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Testo esclusivo del cardinale Camillo Ruini, comparso insieme a quelli di Angelo Bagnasco, Willem Eijk, Gerhard Muller, Mauro Piacenza, Camillo Ruini, Robert Sarah, Matteo Zuppi, George Pell (1941-2023), Pierbattista Pizzaballa e monsignor Giampaolo Crepaldi, sul numero speciale del Timone del febbraio 2023 dedicato a Benedetto XVI.


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«Signore ti amo» sono le ultime parole che Benedetto XVI è riuscito a pronunciare, al termine della sua vita terrena. Sono parole che riassumono il senso della sua esistenza e anche del lavoro intellettuale che di questa esistenza è stato tanta parte. Joseph Ratzinger è stato infatti, al di là di ogni dubbio, un grande intellettuale e al tempo stesso «un semplice e umile lavoratore nella Vigna del Signore», come si è autodefinito subito dopo l’elezione al sommo pontificato.

A mio parere è stato l’ultimo, in senso cronologico, di una generazione di grandi teologi che hanno arricchito la Chiesa del XX secolo. Solo lui, tra loro, è riuscito però a diventare un punto di riferimento, un interlocutore non eludibile del nostro mondo culturale. L’elezione a Pontefice lo ha indubbiamente aiutato ad assumere tale ruolo, ma non ne è la spiegazione adeguata: già prima, infatti, aveva incominciato a svolgerlo e confido che in qualche modo possa continuare anche dopo la morte.

Chiediamoci il perché di tutto questo. Direi che Ratzinger ha avuto una percezione acuta del nostro tempo, ha colto in profondità il senso della storia che stiamo vivendo, collocandola all’interno della storia della salvezza, cioè del lungo cammino di Dio con gli uomini. Egli stesso, del resto, ha qualificato il proprio pensiero come «segnato soprattutto dalla Scrittura e dai Padri» e come «essenzialmente storico».


Fare spazio a Dio

In concreto, oggi la domanda decisiva riguarda Dio stesso. Benedetto XVI lo ha detto espressamente nella Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica del 10 marzo 2009: «Nel nostro tempo in cui in vaste zone della terra la fede è in pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento, la priorità che sta al di sopra di tutte è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio». Nasce da qui il suo costante impegno ad «allargare gli spazi della razionalità», facendo spazio a Dio nella ragione e nella cultura come nella vita personale e sociale, pubblica e privata. Vorrei ricordare in proposito tre suoi discorsi: quello di Ratisbona, quello al convegno di Verona, e quello al Collegio dei Bernardini di Parigi.

Il Dio al quale Benedetto XVI vuole far spazio non è semplicemente l’Essere assoluto, il Dio dei filosofi. E’ il Dio biblico, il Dio che ha un nome, il Dio che può essere interpellato e pregato, il Dio eminentemente personale che ha preso l’iniziativa di rivelarsi a noi.

Giungiamo così alla seconda priorità del pontificato di Papa Benedetto: la preghiera, la preghiera personale e soprattutto la preghiera liturgica della Chiesa. Egli stesso ha detto: «La liturgia della Chiesa è stata per me, fin dalla mia infanzia, l’attività centrale della mia vita ed è diventata anche il centro del mio lavoro teologico».

Quando è diventato Papa, Benedetto stava lavorando al suo Gesù di Nazaret. Il nuovo impegno, tra tutti il più gravoso che possa immaginarsi per un sacerdote, non lo ha indotto a rinunciare a quell’opera, a sua volta tanto impegnativa. Come mai? Il motivo è semplice: era convinto che, se non abbiamo certezza di Gesù, la nostra fede rischia di «annaspare nel vuoto». Perciò proprio scrivendo i tre volumi del Gesù di Nazaret Benedetto XVI confermava nella fede i suoi fratelli, come il Signore ha chiesto a Simon Pietro (Lc 22,32).


Una fede ragionevole

Torniamo agli “spazi della razionalità”. Da molto tempo siamo abituati alla limitazione della ragione a ciò che è sperimentabile e calcolabile, indispensabile nelle scienze naturali. Se però questa limitazione viene universalizzata e assolutizzata diventa disumana e insostenibile. Ratzinger lo ha sottolineato con forza, mostrando che in tal caso non potremmo interrogarci razionalmente sulla nostra origine e sul nostro destino, sul bene e sul male morale. Per lui la vera questione è se la ragione sia un prodotto casuale e secondario della natura o sia invece all’origine di tutto, come è scritto nel prologo del Vangelo di Giovanni: «In principio era il Verbo».

