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Se dobbiamo credere alle rivelazioni mistiche di Natuzza Evolo per cui il sommo poeta Dante, per aver messo Papa Bonifacio VIII all’inferno nella sua Commedia, dovette scontare ben 300 anni di purgatorio (100, si potrebbe pensare, per ogni Persona della Trinità offesa)1, c'è da stare assai poco allegri per il clima "giustizialista" e persecutorio che nell'ultimo decennio sembra aver contagiato anche il popolo cattolico, complice la facilità di esposizione a cui i mezzi di comunicazione di massa, social in testa, ci hanno ormai abituato, disabituandoci così alla riflessione. "Presto dentro presto fuori", da motto di un celebre scrittore di racconti, sembra esser diventato il criterio di questi volenterosi avventurieri dell'identità digitale, che abbandonata ogni cristiana prudenza (abbiamo un'anima e un corpo da salvare), han fatto del numero di "impressioni" e del proprio livello di "popolarità" il Verbo, cercando, nella "conservazione-accrescimento" del proprio Io Digitale, di piacere più al mondo che a Dio. Va da sé infatti - in generale - che colpisce, attira e "piace" maggiormente una soggettività tutta engagé nella vita "attiva" che si manifesta, si distingue e si costituisce nel giudizio tranchant, che non quella "oblata", separata, orientata alla vita contemplativa e tutta raccolta nella riflessività, nella pensosità, in un'apparente immobilità. E cosa c'è di più engagé, interessante e tenebrosamente affascinante di un credente cattolico che, scandalizzato da un Papa controverso quanto si vuole, ma canonicamente legittimo, si fa iudex della prima Sedes facendosi egli stesso Dio, dato che solo Dio è - e può essere - al di sopra del suo Vicario in terra?2 Incorrendo così, per altro, nella scomunica latae sententiae?

Ma se il Signore ci ha comandato di non condannare (Misericordia io voglio e non sacrifici, Mt 9,13) – né Lui né il suo vicario né nessun'altro – non ci ha affatto sollevato dal pensare, dal "misurare", da quel retto giudicare il mondo senza il quale ci perderemmo (in quanto Logos, il Figlio è proprio Ragione e Giudizio, e anche di questo noi siamo immagine); al contrario ci ha comandato di farlo e anche con scaltrezza, imitando la "furbizia" dei figli di questo mondo, opportunamente ri-orientata al Cielo e al Regno di Dio3. In breve, si tratta di esercitare il giudizio secondo Dio e non quello di Dio stesso (a noi inattingibile ed esercitabile solo da Lui e, in subordine, dal magistero ex cathedra del Papa). Esercitare quest’ultimo non essendo il Papa, né evidentemente Dio, in una pretesa auto-sufficienza divina, è l’essenza stessa della disubbidienza. Piacerà agli uomini, ma non piace a Dio.

È una disobbedienza bicipite, che si nutre in un caso della superbia di "aver capito tutto e in forma definitiva", pensando di poter liquidare e riscrivere a piacere un magistero bimillenario (testa modernista), nell’altro caso si nutre di un’impazienza e di una latente disperazione, in definitiva di un sentimento di abbandono della Chiesa (nella tempesta) da parte di Dio (che apparentemente dorme) tale che questi cattolici troppo zelanti si ritengono autorizzati a "fare da sé". La risposta del Signore alle lamentele di questi ultimi - “Signore, non t’importa che periamo?” - rieccheggia da millenni inascoltata come un’amara diagnosi: "Non avete fede". Volete mettervi davanti a Me.

Dunque, per quanto si percepisca come forte – che sia per la Tradizione che crede di difendere con le unghie e con i denti, o per il Dio tutto Amore e niente Giudizio (senza croce) che va imposto a forza a ogni fedele – la sua resta una posizione debole, è sì un supersoggetto, poiché scavalca (super) continuamente Dio prendendone il posto (di fatto è una volontà di potenza, una volontà di volontà, una volontà che vuole solo se stessa), ma è debole perché – rifiutando le “strutture forti” dell’essere (le leggi naturali, proibizioni morali ecc) o rivendicandole in un’ottica rivalitaria contro il Pontefice di turno – ricasca nella sua stessa finitezza priva di redenzione, nel nulla di sé. Di qui l’indispensabile ricerca dell’agone pubblico che ne certifichi lo statuto e la venuta all’essere, giacché staziona e si muove costantemente nel niente.


