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In una recente intervista di Byoblu a Cacciari il noto filosofo progressista, richiamandosi alla fondazione della scienza moderna in Cartesio, ne rievoca il principio di verità – il "dubito ergo cogito" – opponendolo allo scientismo del tecnoregime odierno il quale, dice a ragione, è colpevole portatore di "una visione certa e d'insieme delle essenze"... visione, in quanto assoluta dai dati reali, senza dubbio a-scientifica.

Cacciari intende ovviamente il dubbio dell'experimentum e cioè delle scienze sperimentali, eppure il riferimento a Cartesio quale suo fondatore giunge entro una certa dissonanza, e non solo perché, come ha scritto il filosofo della scienza Paolo Musso, «Cartesio non fece nessuna scoperta scientifica e non capì nulla del metodo di Galileo [che quel metodo invece lo attuò, ndc]», ma soprattutto per le implicazioni, per così dire, "esoterico"-teologiche implicate nella grande rifondazione cartesiana del pensiero, nonché della "scienza", moderne (implicazioni ancora poco conosciute e frequentate, ma trattate in modo magistrale, ad esempio, da Glenn Alexander Magee nel suo Hegel e la tradizione ermetica del 2001).


Infatti secondo un noto studio di stampo tomista di Maritain (Cartesio, ossia l'incarnazione dell'angelo), una "visione certa e d'insieme delle essenze" sarebbe malcelata all'origine della filosofia moderna e proprio nel Cogito cartesiano, il cui peccato originale - peccato cosiddetto di "angelismo" - farebbe slittare il funzionamento stesso del pensiero, attraverso una specie di “training autogeno“, l'atto di fede del penso dunque sono, anziché su un fondamento certo, all'interno di un modus pensandi di tipo angelico (qualcosa di umanamente indebito e inattuabile) portando il Cogito cartesiano, così come la mens di ogni creatura angelica, a disporre in anticipo, non però per natura per grazia di Dio, della visione di tutte le essenze dispiegate (estensione, pensiero ecc) avanti a "sé" quale fondamento delle stesse. E un pensiero che tutto riferisce tautologicamente a sé - "auto-fondandosi" in un solipsismo spirituale sinistramente allergico a tutto ciò che è carne e incarnazione, dunque dato reale ed experimentum - non vale, essenzialmente, di più di un pensiero che, pur senza dubitare, ha una medesima (e altrettanto irrealistica) visione d'insieme, ancorché positiva e incarnata, e in cui il positivo (senza nemmeno fare la fatica di presentarsi come “contraddizione dissolta“) è ingenua posizione d'essere.


Visto da qui dunque, il dubbio iperbolico cartesiano, unitamente al teatro delle sue negazioni e contraddizioni più o meno dissolte, più che a principio scientifico, equivarrebbero essenzialmente alla finzione uguale e opposta a una visione d'insieme ingenuamente positiva ma altrettanto priva di fondamento, cioè di un pensiero veramente umano che è stato in grado di pensarla.


Così se per il dubbio e le scienze sperimentali ci ostiniamo a guardare a Cartesio, ci muoveremo e ci ritroveremo sempre all'interno del circolo – non virtuoso – dell'“idea di ragione”, un pensiero che pretende di auto-fondarsi prima e al di qua dei dati reali, ossia della vera experientia (l'experimentum) scientifica. Ma non è a questo che pensava Cacciari.




Come se non fossero bastate le intensissime opere di René Girard che sto divorando da qualche settimana, una combinazione ha voluto che leggessi anche un altro volume dall'esplicita ispirazione e impostazione girardiana: Filosofia del diavolo - Una breve storia dell'essere (laddove “essere” è barrato con un crocesegno) di Roberto Bigini.



Il libro parte dall'analisi di un testo di E.T.A. Hoffmann, Ignazio Denner per dimostrare come lo stesso denunci (e non esalti) il rapporto fra l'umano e il demoniaco, nel modo in cui l'uomo si pone davanti alla signoria e a ciò che essa rappresenta, la divinità. Andrea è un guardiacaccia che vive con la moglie Giorgina nel podere del conte Vach. Un giorno nella loro vita di stenti, entra il misterioso Ignazio Denner, il quale si insinua nella vita dei due, guarendo la salute malferma di Giorgina e offrendo del denaro alla coppia. In cambio, istiga Andrea ad uccidere il suo signore, il conte, dipingendolo come la causa di tutte le sue difficoltà. Andrea non cede, neanche alle offerte di ricchezza e fortuna di Denner. Costui si rivela dapprima un ricercato, in seguito il figlio dell'alchimista napoletano Trabacchio e, alla fine, il padre di Giorgina, il cui scopo però non era quello di riabbracciare la figlia, ma di compiere l'orribile destino-desiderio del proprio avo: rimanere in vita per sempre, bevendo i sangue dei suoi figli (o dei suoi discendenti), sgozzati all'età di nove settimane. Andrea salva il proprio figlio, appena nato, uccidendo Denner prima che egli possa compiere l'immondo rituale.