Ratzinger non è però mai stato un razionalista. Al contrario, per lui, specialmente nell’attuale clima culturale, l’uomo rimane prigioniero di una «strana penombra» che oscura la nostra ragione. Perciò non propone le argomentazioni a sostegno del cristianesimo come dimostrazioni apodittiche, ma come «l’ipotesi migliore», che richiede da parte nostra «di rinunciare a una posizione di dominio e di rischiare quella dell’ascolto umile».

Parlando a Subiaco il giorno prima della morte di Giovanni Paolo II, il cardinale Ratzinger invitava tutti, anche quegli uomini di buona volontà che non riescono a credere, a vivere veluti si Deus daretur, come se Dio esistesse, e al contempo sottolineava la necessità di uomini che tengano lo sguardo fisso verso Dio e in base a questo sguardo si comportino nella vita: soltanto così Dio potrà tornare nel mondo.

Con la sua testimonianza di vita e il suo insegnamento Benedetto XVI è stato un intellettuale che ha inverato la promessa di Gesù a Simon Pietro: «Non temere… sarai pescatore di uomini» (Lc 5,10).


*Cardinale, Vicario Generale emerito di Sua Santità per la diocesi di Roma


Se Gesù – spiega Sant’Agostino che dà un’esegesi opposta a quella di Florenskij – dice di avere «nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti» non dice affatto di averle fatte conoscere «agli stolti e agli stupidi»...



Lettura e commento integrale della sua opera maggiore: La colonna e il fondamento della Verità1. Lettera prima


Articoli precedenti: qui.


«Lettera Prima: Due mondi» – «ПИСЬМО ПЕРВОЕ: ДВА МИРА»

Ogni lettera di Florenskij è preceduta, nel libro, dal titolo e da un’immagine, con relativo motto latino, tradotto in russo. Il motto di questa prima lettera è «Sic semper – Всегда такова» (Così per sempre).

Lo stato d’animo del Florenskij che scrive è vicino alla tristezza, come di qualcuno vicino al freddo inverno: «[…] in me è autunno, un autunno perenne», anche perché «le persone vicine muoiono l’una dopo l’altra», così come «le foglie cadevano, una di seguito all’altra, librandosi nell’aria come farfalle agonizzanti e finivano a terra»2. È anche per questo che Florenskij ricerca l’«immutabilità, la vita e la pace» di Dio e della metafisica: attorno a lui «tutto volteggia, tutto scivola nell’abisso della morte»3.

Florenskij si appoggia, in particolare, a quella «colonna e fondamento della verità»4 citata da san Paolo. E Stolp è appunto la descrizione di cosa sia, secondo l’autore, questa colonna e fondamento. Ma san Paolo aveva già risposto, se solo riportiamo l’intero verso 15: «[…] voglio che tu sappia come comportarti nella casa di Dio, che è la Chiesa del Dio vivente, colonna e fondamento della verità». La casa di Dio, che è la Chiesa del Dio vivente: questa è la colonna e il fondamento della verità secondo san Paolo.

Florenskij non si accontenta e usa il verso paolino come pretesto per cogliere nel profondo il mistero della verità, oltre l’ambito ecclesiale. Già in questa prima lettera si nota una prima stranezza – che è però un’incoerenza – nel senso che don Pavel esclude a priori che per mezzo della ragione, o anche della sapienza, l’uomo possa conoscere e giungere alla verità. L’incoerenza sta nello stesso Florenskij, matematico e scienziato, che non ha mai ripudiato le conoscenze dianoetiche.

Stolp, al contrario, è l’apoteosi della sola via spirituale alla conoscenza, che si fonda sulle parole del Cristo: «Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli»5. Florenskij rigetta quell’interpretazione del testo che indica i «piccoli» come i veri sapienti, al contrario degli intelligenti, che sono «pseudodotti» e «pseudosapienti». No, dice il sacerdote russo: Gesù Cristo intendeva proprio sbarazzarsi della sapienza umana e della razionalità, che «sono insufficienti» alla conoscenza6.

Qua però potrebbe sorgere l’equivoco di rigettare il sapere umano e naturale come inutili. È vero che la scienza umana è insufficiente all’episteme, inteso come grado sommo della conoscenza, ma la teologia occidentale non ha mai escluso dalla verità anche il sapere naturale.

Sant’Agostino, a questo proposito, dà un’esegesi opposta a quella di Florenskij7. Gesù – spiega Agostino – dice di avere «nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti», ma non dice affatto di averle fatte conoscere «agli stolti e agli stupidi». Qua è il punto della questione: i «piccoli» non sono gli stupidi, ma gli «umili», ritenuti degni di conoscere la via della salvezza, che è una via di sapienza e di verità. Al contrario, i «sapienti e gli intelligenti» sono i «superbi», indegni della sapienza e dell’intelligenza.