Ora, come l’oltreuomo nietzscheano aveva il compito di portare a compimento la “trasvalutazione di tutti valori” con la sua volontà di potenza, così il supersoggetto, munito del suo supergiudizio, ha il compito di portare a compimento la madre di tutte le transizioni e rivoluzioni – dopo, tra le più recenti, quella energetica e sanitaria/digitale (transumanista) – l'ultima cronologicamente in cantiere, anche se logicamente antecedente, quella spirituale. Come abbiamo già accennato, la ricchezza e la creatività dell'invenzione diabolica ce ne propone due declinazioni, come spesso le capita, dialetticamente opposte: quella cosiddetta modernista, cioè un cattolicesimo adulto ed edonista, piena di un malinteso auto-compiacimento intellettuale e beato, ma solo di questa strana infinità amorosa e indifferenziata di cui si è fatto evangelizzatore, se non rieducatore (un cattolicesimo tanto "debole" di contenuti quanto forte e spietato nella sua imposizione ai fedeli come paradigma unico); e quella cosiddetta tradizionalista di coloro che gli si oppongono sul loro stesso terreno, scavalcando Dio nella contestazione della Sede petrina.

La prima, liquidando il Dio che sarebbe infinitamente di più e d'altro rispetto alle proibizioni del Vecchio Testamento (dimenticando che è stato il Signore stesso, nel Nuovo, a mettere in guardia circa il passaggio ultimo, nient’affatto scontato, dalla "porta stretta"), è tutta ripiegata su un malinteso concetto di amore (una strana misericordia che abolisce il concetto di giustizia trasformando Dio, di fatto, in un Dio ingiusto, che non punendo i cattivi, finisce per far torto ai buoni); viene qui in aiuto il pensiero di Gianni Vattimo, riavvicinatosi nell’ultimo periodo a questo cattolicesimo “debole”, che in un convegno con René Girard, alcuni anni fa, ebbe a dire: «"Solo un Dio ci potrà salvare" diceva Heidegger. Ma quale Dio? Il Dio della teologia naturale, delle leggi fisse, dei limiti insuperabili? Il Dio giudice che dovrebbe godere quando sarò all’inferno perché sono stato un po’ porcellone?», un Dio, cioè, secondo Vattimo, che dopo aver dato dei limiti all’agire umano (il “tu devi, non devi” del Decalogo per arginare lo scatenarsi della violenza su una vittima), adesso li toglierebbe perché la Buona Novella sarebbe stata ormai interiorizzata e l’uomo, per così dire, definitivamente immunizzato, qui, sulla terra, dal Male? Vattimo sembra crederlo e, un po’ scandalizzato, aggiunge: «Ma credete davvero a questo? Ma se questo è Dio, tenetevelo! Questo è proprio il dio che Gesù ha voluto smentire quando ha detto: "Non vi considero servi ma amici"; "Sarete con me nel mio regno"». Vattimo tuttavia dimentica di leggere la condizione di quest'amicizia: «"Voi siete miei amici se fate ciò che io vi comando"» (Gv 15,14), cioè se osservate i comandamenti del Padre mio; e la promessa di essere con lui nel suo regno non è data affatto da una specie di automatismo storico-progressivista, non è cioè indistintamente per tutti, bensì per tutti coloro che gli obbediscono, poiché «molti, vi dico, cercheranno di entrare per la porta stretta, ma non ci riusciranno»; ai più che si ostineranno a bussare il Signore dichiarerà non solo di non conoscerli: «Non vi conosco, non so di dove siete [...] Allontanatevi da me voi tutti operatori d'iniquità!», ma anche che il luogo adatto alla loro condotta iniqua non è il suo regno ma «Là [dove] ci sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio e voi cacciati fuori. Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. Ed ecco, ci sono alcuni tra gli ultimi che saranno primi e alcuni tra i primi che saranno ultimi» (Lc 13,24-30). Voi, cioè, che cacciate il Logos dell'amore in favore di un Logos della violenza travestito da amore, sarete dal vostro stesso giudizio espulsi dalla vita eterna in Paradiso.

La seconda che intende unicamente darle battaglia sul terreno di una soggettività opposta ma speculare, di nuovo, sul terreno assai poco santo della disobbedienza a Dio e della rivalità indomita di un Io che, nonostante le sue pur buone ragioni, non lascia fare a Dio. Ci si chiede se si può essere legati alla Tradizione di sempre ed essere insieme (divenuti) protestanti? I protestanti della Tradizione? Sì, lo ha già spiegato egregiamente don Alberto Secci, e ci vuol poco. Basta premettere alla fede una certo istinto rivalitario e superbo e il gioco è fatto. Lefebvre & Company sono lì a dimostrarlo, inconsapevoli strumenti dell’ultima, e forse più tenebrosa e confusa di tutte, transizione spirituale.



note


1. «Dante Alighieri le disse di aver dovuto scontare ben “trecento anni di Purgatorio” per aver giudicato le persone nella Divina Commedia in base alle sue simpatie e convinzioni politiche, senza alcuno spirito di carità e amore cristiano» (cfr. L. Regolo, Natuzza Evolo. Il miracolo di una vita, Mondadori, 2010).

