- Giacomo Biffi
- 12 mar 2022
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Lo lasciò piangere e disperarsi per mezza giornata.
Quanto tempo abbiamo dovuto aspettare! Anche nella nostra singola vita, càpita talvolta di credere che neppure un'ora in più saremo capaci di sopportare, eppure passano interi anni senza che nel nostro deserto si faccia vivo qualcuno. Sembra una crudeltà del Padre, ed è invece un modo per farci crescere. Dio, che per amore interviene nella nostra storia, per amore si ritrae e resta nascosto. C'è nell'uomo anche questo paradosso: noi, che ci sentiamo spesso oppressi dalla invadenza del Signore, siamo oppressi anche dal suo silenzio e dalla sua latitanza.
Presente o assente, ci aiuti o ci abbandoni, Dio è un incubo. Se esiste, non ci lascia spazio e ci schiaccia; se non esiste, si apre nell'universo una voragine che niente riesce più a colmare e che alla fine ci risucchia tutti nel nulla.
L'incubo si dissolve soltanto se ci è consentito – e se noi consentiamo – di entrare in un rapporto filiale. L'essere figli non ci abbrevia per sé i lunghi silenzi di Dio, ma ci dona la certezza che il pianto dell'essere non sarà senza risonanza. Anzi, sappiamo che, nelle forme inattese che sono proprie della divina originalità, alla fine saremo immancabilmente esauditi, allo stesso modo del Figlio che “offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo dalla morte e fu esaudito per la sua pietà. Pur essendo Figlio, imparò l'obbedienza dalle cose che patì” (Ebr. 5,7-8), e specialmente dall'apparente indifferenza del Padre di fronte al destino tragico che gli si avvicinava.
(G. Biffi, Contro Mastro Ciliegia, capitolo ottavo, Il mistero “delle tuniche di pelle”)