Tutta la tradizione d’Occidente (Chiesa cattolica) non rigetta la sapienza ma, anzi, «noi predichiamo Cristo crocifisso – scrive san Paolo –, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, […] predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio». Non è scritto che la Croce rimane scandalo e stoltezza, quasi fosse contraria alla ragione. La Croce è dunque sapienza e verità, che è concessa ai piccoli, agli umili.

Come, allora, si può scrivere – come infatti Florenskij scrive – che l’«“infanzia” mentale, il difetto di quella ricchezza intellettuale che ostacola l’ingresso al Regno dei Cieli, può essere la chiave per raggiungere la sapienza dello spirito»? L’ingresso al Regno dei Cieli non è ostacolato dall’intelligenza, né dalla scienza, ma dalla superbia di chi si dice sapiente, come sostiene Agostino. Così pure l’«“infanzia” mentale» non è il «difetto di ricchezza intellettuale», ma l’umiltà dei piccoli, ignoranti o dotti che siano. Lo stesso Florenskij ammette l’esistenza di una «sapienza dello spirito».


NOTE


1 Pavel A. Florenskij, Столп и утверждение истины (Stolp i utverždenie istiny), Put’ Editrice, Mosca, 1914. In questa sede il testo di riferimento è: Pavel A. Florenskij, La colonna e il fondamento della Verità. Saggio di teodicea ortodossa in dodici lettere, Mimesis Edizioni, Roberto Revello (a cura), Emilia Sassi (trad.), Kira Mladič (trad.), 2012. Da qui abbrevio il titolo con Stolp.

2 Stolp, pp. 62-63.

3 Ivi, p. 63.

4 1Tim 3, 15: «columna et firmamentum veritatis».

5 Mt 11, 25.

6 Stolp, p. 64.

7 Agostino d’Ippona, Discorso 67, PL 38, 433-437.


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Lettura e commento integrale della sua opera maggiore: La colonna e il fondamento della Verità1. Parte prima


Il martire Pavel Aleksandrovič Florenskij ha portato nella tomba molti meriti con sé.

Il merito maggiore è la morte cruenta, per fucilazione, dopo la prigionia nel gulag sovietico delle Solovki2. Eppure nessuno apre una causa di beatificazione per lui. Nessuno della chiesa ortodossa; e non perché don Pavel non abbia dato prova di una vita santa, ma semplicemente per una deriva erronea (gli ortodossi dicono eretica) della sua Weltanschauung, della sua visione del mondo.

Quale deriva? Seguace del sofianismo russo3, Florenskij pone accanto al Padre,

al Figlio e allo Spirito Santo – seppure a modo suo, non come Bulgakov o Solov’ëv – una quarta ipostasi: la Sofia, la sapienza di Dio. E questo attiene alla teologia.

Ma Florenskij cade anche sul piano della filosofia, quando pone a fondamento della verità l’«antinomia», ovvero una sorta d’incoerenza congenita.

Conclusioni sorprendenti e deludenti per tanti aspetti. L’unica preoccupazione che sta all’inizio dell’opera di Florenskij, infatti, è la difesa della metafisica e la proposta di una teoria del Tutto, di un sistema completo della realtà. Il pensatore russo non riuscirà mai a produrre qualcosa di sistematico, ma solo per contingenze storiche, dovute alle avversità della vita. Non certo nelle intenzioni: la sua mente abitò l’immensità, l’assoluto, la completezza che si trova solo in Dio.

L’opera maggiore – La colonna e il fondamento della Verità – è solo un’antologia di dodici lettere, dove comunque c’è l’ombra di una certa sistematicità. L’autore, dunque, ha potuto esprimersi, in questa e in altre opere, anche sotto le molte difficoltà, dovute alla persecuzione dei comunisti sovietici. Ne è venuto fuori un lavoro notevole, originale e spesso veritiero, anche rispetto alla teologia occidentale.

E vediamo allora dove il pensiero di Florenskij è grande e dove invece si fa ambiguo, proprio nella sua opera maggiore.


Introduzione del libro: «Al Lettore»

Un senso di delusione appare subito e l’entusiasmo scema alla lettura della prima riga, dove Florenskij esprime «l’intenzione» di questo suo libro: «L’esperienza religiosa viva come unico legittimo mezzo per conoscere i dogmi».