L'analisi di quest'opera è l'incipit dal quale Bigini parte per un breve ma intensissimo viaggio all'interno della filosofia moderna, volto a smascherare, a rivelarne i tratti satanici (anche girardianamente intesi: come espressioni delle rivalità mimetiche e del sacrificio rituale). Le chiavi di lettura sono prese dal testo e ruotano attorno al concetto di libertà dalla signoria, intesa come rivolta hegeliana dello spirito rispetto alla natura e, prima ancora, come sganciamento dall'essere del pensiero umano, attraverso il passepartout cartesiano. L'uomo inizia così, pensandosi, a porsi come altro da sé, come essere divinizzato (o da auto-divinizzare), come immagine-scopo di sé stesso, sganciandosi da ogni prospettiva di subordinazione, di creaturalità. In realtà l'uomo (e la filosofia) finiscono in questo modo per entrare in un infinito e sfiancante vortice dialettico in cui il posto della divinità (e l'apparente posto dell'uomo-obiettivo, dell'uomo “nuovo”, dell'uomo “finalmente-liberato”, che si presume sostituito a un Dio tiranno, padrone) è assunto – sia pure, as usual, nascostamente – proprio da satana che, nel suo fare e disfare ogni prospettiva filosofica, ideologica e di vita, ogni finto “umanesimo”, si rende parassita dell'uomo, lo macchinizza, rendendolo il doppio di se stesso.

Approdo di un simile “viaggio” del pensiero umano non può che essere la sfida-rifiuto del Cristianesimo in quanto tale di Nietzsche, il quale vede ed abbraccia, caldeggia e propaganda esattamente il rifiuto del sacrificio, di ogni rinuncia a sé, e – quindi – ogni volontà di potenza fine a se stessa, non giustificata né sentita in dovere di giustificarsi con nessuno, per o con nessuno motivo. Quella “religione di schiavi” che è, secondo Nietzsche, quella nata dai Vangeli, lo è non solo perché nata in epoca di schiavitù, ma perché essa presuppone – per lui – la schiavitù dell'umano al divino. Ma il rifiuto di ogni schiavitù implica sempre il sacrificio dell'altro-ostacolo e dello stesso sacrificio umano (ritualizzato in modo nuovo, ma sempre ritualizzato, come nei culti ancestrali ed antichi) in funzione della “salvezza” della specie, del gruppo, della società, dell'umanità. E la volontà di potenza nicciana sembra davvero oggi, nel suo manifestarsi per ogni dove, in ogni arbitrarietà sempre più goffamente camuffata o addirittura sfacciatamente esibita in quanto imposta ed imposta in quanto esibita, il capolinea del pensiero e dell'agire umano. L'humus anticristico in cui va apparendo, a poco a poco, un uomo, sempre più orgogliosamente, iniquo.


31 Agosto 2019




Iersera ho terminato questo libro, dopo averlo letto a un ritmo dalla non consueta lentezza, almeno per me, dato che sin dalle prime pagine ci si accorge che non è un testo meritevole né di uno sguardo frettoloso e superficiale né di una lettura bulimica, da notte prima degli esami, ma che ha bisogno di essere gustato, assaporato - come, d'altronde, succede di regola con i testi veramente buoni. È solo quando l'ho chiuso, però, che ho capito di aver appena terminato, forse, uno dei migliori saggi filosofici in lingua italiana di questi primi vent'anni del secolo. Anzi, più che di filosofia strictu sensu io non esiterei a parlare di metafisica;

e quando si ardisce tirar in ballo la "philosophia prima", la mente di chi ama un certo tipo di letteratura non può non correre a un autore - da sempre a me caro, en passant - quale il torinese Elémire Zolla, e nella fattispecie al suo capolavoro del 1971, Che cos'è la Tradizione, e più in dettaglio al quarto capitolo della Seconda parte, "Che cos'è il satanismo", cui, senza tema di esagerazione, Filosofia del diavolo può essere tranquillamente accostato, sia per il valore intellettuale e la qualità di scrittura che per i temi affrontati. Appunto: di cosa tratta questo libro? L'avvio del medesimo è una recensione, anzi una replica puntuale (e puntuta) a una vecchia recensione del '79, a firma del marxista tedesco Franz Fuhmann (1922-1984), di una delle novelle fantastiche di Ernst T. A. Hoffmann, Ignazio Denner [1814]. Da qui, lo sguardo dell'autore s'inoltra nel background hegeliano dello stesso Fuhmann per azzardare una critica originalissima a una delle più note (e discusse) "figure" della Fenomenologia dello spirito, la dialettica servo-padrone, cui - grazie anche agli studi sulla nascita delle società arcaiche del filosofo e antropologo francese René Girard e alle intuizioni di uno dei principali filosofi cattolici del secolo scorso, Jacques Maritain - viene impressa una torsione teologica che ne mette in crisi la supposta essenza logico-razionale e ne smaschera, anzi, il retroterra speculativo impregnato di occultismo, esoterismo, in ultimo satanismo, eredità culturale pesantissima destinata a gettare una luce più che sinistra sulla natura della volontà di potenza di Nietzsche e le cui radici affonderebbero niente meno che nel primato razionale del sacro e indiscutibile "cogito" cartesiano, sul quale poggia la stessa dialettica hegeliana e, com'è noto, l'impalcatura tutta della moderna filosofia post-cristiana. L'opera, dunque, si colloca esplicitamente sulla falsariga - tanto da potersi ritenere un seguito ideale, ma con un quid di ulteriore ardimento! - del capolavoro del 2001 firmato da Glenn Alexander Magee, Hegel e la tradizione ermetica, che ha rivoluzionato gli studi sul filosofo tedesco, non solo nel mondo anglosassone, ma di cui ben poco si è parlato in Italia a causa degli stranoti condizionamenti politico-culturali su cui non c'è né il tempo né lo spazio - né, tanto meno, la voglia - di soffermarsi.

Nell'attesa di recensirlo come Dio comanda, in un futuro che mi auguro non troppo remoto, posso soltanto rivolgere un grazie al suo autore, Roberto Bigini, per aver scritto uno dei libri non solo più belli ma più fondamentalmente necessari degli ultimi tempi - una qualità che, in tempi di sovrapproduzione editoriale e connessa perdita del senso critico, oltre che estetico, davvero non può riconoscersi a cuor leggero.


18 Gennaio 2019


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