2. Infatti se si ammettesse una qualunque eccezione al principio per cui “la prima Sede non è giudicata da nessuno” (Prima Sedes a nemine iudicatur) allora la Sede petrina non sarebbe più la ‘prima’ ma la ‘seconda’, ciò che è evidentemente assurdo.

3. Nella strana parabola in cui il Signore sembra lodare un amministratore disonesto “I figli di questo mondo verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce” (Lc 16,1-13). Difendere il proprio interesse, che è di salvarci e andare in Paradiso, con le "ricchezze ingiuste" (de mammona iniquitatis) perché le ricchezze di questo mondo hanno anche a che fare con l’ingiustizia.








Come se non fossero bastate le intensissime opere di René Girard che sto divorando da qualche settimana, una combinazione ha voluto che leggessi anche un altro volume dall'esplicita ispirazione e impostazione girardiana: Filosofia del diavolo - Una breve storia dell'essere (laddove “essere” è barrato con un crocesegno) di Roberto Bigini.



Il libro parte dall'analisi di un testo di E.T.A. Hoffmann, Ignazio Denner per dimostrare come lo stesso denunci (e non esalti) il rapporto fra l'umano e il demoniaco, nel modo in cui l'uomo si pone davanti alla signoria e a ciò che essa rappresenta, la divinità. Andrea è un guardiacaccia che vive con la moglie Giorgina nel podere del conte Vach. Un giorno nella loro vita di stenti, entra il misterioso Ignazio Denner, il quale si insinua nella vita dei due, guarendo la salute malferma di Giorgina e offrendo del denaro alla coppia. In cambio, istiga Andrea ad uccidere il suo signore, il conte, dipingendolo come la causa di tutte le sue difficoltà. Andrea non cede, neanche alle offerte di ricchezza e fortuna di Denner. Costui si rivela dapprima un ricercato, in seguito il figlio dell'alchimista napoletano Trabacchio e, alla fine, il padre di Giorgina, il cui scopo però non era quello di riabbracciare la figlia, ma di compiere l'orribile destino-desiderio del proprio avo: rimanere in vita per sempre, bevendo i sangue dei suoi figli (o dei suoi discendenti), sgozzati all'età di nove settimane. Andrea salva il proprio figlio, appena nato, uccidendo Denner prima che egli possa compiere l'immondo rituale.

L'analisi di quest'opera è l'incipit dal quale Bigini parte per un breve ma intensissimo viaggio all'interno della filosofia moderna, volto a smascherare, a rivelarne i tratti satanici (anche girardianamente intesi: come espressioni delle rivalità mimetiche e del sacrificio rituale). Le chiavi di lettura sono prese dal testo e ruotano attorno al concetto di libertà dalla signoria, intesa come rivolta hegeliana dello spirito rispetto alla natura e, prima ancora, come sganciamento dall'essere del pensiero umano, attraverso il passepartout cartesiano. L'uomo inizia così, pensandosi, a porsi come altro da sé, come essere divinizzato (o da auto-divinizzare), come immagine-scopo di sé stesso, sganciandosi da ogni prospettiva di subordinazione, di creaturalità. In realtà l'uomo (e la filosofia) finiscono in questo modo per entrare in un infinito e sfiancante vortice dialettico in cui il posto della divinità (e l'apparente posto dell'uomo-obiettivo, dell'uomo “nuovo”, dell'uomo “finalmente-liberato”, che si presume sostituito a un Dio tiranno, padrone) è assunto – sia pure, as usual, nascostamente – proprio da satana che, nel suo fare e disfare ogni prospettiva filosofica, ideologica e di vita, ogni finto “umanesimo”, si rende parassita dell'uomo, lo macchinizza, rendendolo il doppio di se stesso.