È davvero possibile che l’autore imposti il suo percorso metafisico con un clamoroso aut-aut? E chi giudica se l’esperienza religiosa sia viva o morta? Qual è poi il criterio per cui l’esperienza religiosa è vera o falsa? Florenskij considera solo i santi asceti, la cui esperienza religiosa è certamente viva e vera. E fa bene quando dice che «gli asceti della Chiesa sono vivi per i vivi e morti per i morti». Sì, ma chi giudica chi sia asceta o mentitore? Perché se l’asceta è un mentitore, non solo è fuori dalla Chiesa, ma è morto per i vivi e vivo solo per i morti.

Florenskij spazza via, nelle prime poche righe, il criterio oggettivo, che fonda la metafisica. La delusione è tanto più forte in quanto si tratta dello stesso autore de Le porte regali4, testo profondamente metafisico. Ci aveva deliziato, il sacerdote martire. Aveva parlato dei sogni della salita e dei sogni della discesa, facendoci quasi toccare il mondo metauranico. Aveva parlato della mollezza pittorica occidentale su tela e della solidità iconica orientale, che usa supporti in legno. Criticava l’occidente per via del rinnegamento del canone pittorico. E ancora bacchettava – con piena ragione – il molle occidente, molle anche nel suono dell’organo nelle chiese.

Ora invece (in Stolp), in difesa dell’«indefinibilità dell’ecclesialità ortodossa», assicura che la vita ecclesiale si può comprendere «soltanto vivendola, non astrattamente e razionalmente». Ma la razionalità in Dio non è razionalismo: «la fede senza ragione è superstizione», scriveva Pascal, ispirato da sant’Agostino. Di nuovo un aut-aut infondato: o la vita o la ragione.

Davvero si può accennare al fondamento della verità lodando l’«indefinibilità» e mortificando il «concetto»? Il «concetto» – scrive Florenskij – è ciò che accomuna cattolici e protestanti e che «rende superflua ogni manifestazione di vita». Per il cattolicesimo, però, le cose stanno diversamente: i santi della Chiesa sono una sintesi di vita e di concetto. Nessun santo è stato mai un razionalista (fede ridotta a concetto), né un superstizioso (assenza di concetto e fede cieca).

Non bisogna, dice l’autore, confinare la Chiesa – che è il Corpo di Cristo – in una «definizione logica». E infatti la Chiesa cattolica non rinchiude il pléroma (pienezza) ecclesiale nella definizione logica, ma lo esprime nel dogma, che è ragione e fede insieme.

Arriviamo all’assurdo florenkijano: «l’ortodossia si mostra, non si dimostra». Non è vero, perché la santità è sempre stata mostrata e dimostrata. I teologi maggiori della Chiesa furono anche grandi santi. E dunque mostrarono e dimostrarono, perché diedero sempre ragione della speranza che era in loro (cf. Prima Lettera di Pietro).

Et-et cattolico, non aut-aut protestantico ed ora, qua, anche florenkijano.


NOTE


1 Pavel A. Florenskij, Столп и утверждение истины (Stolp i utverždenie istiny), Put’ Editrice, Mosca, 1914. In questa sede il testo di riferimento è: Pavel A. Florenskij, La colonna e il fondamento della Verità. Saggio di teodicea ortodossa in dodici lettere, Mimesis Edizioni, Roberto Revello (a cura), Emilia Sassi (trad.), Kira Mladič (trad.), 2012. Da qui abbrevio il titolo con Stolp.

2 Nel 1933 Florenkij è arrestato e deportato nel campo di prigionia delle isole Solovki (Mar Baltico). È fucilato l’8 dicembre 1937 presso Stalingrado, almeno secondo una fonte del KGB, rinvenuta dai familiari.

3 O anche «sofiologia»: «Orientamento mistico speculativo promosso da alcuni pensatori russi moderni, in particolare V. S. Solov’ëv, P. Florenskij e S. N. Bulgakov: riallacciandosi a motivi tradizionali del cristianesimo orientale con forti accentuazioni gnostiche e utilizzando motivi presenti nel platonismo rinascimentale e nella mistica di J. Böhme, svolge una concezione metafisico-teologica in cui sophìa (che è insieme l’“eterna armonia”, “unità prodotta dal divino organismo di Cristo”, “umanità ideale perfetta, contenuta ab aeterno nell’essenza totale di Dio o di Cristo”) si rivela in Cristo e si attua nella Chiesa; lo stesso processo storico anzi è un realizzarsi e un progressivo incarnarsi di sophìa» (Enciclopedia Treccani).

4 Pavel A. Florenskij, Le porte regali. Saggio sull’icona, Adelphi, 1977.


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