Dio, dovrebbero sempre essere chiaramente orientate allo sviluppo degli altri e all’eliminazione della povertà».

Dichiara: «Il diritto alla proprietà privata è sempre accompagnato dal principio primario e prioritario della subordinazione di ogni proprietà privata alla destinazione universale dei beni della terra, e quindi il diritto di tutti al loro uso».

Ciò è notevolmente simile a quanto scrive Schwab del WEF nel suo libro del 2020 The Great Reset, in cui afferma: «Prima di tutto, l’era post-pandemia introdurrà un periodo di massiccia ridistribuzione della ricchezza, dai ricchi [la classe media, ndc] ai poveri, e dal capitale [i beni della classe media, ndc] al lavoro». Schwab sostiene che l’era del neoliberismo del libero mercato è finita e che è necessario un grande intervento del governo per attuare politiche ambientali «sostenibili».

Sul sito web del WEF l’organizzazione di Schwab ha descritto la sua visione del Reset in un mondo in cui nessuno possiede nulla. Un video dichiara la loro visione del mondo nel 2030, «Non possiederai nulla e sarai felice», aggiungendo che «Qualunque cosa ti serva, la affitterai». Includerebbe anche il noleggio dei tuoi vestiti!

Schwab afferma che questa ridistribuzione radicale dei diritti di proprietà a livello globale sarà necessaria per raggiungere la «giustizia ecologica». Questo riecheggia l’appello di Francesco per un’«agenda finanziaria verde» per sostituire l’attuale sistema finanziario.


L’abbraccio di Davos all’agenda vaticana è molto più sinistro di quanto possa sembrare. Il loro Grande Reset riguarda la fine della libertà umana o della libertà a favore di una nuova agenda globalista di controllo totale, sorveglianza ad alta tecnologia, farmaci obbligatori e massiccia ridistribuzione del reddito dalla classe media della società verso il basso.

Schwab non è altro che un maestro del marketing, e il suo distopico Great Reset e la sua «giustizia ecologica» sono proprio questo.

F. William Engdahl è consulente e docente di rischio strategico, ha conseguito una laurea in politica presso la Princeton University ed è un autore di best seller sulle tematiche del petrolio e della geopolitica. È autore, fra gli altri titoli, di Seeds of Destruction: The Hidden Agenda of Genetic Manipulation («Semi della distruzione, l’agenda nascosta della manipolazione genetica»), consultabile anche sul sito globalresearch.ca.



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