Approdo di un simile “viaggio” del pensiero umano non può che essere la sfida-rifiuto del Cristianesimo in quanto tale di Nietzsche, il quale vede ed abbraccia, caldeggia e propaganda esattamente il rifiuto del sacrificio, di ogni rinuncia a sé, e – quindi – ogni volontà di potenza fine a se stessa, non giustificata né sentita in dovere di giustificarsi con nessuno, per o con nessuno motivo. Quella “religione di schiavi” che è, secondo Nietzsche, quella nata dai Vangeli, lo è non solo perché nata in epoca di schiavitù, ma perché essa presuppone – per lui – la schiavitù dell'umano al divino. Ma il rifiuto di ogni schiavitù implica sempre il sacrificio dell'altro-ostacolo e dello stesso sacrificio umano (ritualizzato in modo nuovo, ma sempre ritualizzato, come nei culti ancestrali ed antichi) in funzione della “salvezza” della specie, del gruppo, della società, dell'umanità. E la volontà di potenza nicciana sembra davvero oggi, nel suo manifestarsi per ogni dove, in ogni arbitrarietà sempre più goffamente camuffata o addirittura sfacciatamente esibita in quanto imposta ed imposta in quanto esibita, il capolinea del pensiero e dell'agire umano. L'humus anticristico in cui va apparendo, a poco a poco, un uomo, sempre più orgogliosamente, iniquo.


31 Agosto 2019




Iersera ho terminato questo libro, dopo averlo letto a un ritmo dalla non consueta lentezza, almeno per me, dato che sin dalle prime pagine ci si accorge che non è un testo meritevole né di uno sguardo frettoloso e superficiale né di una lettura bulimica, da notte prima degli esami, ma che ha bisogno di essere gustato, assaporato - come, d'altronde, succede di regola con i testi veramente buoni. È solo quando l'ho chiuso, però, che ho capito di aver appena terminato, forse, uno dei migliori saggi filosofici in lingua italiana di questi primi vent'anni del secolo. Anzi, più che di filosofia strictu sensu io non esiterei a parlare di metafisica;

e quando si ardisce tirar in ballo la "philosophia prima", la mente di chi ama un certo tipo di letteratura non può non correre a un autore - da sempre a me caro, en passant - quale il torinese Elémire Zolla, e nella fattispecie al suo capolavoro del 1971, Che cos'è la Tradizione, e più in dettaglio al quarto capitolo della Seconda parte, "Che cos'è il satanismo", cui, senza tema di esagerazione, Filosofia del diavolo può essere tranquillamente accostato, sia per il valore intellettuale e la qualità di scrittura che per i temi affrontati. Appunto: di cosa tratta questo libro? L'avvio del medesimo è una recensione, anzi una replica puntuale (e puntuta) a una vecchia recensione del '79, a firma del marxista tedesco Franz Fuhmann (1922-1984), di una delle novelle fantastiche di Ernst T. A. Hoffmann, Ignazio Denner [1814]. Da qui, lo sguardo dell'autore s'inoltra nel background hegeliano dello stesso Fuhmann per azzardare una critica originalissima a una delle più note (e discusse) "figure" della Fenomenologia dello spirito, la dialettica servo-padrone, cui - grazie anche agli studi sulla nascita delle società arcaiche del filosofo e antropologo francese René Girard e alle intuizioni di uno dei principali filosofi cattolici del secolo scorso, Jacques Maritain - viene impressa una torsione teologica che ne mette in crisi la supposta essenza logico-razionale e ne smaschera, anzi, il retroterra speculativo impregnato di occultismo, esoterismo, in ultimo satanismo, eredità culturale pesantissima destinata a gettare una luce più che sinistra sulla natura della volontà di potenza di Nietzsche e le cui radici affonderebbero niente meno che nel primato razionale del sacro e indiscutibile "cogito" cartesiano, sul quale poggia la stessa dialettica hegeliana e, com'è noto, l'impalcatura tutta della moderna filosofia post-cristiana. L'opera, dunque, si colloca esplicitamente sulla falsariga - tanto da potersi ritenere un seguito ideale, ma con un quid di ulteriore ardimento! - del capolavoro del 2001 firmato da Glenn Alexander Magee, Hegel e la tradizione ermetica, che ha rivoluzionato gli studi sul filosofo tedesco, non solo nel mondo anglosassone, ma di cui ben poco si è parlato in Italia a causa degli stranoti condizionamenti politico-culturali su cui non c'è né il tempo né lo spazio - né, tanto meno, la voglia - di soffermarsi.

Nell'attesa di recensirlo come Dio comanda, in un futuro che mi auguro non troppo remoto, posso soltanto rivolgere un grazie al suo autore, Roberto Bigini, per aver scritto uno dei libri non solo più belli ma più fondamentalmente necessari degli ultimi tempi - una qualità che, in tempi di sovrapproduzione editoriale e connessa perdita del senso critico, oltre che estetico, davvero non può riconoscersi a cuor leggero.


18 Gennaio 2019


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